I reietti dell’altro pianeta - Le guin Ursula Kroeber 9 стр.


L’uomo, che pareva sulla cinquantina e che aveva il volto solcato da rughe, consumato, disse una frase di cui Shevek non afferrò neppure una parola, e non strinse la mano che gli veniva offerta. Forse erano i pacchetti a impedirglielo, ma egli non fece mossa di spostarli per liberarsi la mano. Il suo viso aveva un’espressione estremamente seria. Era possibile che fosse in imbarazzo.

Shevek, che era certo di avere imparato i modi di salutare degli urrasiani, era sconcertato. — Venga avanti — ripeté, e quindi aggiunse, dato che gli urrasiani erano avvezzi a usare titoli ad ogni piè sospinto: — Signore!

L’uomo se ne uscì con un’altra delle sue frasi incomprensibili, e intanto scivolò verso la camera da letto. Questa volta Shevek riconobbe alcune parole iotiche, ma non riuscì a capire le altre che le accompagnavano. Non cercò di fermare l’uomo, dato che pareva intenzionato a recarsi in camera da letto. Forse si trattava di un compagno di stanza? Ma c’era un letto solo. Shevek lasciò perdere la cosa e tornò alla finestra, e l’uomo si affrettò a entrare nella stanza; Shevek lo sentì muoversi lì dentro ancora per alcuni minuti. Proprio mentre Shevek era giunto alla conclusione che si trattava di qualche lavoratore che faceva il turno di notte e che usava quella stanza durante il giorno, come a volte si faceva in caso di temporanei sovraffollamenti dei domicili, l’uomo riapparve dalla stanza. Disse qualche parola («Ecco fatto, signore», forse?) e piegò la testa in un modo alquanto bizzarro, come se credesse che Shevek, che distava da lui almeno cinque metri, stesse per dargli un pugno in faccia. Poi se ne andò. Shevek rimase fermo accanto alla finestra, intento a comprendere lentamente come per la prima volta qualcuno gli avesse rivolto un inchino.

Entrò nella camera da letto e scoprì che il letto era stato rifatto.

Lentamente, pensosamente, si rivestì. Si stava infilando le scarpe quando udì battere all’uscio una seconda volta.

Si trattava di un gruppo di persone, che entrarono in modo assai diverso dal precedente; entrarono in modo normale, pensò Shevek, come se avessero il diritto di trovarsi lì, o in qualsiasi altro posto in cui piacesse loro di andare. L’uomo con i pacchetti si era comportato in modo esitante, era entrato in modo quasi furtivo. E tuttavia il suo volto, le sue mani, i suoi abiti corrispondevano all’idea che Shevek aveva dell’aspetto di un normale essere umano: vi corrispondevano molto più che non l’aspetto dei nuovi venuti. L’uomo furtivo si era comportato in modo strano, ma era sembrato un anarresiano. I quattro che erano giunti ora si comportavano come anarresiani. ma il loro aspetto, con quel loro viso rasato e quei vestiti sgargianti, pareva quello di individui appartenenti a una specie diversa, di un altro mondo.

Shevek riuscì a riconoscere Pae in uno di essi; gli altri erano persone che erano rimaste accanto a lui per tutta la sera precedente. Spiegò di non avere afferrato bene i loro nomi, ed essi ripeterono le presentazioni, con un sorriso: dottor Chifoilisk, dottor Oiie e dottor Atro.

— Oh, accidenti! — esclamò Shevek. — Atro! Come sono lieto di incontrarti! — Posò le mani sulle spalle dell’uomo più anziano e gli baciò la guancia, prima che gli venisse in mente che quel saluto fraterno, comunissimo su Anarres, qui forse era inaccettabile.

Atro, invece, lo abbracciò a sua volta con trasporto, e lo fissò con occhi grigi e lucidi. Shevek si accorse che era quasi cieco. Mio caro Shevek — disse, — benvenuto in A-Io… benvenuto su Urras… benvenuto a casa!

— Per tanti anni ci siamo scritti soltanto delle lettere, distruggendoci reciprocamente le teorie!

