— Voi Odoniani, invece, fate studiare scienze alle donne? — domandò Oiie.
— Be’, se ne trovano nelle varie scienze, sì.
— Non molte, spero.
— Ecco, metà e metà.
— Ho sempre sostenuto — disse Pae, — che le assistenti non laureate, trattate adeguatamente, potrebbero togliere dalle spalle degli uomini una buona dose di lavoro, in tutte le situazioni di laboratorio. Sono effettivamente più abili e più svelte degli uomini nei lavori ripetitivi, e più docili… si annoiano meno facilmente. Potremmo rendere disponibili gli uomini molto prima perché svolgano lavori originali, se ci servissimo delle donne.
— Non certo nel mio laboratorio, però — disse Oiie. — Che se ne restino al loro posto.
— Lei ha incontrato qualche donna capace di lavoro intellettuale originale, dottor Shevek?
— Be’, è più esatto dire che sono state loro a trovare me. Mitis, nell’Insediamento del Nord, è stata mia insegnante. E così pure Garab; voi la conoscete, credo.
— Garab era una donna? — disse Pae, genuinamente sorpreso. Poi rise.
Oiie non parve convinto. Sembrava offeso, anzi. — Non si può mai capire dai vostri nomi, naturalmente — disse con freddezza. — Voi vi fate un punto d’onore, suppongo, di non fare distinzioni tra i sessi.
Shevek disse in tono blando: — Odo era una donna.
— Ecco la spiegazione — disse Oiie. Non alzò le spalle, ma parve quasi che stesse per farlo. Pae assunse un’aria quasi deferente, e annuì col capo, esattamente come faceva quando il vecchio Atro diceva qualcosa a vanvera.
Shevek si accorse di avere toccato in questi uomini una animosità impersonale che si spingeva fino a livelli molto profondi. Evidentemente anch’essi, come i tavolini dell’astronave, contenevano una donna: una donna rimossa, messa in silenzio, ridotta a una bestia; una furia ingabbiata. Egli non aveva il diritto di stuzzicarli. Essi non conoscevano altra relazione che il possesso. Erano posseduti.
— Una donna dolce e virtuosa — disse Pae, — è la migliore ispirazione… la cosa più preziosa che esista al mondo.
Shevek si sentiva estremamente a disagio. Si alzò e si recò alla finestra. — Il vostro mondo è bellissimo — disse. — Sarei lietissimo di conoscerlo meglio. Mentre dovrò restare chiuso qui dentro, mi potete dare dei libri?
— Ma certo, signore! Che libri?
— Storia, fotografie, racconti, qualsiasi cosa. Forse è meglio che siano libri per bambini. Vedete, io so pochissimo. Sì, ci insegnano qualcosa di Urras, ma si tratta quasi sempre di fatti risalenti all’epoca di Odo. E prima di lei ci sono stati ottomila e cinquecento anni! Inoltre, dall’epoca dell’Insediamento di Anarres è passato un secolo e mezzo; e dopo il giorno in cui l’ultima nave ha portato gli ultimi coloni… ignoranza completa. Noi vi ignoriamo; voi ci ignorate. Voi siete la nostra storia. Noi siamo forse il vostro futuro. E io desidero imparare, e non ignorare. È questa la ragione che mi ha spinto a venire. Dobbiamo conoscerci reciprocamente. Noi siamo dei primitivi. La nostra mentalità non è più quella tribale, non può esserlo. Una simile ignoranza è un torto, da cui possono nascere solamente altri torti. Così, sono venuto per imparare.
Aveva parlato con grande sincerità. Pae annuì, con calore. — Esattamente, signore! Tutti noi siamo perfettamente d’accordo con i suoi scopi!
Oiie lo sogguardò con quei suoi occhi neri, opachi, ovali, e disse: — Allora lei è giunto qui, sostanzialmente, come emissario della sua società?
Shevek tornò a sedere sulla panca di marmo, accanto al focolare: il luogo che egli sentiva già come la propria sede, il proprio territorio. Voleva un territorio. Sentiva l’urgenza che l’aveva portato a spingersi al di là dell’abisso inospitale che separava i due mondi: il bisogno di comunicare, il desiderio di abbattere i muri.
— Sono giunto — disse, facendo attenzione alle parole, — come membro del Gruppo dell’Iniziativa: il gruppo che ha parlato per radio con Urras negli scorsi due anni. Ma non sono, sappiate, l’ambasciatore di alcuna autorità, di alcuna istituzione. Spero che non mi abbiate richiesto qui in tale veste.
