I reietti dell’altro pianeta - Le guin Ursula Kroeber 2 стр.


Il dottore aveva esaminato la sua spalla contusa (la contusione aveva sorpreso Shevek; la tensione e la fretta non gli avevano fatto comprendere bene ciò che era successo al campo di atterraggio, e non si era accorto della pietra che lo aveva colpito di striscio). Ora il dottore si voltò verso di lui, con in mano una siringa ipodermica.

— Non voglio — disse Shevek. Il suo iotico parlato era lento, e, come aveva notato nelle comunicazioni radiofoniche, pronunciato male, ma la grammatica era abbastanza giusta. Aveva più difficoltà a capire che a parlare.

— È vaccino per il morbillo — disse il dottore, professionalmente sordo alla richiesta.

— No — disse Shevek.

Il dottore si morsicò il labbro per un istante e poi disse: — Signore, sa che cos’è il morbillo?

— No.

— Una malattia. Contagiosa. Spesso assai grave negli adulti. Su Anarres non la conoscete; le misure profilattiche adottate nel corso del primo insediamento del pianeta sono riuscite a tenerla lontano. Su Urras è molto diffusa. Potrebbe ucciderla. Come, del resto, un’altra decina di infezioni da virus altrettanto comuni. Lei non ha acquisito la resistenza. Che mano usa, signore, la destra?

Shevek, automaticamente, scosse la testa. Con la grazia di un prestigiatore, il dottore gli infilò l’ago nel braccio destro. Shevek sopportò in silenzio questa e altre iniezioni. Non aveva né il diritto di diffidare né quello di protestare. Si era consegnato a quelle persone; aveva rinunciato al suo diritto di decisione, nato insieme con lui. Quel diritto se n’era andato, era caduto insieme con il suo mondo, con il mondo della Promessa, la pietra spoglia.

Il dottore riprese a parlare, ma egli non l’ascoltò.

Per ore o giorni esistette in un vuoto: un vuoto miserabile e secco, privo di passato e di futuro. Le pareti s’innalzavano opprimenti intorno a lui. Al di là di esse c’era il silenzio. Braccia e natiche gli dolevano a causa delle iniezioni; la febbre non si alzò mai fino al delirio, ma lo mantenne in un limbo tra la ragione e l’assenza di ragione, in una terra di nessuno. Il tempo non passava. Il tempo non esisteva. Egli era il tempo: egli soltanto. Era il fiume, la freccia, la pietra. Ma non si muoveva. La pietra rimaneva immobile nel mezzo della traiettoria. Non c’erano né giorno né notte. A volte il dottore spegneva la luce, o l’accendeva. C’era un orologio, incassato nella parete accanto al letto; la lancetta passava dall’uno all’altro dei venti numeri del quadrante, senza significato.

Si destò dopo un sonno lungo e profondo, e poiché era rivolto in direzione dell’orologio, lo osservò in modo ancora sonnolento. La lancetta era poco più avanti del numero 15, la qual cosa, se anche quel quadrante iniziava dalla mezzanotte, come gli orologi anarresiani da 24 ore, significava che era pomeriggio inoltrato. Ma come poteva esistere il pomeriggio nello spazio tra due mondi? Be’, la nave doveva seguire un proprio fuso orario, in fin dei conti. Il fatto di essere riuscito a spiegarsi tutto questo lo rincuorò immensamente. Si rizzò a sedere e non provò stordimento. Scese dal letto e cercò di stare in piedi: l’equilibrio era soddisfacente, anche se gli pareva che le piante dei piedi non fossero perfettamente a contatto con il pavimento. Il campo di gravità della nave, evidentemente, doveva essere piuttosto debole. Quella sensazione non gli piacque: le cose che più gli occorrevano erano la stabilità, la solidità, la realtà ferma. Per poterle trovare, cominciò metodicamente a ispezionare la piccola stanza.

Le pareti spoglie erano piene di sorprese, pronte a rivelarsi a un tocco su un piccolo pannello: lavandino, cesso, specchio, tavolino, sedia, armadio, ripiani. C’erano vari apparecchi elettrici assolutamente misteriosi, relativi al lavandino, e il rubinetto dell’acqua non si chiudeva automaticamente una volta terminata la pressione, ma continuava a versare fino a quando non lo si chiudeva: un’indicazione, pensò Shevek, o di una grande fiducia nella natura umana, o di una grande disponibilità di acqua calda. Pensando che la seconda ipotesi fosse quella giusta, si lavò completamente, e, non scorgendo alcuna salvietta, si asciugò per mezzo di uno degli strumenti misteriosi, che emetteva un soffio piacevole e solleticante di aria calda. Poiché non gli riuscì di trovare i suoi abiti, indossò nuovamente quelli che si era trovato addosso al risveglio: calzoni larghi e annodati in vita, tunica priva di forma, entrambi di colore giallo vivo con piccole macchie blu. Si osservò allo specchio. Gli parve che l’effetto complessivo fosse assai sgraziato. Così, dunque, si vestivano su Urras? Cercò invano un pettine, rimediò con le dita, e, ripulito, fece per lasciare la stanza.

Non poté lasciarla. La porta era chiusa a chiave.

L’incredulità iniziale di Shevek si trasformò in rabbia: una rabbia, un cieco desiderio di violenza, quale egli non aveva mai sperimentato in precedenza, in tutto il corso della sua vita. Cercò di spezzare la robusta maniglia della porta, picchiò le mani contro il metallo liscio, poi si voltò e colpì con il pugno il pulsante di chiamata, da usare, gli aveva detto il dottore, in caso di necessità. Nulla accadde. C’erano altri piccoli pulsanti numerati, di colori differenti, sul pannello dell’intercom; picchiò le mani su tutti, in una sola volta. L’altoparlante della parete cominciò a brontolare: «Che diavolo sì vengo metta a posto dalla ventidue…».