— Tu sei sempre stato il miglior distruttore. Ecco, tieni, ti devo dare una cosa. — Il vecchio si frugò nelle tasche. Sotto la toga universitaria di velluto indossava una giacca, e sotto di essa un panciotto, poi, sotto ancora, una camicia, e probabilmente un altro strato di indumenti ancora. Ciascuno di questi, e anche i calzoni, aveva tasche. Shevek rimase a guardare, affascinato. Atro che esplorava in successione sei o sette tasche, ciascuna delle quali conteneva alcuni oggetti di sua proprietà, e poi tirava fuori un piccolo cubo di metallo giallo montato su un pezzo di legno levigato. — Ecco — disse, portandoselo davanti agli occhi. — Il tuo premio. Il premio Seo Oen, sai già. L’assegno ti è stato versato nel conto. Tieni. Nove anni di ritardo, ma è meglio tardi che mai. — Gli tremavano le mani mentre consegnava a Shevek l’oggetto.

Era pesante; il cubo giallo era d’oro massiccio. Shevek rimase immobile, con il premio in mano.

— Non so cosa vogliate fare voialtri giovanotti — disse Atro, — ma io adesso mi siedo. — Tutti si accomodarono nelle poltrone profonde e morbide; Shevek le aveva già esaminate in precedenza, ed era incuriosito dal materiale di cui erano coperte: un materiale marrone che non era un tessuto e che al tatto pareva pelle. — Quanti anni avevi, nove anni fa, Shevek?

Atro era il più importante fisico urrasiano vivente. Non c’era in lui soltanto la dignità degli anni, ma anche la schietta sicurezza delle persone abituate a venire rispettate. Non si trattava di una cosa nuova per Shevek. Atro aveva esattamente l’unico tipo di autorità che Shevek potesse ammettere. Inoltre gli piaceva, finalmente, che qualcuno si rivolgesse a lui parlandogli in modo tanto familiare.

— Avevo ventinove anni quando finii i Princìpi, Atro.

— Ventinove? Santo Dio. Sei quindi il più giovane Premio Seo Oen negli ultimi cento anni. Non si sono decisi a darmi il mio finché non ho avuto sessant’anni o giù di lì… Quanti anni avevi allora, quando mi hai scritto per la prima volta?

— Circa venti.

Atro sbuffò. — Ti avevo preso per un quarantenne, all’epoca! — disse.

— E Sabul? — domandò Oiie. Oiie aveva una statura ancora più bassa di quella media degli urrasiani, che parevano tutti piccini a Shevek; aveva volto pacioso e ovale, occhi neri come giaietto. — C’è stato un periodo di sei, sette anni in cui lei non ci ha scritto, e i contatti con noi venivano tenuti da Sabul; ma Sabul non ha mai parlato con noi mediante il ponte radio del vostro pianeta. Ci siamo spesso chiesti quale fosse il rapporto tra voi.

— Sabul è il membro anziano per la fisica all’Istituto di Abbenay — disse Shevek. — Io lavoravo con lui.

— Un rivale più anziano; geloso; ha messo le mani nei libri di Shevek; la cosa era abbastanza chiara. Non c’è bisogno di spiegazione, Oiie — disse il quarto del gruppo, Chifoilisk, con voce brusca. Era di mezza età: un uomo di carnagione più scura, robusto, con le mani curate della persona che lavora a tavolino. Era l’unico di loro che non si radesse completamente la faccia: si era lasciato la peluria sul mento, per equilibrare i capelli corti, color grigio ferro. — Non è il caso di pretendere che tutti voi fratelli odoniani siate pieni di amore fraterno — disse. — La natura umana è sempre quella.

L’assenza di una risposta da parte di Shevek sarebbe potuta parere assai significativa, ma egli venne salvato da una serie di starnuti. — Non ho un fazzoletto — si scusò, strofinandosi gli occhi.

— Prendi il mio — disse Atro, ed estrasse da una delle proprie tasche un fazzoletto, bianco come la neve. Shevek lo prese, e mentre così faceva, un ricordo importuno gli strinse il cuore. Ricordò la propria figlia Sedik, una bambina piccola, dagli occhi scuri, che gli diceva: — Puoi dividere con me il fazzoletto che uso. — Quel ricordo, che gli era molto caro, ora risultò insopportabilmente doloroso per lui. Per sfuggire a quel peso, sorrise a caso e disse: — Sono allergico al vostro pianeta. Così dice il dottore.

— Santo Dio, non continuerai eternamente a starnutire come adesso? — gli chiese il vecchio Atro, scrutandolo attentamente.

— Non è ancora arrivato il suo addetto? — disse Pae.

— Il mio addetto?

— Il cameriere. Doveva portarle alcune cose. Tra cui i fazzoletti. Quel che le può occorrere per i primi momenti, finché lei andrà a scegliersi quello che più le piace. Niente di lussuoso… anzi, temo che non si possa trovare nulla di lussuoso, tra la roba su misura, per un uomo della sua altezza!