— No — disse Oiie. — Noi abbiamo chiesto lei… Shevek il fisico. Con l’approvazione del suo… — Esitò.
Shevek sorrise. — Del mio governo?
— Noi sappiamo che nominalmente non c’è alcun governo su Anarres. Tuttavia è palese che ci deve essere una qualche sorta di amministrazione. E ci pare di capire che coloro che l’hanno mandata, il suo Gruppo, sono una specie di partito o fazione; forse una fazione rivoluzionaria.
— Ogni persona su Anarres è un rivoluzionario, Oiie… La rete amministrativa e dirigenziale è chiamata CDP: Coordinamento della Distribuzione della Produzione. Costituisce un sistema di coordinazione per tutti i gruppi, le cooperative e gli individui che svolgono attività produttive. Non governa le persone: amministra la produzione. Non ha né l’autorità di sostenermi né quella di fermarmi. Può soltanto riferire al mio gruppo l’opinione pubblica nei nostri confonti… la nostra posizione nella coscienza sociale. È questo, ciò che desiderate sapere? Bene, allora: io e i miei amici incontriamo prevalentemente la disapprovazione. La maggior parte della gente di Anarres non vuole sapere nulla di Urras. Temono Urras, e non vogliono avere nulla a che spartire con i proprietaristi. E mi spiace se sono sgarbato! Ma la stessa cosa accade anche qui, per una parte della gente, no? Il disprezzo, la paura, il tribalismo. Bene: a causa di questo stato di cose, io sono venuto qui, per cominciare a cambiare la situazione.
— Totalmente per sua iniziativa personale — disse Oiie.
— È l’unica iniziativa che riconosco — disse Shevek, sorridendo, con la massima serietà.
Trascorse i successivi due giorni a parlare con gli scienziati che venivano a trovarlo, a leggere i libri che Pae gli aveva portato, e a volte, semplicemente, a starsene fermo a quelle finestre dal doppio arco, per osservare l’arrivo dell’estate nella grande valle, e per ascoltare le brevi, dolci conversazioni che si svolgevano all’aria aperta. Uccelli: ora conosceva il nome dei piccoli cantori, e il loro aspetto, grazie alle illustrazioni dei libri, ma ancora, ogni volta che udiva il canto o coglieva il frullo di un’ala tra due alberi, rimaneva immobile, meravigliato come un bimbo.
Aveva pensato che su Urras si sarebbe sentito strano, sperduto, estraneo, confuso: e invece non provava nulla di tutto ciò. Naturalmente c’erano infinite cose ch’egli non comprendeva. Aveva soltanto un avviso, ora, di quanto fosse grande il loro numero: l’intera società, incredibilmente complessa, con tutte le sue nazioni, classi, caste, culti, costumi, e la sua magnifica, stupefacente, interminabile storia. E ciascun individuo da lui incontrato era un enigma, pieno di sorprese. Ma non erano i grossolani, freddi egoisti che egli si aspettava: erano altrettanto complessi e diversificati quanto la loro cultura, quanto il paesaggio che li circondava; ed erano intelligenti; ed erano gentili. Lo trattavano come un fratello, e facevano tutto ciò che potevano per farlo sentire non uno sperduto, non un estraneo, ma un uomo che è a casa propria. Ed egli si sentiva davvero a casa. Non poté evitarlo. L’intero mondo, la morbidezza dell’aria, la luce solare che illuminava le montagne, l’attrazione stessa esercitata da quella gravitazione superiore, gli dicevano che questa era davvero la sua casa, il mondo della sua razza; ed ogni sua bellezza gli apparteneva per diritto di nascita.
Il silenzio, il profondo silenzio di Anarres: egli vi pensava la notte. Laggiù nessun uccello cantava. Laggiù non c’erano altre voci all’infuori di quelle umane. Il silenzio, e il terreno spoglio.
Il terzo giorno, il vecchio Atro gli portò una pila di quotidiani. Pae, che frequentemente teneva compagnia a Shevek, non disse nulla, ma quando l’uomo più anziano si allontanò, disse a Shevek: — Robaccia di nessun valore, questi giornali, signore. Divertenti, ma non creda a nulla di ciò che vi leggerà.