Quando Shevek ebbe dipanato tutto questo discorso (Pae parlava rapidamente, senza pronunciare bene le parole: questo si adattava ai suoi lineamenti delicati e aggraziati), disse: — È stato un pensiero assai gentile. Mi sento… — Guardò Atro. — Io sono, devi sapere, il Mendicante — disse all’uomo più anziano, come già aveva detto al dottor Kimoe sulla nave. — Non ho potuto portare denaro, noi non ne usiamo. Non ho potuto portare doni, non usiamo nulla di cui voi abbiate bisogno. E così sono venuto, da buon Odoniano, «a mani vuote».

Atro e Pae gli assicurarono che era un ospite, che non si doveva assolutamente parlare di pagamento, che era per loro un onore. — E inoltre — intervenne Chifoilisk con la sua voce acida, — il Governo lotico paga il conto.

Pae gli rivolse un’occhiataccia, ma Chifoilisk, invece di restituirgliela, fissò negli occhi Shevek. Sul suo viso scuro compariva un’espressione ch’egli non cercò di nascondere in alcun modo, ma che Shevek non riuscì a interpretare: avvertimento, o complicità?

— Ha parlato il thuviano impenitente — disse il vecchio Atro, con il suo sbuffo abituale. — Ma cosa intendi dire, Shevek, che non hai portato nulla con te… nessuno scritto, nessun nuovo lavoro? Aspettavo con ansia un tuo libro. Una nuova rivoluzione nella fisica. Vedere mettere a posto questi giovanotti invadenti, come hai messo a posto me con i Princìpi. Su che cosa hai lavorato, negli ultimi tempi?

— Be’, ho letto l’articolo di Pae… del dottor Pae sull’universo-blocco, il Paradosso e la Relatività.

— Ottimo. Saio è il nostro divo del momento, non c’è dubbio. Soprattutto nella sua stessa mente, eh, Saio? Ma che cosa c’entra con i nostri affari? Dov’è la tua Teoria Temporale Generale?

— Qui, nella mia testa — disse Shevek con un sorriso ampio, allegro.

Ci fu una brevissima pausa.

Oiie gli chiese se avesse visto il lavoro sulla teoria della relatività scritto da un altro fisico, Ainsetain di Terra. Shevek non l’aveva visto. Tutti si interessavano animatamente dell’argomento, ad eccezione di Atro, che ormai si era lasciato alle spalle, con l’età, l’animazione. Pae corse alla propria stanza a prendere una copia della traduzione per Shevek. — Ha già alcune centinaia di anni, ma contiene delle idee freschissime per noi — disse.

— Può darsi — disse Atro. — Ma nessuno di questi forestieri riesce a seguire la nostra fisica. Gli Hainiti la chiamano materialismo, e i Terrestri la chiamano misticismo: a questo punto, entrambi lasciano perdere. Non lasciarti portare su un binario morto da queste mode per tutto ciò che è forestiero, Shevek. In esse non c’è niente per noi. Scavati da te le tue patate, come diceva sempre mio padre. — Ripeté il suo sbuffo senile e si alzò a forza di braccia dalla poltrona. — Vieni a fare un giro in giardino con me. Non c’è da stupirsi che tu abbia il naso chiuso, a stare in gabbia qui dentro.

— Il dottore dice che devo rimanere in questa stanza per tre giorni. Potrei essere… infettato? Infettivo?

— Non dare mai ascolto ai dottori, caro amico.

— Forse sì, in questo caso, dottor Atro — suggerì Pae, col suo tono tranquillo, conciliante.

— Dopo tutto, quel dottore viene dal Governo, no? — disse Chifoilisk, con chiara malignità.

— Il migliore che hanno potuto trovare, ne sono certo — disse Atro, senza sorridere, e se ne andò senza insistere con Shevek. Chifoilisk se ne andò con lui. I due uomini più giovani rimasero con Shevek, a parlare di fisica, per lungo tempo.

Con immenso piacere, e con il senso profondo di riconoscere qualcosa, di trovare che una cosa è esattamente come dovrebbe essere, Shevek scoprì per la prima volta nella sua vita la conversazione di persone uguali a lui.

Mitis, sebbene fosse stata una splendida insegnante, non era mai stata capace di seguirlo nelle nuove aree di teoria che egli, con l’incoraggiamento di lei, aveva cominciato a esplorare. Garab era l’unica persona da lui incontrata la cui istruzione e la cui abilità fossero paragonabili alla propria, ma egli e Garab si erano incontrati troppo tardi, quasi alla fine della vita di lei. Da allora Shevek aveva lavorato con molte persone di talento, ma poiché egli non era un membro a tempo pieno dell’Istituto di Abbenay, non era stato capace di portarle abbastanza avanti: esse rimanevano impantanate nei vecchi problemi, la classica fisica Sequenziale. Egli non aveva avuto uguali. Qui, nel regno dell’ineguaglianza, egli finalmente li incontrò.

Fu una rivelazione, una liberazione. Fisici, matematici, astronomi, logici, biologi, tutti erano all’Università, e si recavano da lui o lo accoglievano in visita, e parlavano con lui, e dalle loro parole nascevano mondi nuovi. È nella natura delle idee il fatto di essere comunicate: scritte, dette, fatte. L’idea è come l’erba. Brama la luce, ama le folle, s’irrobustisce con gli incroci, cresce più forte se la si calpesta.

Già in quel primo pomeriggio all’Università, con Oiie e Pae, egli seppe di avere trovato qualcosa che gli era mancato fin da quando, da ragazzi e su un livello da ragazzi, egli e Tirin e Bedap solevano parlare fino a tarda notte stuzzicandosi e sfidandosi reciprocamente a voli mentali sempre più temerari. Egli ricordava ancora vivacemente alcune di quelle serate. Gli parve di vedere Tirin; Tirin che diceva: «Se sapessimo com’è veramente Urras, forse qualcuno di noi desiderebbe andarci.» Ed egli era stato così sconvolto dall’idea, che era balzato addosso a Tirin, e Tirin si era immediatamente tirato indietro; si era tirato indietro ogni volta, povera anima inquieta, e aveva sempre avuto ragione.

La conversazione era cessata. Pae e Oiie stavano in silenzio.

— Mi spiace — egli disse. — La testa è pesante.

— Come va, con la gravità? — chiese Pae, con il sorriso affascinante di un uomo che, come un bambino intelligente, faccia affidamento sulle proprie attrattive.

— Non me ne accorgo — disse Shevek. — Solo nelle, come si dice?

— Ginocchia… articolazioni delle ginocchia.

— Sì, ginocchia. La funzione ne è diminuita. Ma mi abituerò. — Fissò Pae, quindi Oiie. — C’è una domanda. Ma non vorrei offendere.

— Non abbia paura, signore! — disse Pae.

Oiie disse: — Non credo che saprebbe come fare. — Oiie non era un tipo simpatico come Pae. Anche nel parlare di fisica, aveva un modo di fare evasivo, riservato. Eppure, al di sotto del modo di fare, c’era qualcosa, Shevek sentiva, di cui fidarsi; mentre invece sotto il fascino di Pae che cosa c’era? Bene, lasciamo perdere. Doveva avere fiducia in ciascuno di loro, e si ripromise di averla.

— Dove sono le donne?

Pae rise. Oiie sorrise e chiese: — In che senso?

— In tutti i sensi. Ho conosciuto donne al ricevimento, ieri sera… cinque, dieci… e centinaia di uomini. Nessuna di esse era uno scienziato, credo. Chi erano, allora?

— Mogli. Una di esse era mia moglie, anzi — disse Oiie, con il suo sorriso riservato.

— Dove sono le altre donne?

— Oh, nessuna difficoltà sotto questo aspetto, signore — si affrettò a dire Pae. — Basta che lei ci dica le sue preferenze, e non ci sarà difficoltà a procurargliele.

— Si sentono delle illazioni assai pittoresche sui costumi che regnano su Anarres, ma credo che possiamo trovare qualsiasi cosa lei abbia in mente — disse Oiie.

Shevek non aveva idea di cosa stessero dicendo. Si grattò la nuca. — Allora, tutti gli scienziati, qui, sono degli uomini?

— Scienziati? — disse Oiie, incredulo.

Pae tossichiò. — Scienziati. Oh, sì, certamente, sono tutti uomini. Ci sono alcune insegnanti nelle scuole femminili, com’è naturale. Ma non superano quasi mai il livello del diploma.

— Perché no?

— Non riescono a capire la matematica; non hanno testa per il pensiero astratto; non è roba loro. Lei sa com’è, quello che le donne chiamano «pensare» viene fatto con l’utero! E naturalmente ci sono sempre delle eccezioni. Donne con tanto di cervello, e con l’atrofia vaginale.

Назад Дальше