Shevek prese il giornale in cima alla pila. Era stampato malamente su carta ruvida: il primo oggetto malfatto che gli fosse venuto in mano su Urras. In verità sembrava il bollettino del CDP, o i rapporti regionali che su Anarres servivano da giornali, ma il suo stile era molto diverso dalle pubblicazioni anarresiane, seriose, pratiche, scarne. Il giornale urrasiano era pieno di fotografie e di punti esclamativi. C’era una foto di Shevek davanti all’astronave, con Pae che, corrucciato, lo teneva per il braccio. IL PRIMO UOMO DALLA LUNA! diceva la grossa scritta al di sopra della fotografia. Affascinato, Shevek continuò a leggere:
Il suo primo passo sulla terra! Il primo visitatore proveniente dall’Insediamento di Anarres da 170 anni, dott. Shevek, fotografato ieri al suo arrivo con la nave regolare della linea lunare, allo spazioporto di Pei. Il famoso scienziato, vincitore del premio Seo Oen per i servizi resi a tutte le nazioni mediante la sua scienza, ha accettato una cattedra di professore alla Università di Ieu Eun, un onore mai prima accordato a nessun extramondano. Richiesto di quali fossero le sue impressioni nel vedere per la prima volta Urras, l’imponente, celebre fisico ha risposto: «È un grande onore venire invitato sul vostro bellissimo pianeta. Spero che una nuova èra di amicizia pancetiana stia ora per cominciare, un’èra nella quale i Pianeti Gemelli procederanno uniti e affratellati.»
— Ma io non ho detto nemmeno una parola! — disse Shevek, rivolto a Pae.
— Naturalmente, no. Non abbiamo permesso che il mucchio di giornalisti le arrivasse vicino. Ma questo non è certo d’ostacolo per l’immaginazione di un giornalista scandalistico! Riferiranno sempre che avete detto ciò che a loro più garba, indipendentemente da quello che avrete, o non avrete, detto.
Shevek si mordicchiò il labbro. — Be’ — disse infine, — se avessi detto qualcosa, si sarebbe trattato di qualcosa di simile. Ma cosa vuol dire «pancetiano»?
— I Terrestri ci chiamano Cetiani. Dalla parola con cui indicano il nostro sole, mi pare. La stampa popolare ha raccolto questa parola negli ultimi tempi: è una sorta di moda del momento.
— Allora «pan-cetiano» significa Urras e Anarres insieme?
— Penso di sì — disse Pae, con ostentato disinteresse.
Shevek continuò la lettura del giornale. Lesse che era un uomo gigantesco, torreggiante, che non si radeva e che possedeva una «criniera», di qualunque cosa si trattasse, tendente al grigio, che aveva trentasette, quarantratré e cinquantasei anni; che aveva scritto una grande opera di fisica chiamata (il nome esatto variava a seconda dei giornali), Principali della Simultaneità o Princìpi di Simultenìa, che era un ambasciatore amichevole proveniente dal governo degli Odoniani, che era vegetariano, e che, come ogni altro Anarresiano, non beveva. A questo, interruppe la lettura e rise fino a provare dolore alle costole. — Accidenti, hanno davvero dell’immaginazione! Cosa credono, che viviamo di vapore acqueo, come il muschio?
— Intendono dire che lei non beve alcolici — rispose Pae, anch’egli ridendo. — L’unica cosa che tutti sanno, a proposito degli Odoniani, secondo me, è il fatto che non bevete alcolici. Anzi, è vero?
— Alcuni distillano alcool dalle radici fermentate di holum, per berlo. Dicono che dà libero gioco al loro inconscio, come l’addestramento delle onde cerebrali. Ma la maggior parte della gente preferisce quest’ultimo modo: è molto semplice e non causa la malattia. Qui è molto comune?
— Be’, bere alcolici è comune. Quanto alla malattia, non saprei. Come si chiama?
— Alcolismo, mi pare.
— Oh, comprendo… Ma come fanno i lavoratori, su Anarres, per avere un po’ di allegria, per sfuggire per una sera a tutte le sventure del mondo messe insieme?
Shevek parve sorpreso. — Be’, noi… Non so. Forse alle nostre sventure non si può sfuggire?
— Curioso — disse Pae, e sorrise in modo disarmante.
Shevek continuò a leggere. Uno dei giornali era scritto in una lingua ch’egli non conosceva, e uno addirittura in un altro alfabeto. Il primo veniva da Thu, spiegò Pae, e il secondo dal Benbili, una nazione dell’emisfero occidentale. Il giornale proveniente da Thu era ben stampato e aveva un aspetto assai sobrio; Pae spiegò che si trattava di una pubblicazione edita dal governo. — Qui in A-Io, vede, la gente istruita apprende le notizie per telefono, per radio e per televisione, e leggendo i settimanali. I giornali come questi vengono letti quasi esclusivamente dalle classi inferiori… sono scritti da semianalfabeti per semianalfabeti, come lei stesso ha potuto vedere. In A-Io c’è completa libertà di stampa, la qual cosa, inevitabilmente, comporta che si stampi un mucchio di robaccia. Il giornale thuviano è scritto molto meglio, ma riporta unicamente i fatti che il Presidio Centrale Thuviano desidera rendere noti. La censura è assoluta, in Thu. Lo stato è tutto, ed ogni cosa è per lo stato. Non è certamente il posto più adatto a un Odoniano, eh, signore?
— E questo giornale?
— Non ne ho idea. Il Benbili è una nazione arretrata. Laggiù c’è sempre qualche rivoluzione.
— Un gruppo di persone abitanti nel Benbili ci ha inviato un messaggio sulla lunghezza d’onda del nostro gruppo, poco prima che lasciassi Abbenay. Affermavano di essere Odoniani. Ci sono dei gruppi come quello, qui in A-Io?
— No, per quanto ne posso sapere io, dottor Shevek.
Il muro. Shevek ormai sapeva riconoscere il muro, quando arrivava vicino ad esso. Il muro era costituito dalla simpatia di questo giovanotto, dalla sua cortesia, dalla sua indifferenza.
— Ho l’impressione che lei abbia paura di me, Pae — disse d’improvviso, amichevolmente.
— Paura di lei, signore?
— Sì, poiché io sono, con la mia esistenza stessa, una testimonianza contro la necessità dello stato. Ma che c’è, di temibile? Io non le farò mai del male, Saio Pae, lei lo sa. Io, come persona, sono del tutto innocuo… anzi, senta, io non sono un dottore. Noi non usiamo titoli. Io mi chiamo Shevek, e basta.
— Lo so, mi scusi, signore. Ai nostri occhi, capisca, sembra una mancanza di rispetto. Non sembra giusto, ecco tutto… — Si scusava in modo accattivante, aspettandosi il perdono.
— Non può semplicemente accettarmi come un suo uguale? — chiese Shevek, guardandolo senza collera, ma anche senza mostrare di averlo perdonato.
Per una volta, Pae rimase imbarazzato. — Ma veramente, signore, lei è, lo sa, un uomo tanto importante…
— Non c’è allora motivo di cambiare le sue abitudini per me — disse Shevek. — Non importa. Pensavo che lei potesse essere lieto di liberarsi di una cosa non necessaria, tutto qui.
Dopo tre giorni di confino tra quattro mura, Shevek era carico di energie superflue, e quando ritornò libero sottopose a un notevole sforzo coloro che lo scortavano, nella sua sete iniziale di vedere tutto, e tutto insieme. Lo condussero a visitare l’Università, che era una città completa in se stessa, e la facoltà. Con i suoi dormitori, refettori, aule, sale di riunione, e così via, non era molto diversa da una qualsiasi comunità Odoniana, ad eccezione del fatto che era molto antica, esclusivamente maschile, incredibilmente lussuosa e non era organizzata federativamente, bensì gerarchicamente, dalla cima al fondo. Tuttavia, pensò, dava il senso di una comunità. Egli dovette ricordare a se stesso le differenze.
Venne condotto fuori in auto prese a nolo: macchine splendide, di un’eleganza bizzarra. Non ce n’erano molte per la strada: il noleggio era caro, e poche persone possedevano un’auto personale, poiché erano tassate pesantemente. Tutti quei lussi che, se fossero stati permessi liberamente al pubblico, avrebbero consumato risorse naturali insostituibili o avrebbero inquinato l’ambiente con prodotti di scarico, erano strettamente controllati per mezzo di leggi e di tasse. Le sue guide sottolinearono questi particolari, con un certo orgoglio. A-Io era da secoli all’avanguardia, gli dissero, nel controllo ecologico e nella preservazione delle risorse naturali. Gli eccessi del Nono Millennio erano storia antica, e il loro unico effetto duraturo era la scarsità di taluni metalli, che fortunatamente potevano essere importati dalla Luna.