Shevek superò tutte quelle voci: — Aprite la porta!

La porta si aprì, e il dottore fece capolino. Alla vista della sua testa calva, della sua faccia giallognola e preoccupata, la collera di Shevek si raffreddò e andò a ritirarsi in una sua tenebra interiore. Disse: — La porta era chiusa a chiave.

— Mi dispiace, dottor Shevek… una precauzione… contagio… per chiudere fuori gli altri…

— Chiudere fuori, chiudere dentro: il medesimo atto — disse Shevek, abbassando sul dottore il suo sguardo chiaro, lontano.

— Le precauzioni…

— Precauzioni? Devo star chiuso in una scatola?

— Il quadrato ufficiali — si affrettò a proporre il medico, come offerta di pace. — Ha fame, signore? Forse desidera vestirsi prima che andiamo nel quadrato.

Shevek osservò i vestiti del dottore; calzoni azzurri aderenti, infilati in stivali che parevano levigati e sottili come il tessuto; tunica color viola, aperta sul davanti e allacciata con alamari d’argento; al di sotto di questa, visibile soltanto al collo e ai polsi, una camicia di maglia d’i un bianco abbagliante.

— Non sono vestito? — chiese Shevek, alla fine.

— Oh, il pigiama può andare benissimo, dopotutto. Non ci sono formalità su una nave mercantile!

— Pigiama?

— Quello che lei indossa. Indumenti per dormire.

— Indumenti da indossare mentre si dorme?

— Sì.

Shevek batté le palpebre. Non fece commenti. Domandò: — Dove sono gli abiti che indossavo?

— I suoi abiti? Li ho fatti pulire… Sterilizzazione. Spero che la cosa non le dia fastidio, signore… — Andò a ispezionare un portellino che Shevek non aveva notato, e ne trasse un pacchetto avvolto in un foglio di carta di color verde chiaro. Svolgendo la carta, ne trasse il vecchio abito di Shevek, che pareva molto pulito e forse leggermente ridotto di taglia, accartocciò il foglio di carta verde, azionò un altro pannello, gettò la carta nel contenitore che era apparso, e rivolse a Shevek un sorriso incerto. — Ecco fatto, dottor Shevek.

— Che cosa succede alla carta?

— Carta?

— La carta verde.

— Oh, l’ho messa nella spazzatura.

— Spazzatura?

— Sì, come l’immondizia. La bruciano.

— Voi bruciate la carta?

— Oh, forse si limitano a gettarla nel vuoto. Non so. Non ho studiato medicina dello spazio, dottor Shevek. Mi è stato conferito l’onore di attendere alle sue necessità, signore, a causa della mia esperienza con altri visitatori extramondani: gli ambasciatori di Terra e di Hain. Io mi occupo delle procedure di decontaminazione e di acclimatazione per tutti gli stranieri che giungono in A-Io. Non che lei, beninteso, sia uno straniero nello stesso senso, naturalmente. — Rivolse un’occhiata timida a Shevek, che non riuscì ad afferrare tutte le parole, ma che riconobbe la natura ansiosa, diffidente, bene intenzionata sotto le parole.

— No — lo rassicurò Shevek, — forse abbiamo una bisavola in comune, duecento anni fa, su Urras. — Cominciò a rimettersi i suoi vecchi vestiti, e mentre infilava la testa nella camicia vide che il dottore cacciava gli «indumenti per dormire» blu e gialli nel contenitore della «spazzatura». Shevek s’interruppe, con ancora il colletto all’altezza del naso. Infilò completamente la testa, si inginocchiò e aprì il contenitore. Era vuoto.

— Gli indumenti vengono bruciati?

— Oh, si trattava di un pigiama di poco conto, di quelli per servizio. Metti e butta via, come si suol dire; costa meno che farlo pulire.

— Costa meno — ripeté Shevek, in tono meditativo. Pronunciò quelle parole nel modo in cui un paleontologo poteva osservare un fossile: il fossile che rivela la datazione di un intero strato geologico.

— Temo che il suo bagaglio sia andato perduto in quell’ultimo tratto di corsa, per raggiungere la nave. Spero che non vi fosse qualcosa di realmente importante.

— Non ho portato nulla — disse Shevek. Anche se il suo abito era stato candeggiato fino quasi a diventare bianco e si era ristretto un poco, gli andava ancora bene, e il contatto ruvido e familiare della tela di holum era assai piacevole. Tornò a sentirsi se stesso. Si sedette sul letto, davanti al dottore, e disse: — Vede, so che voi non vi limitate a prendere le cose, come noi. Nel vostro mondo, su Urras, una persona deve comprare le cose. Io sono venuto nel vostro mondo, non ho denaro, non posso comprare, e dunque dovrei portare con me ciò che mi occorrerà. Ma quanto posso portare? Vestiti, sì, potrei portare due vestiti. Ma il cibo? Come posso portare una quantità sufficiente di cibo? Non ne posso portare, non ne posso comprare. Se volete che viva, dovete darmelo. Io sono anarresiano, e costringo gli urrasiani a comportarsi come gli anarresiani; dare, invece di vendere. Se volete. E, naturalmente, non è necessario che mi teniate in vita! Io sono il Mendicante, capisce?

— Oh, ma niente affatto, signore, no, no. Lei è un ospite che ci fa un altissimo onore. La prego, non giudichi tutti noi dall’equipaggio di questa nave: sono persone molto ignoranti, molto limitate… non ha idea dell’accoglienza che riceverà al suo arrivo su Urras. Dopotutto lei è uno scienziato di celebrità mondiale… anzi, galattica! Ed è il nostro primo visitatore di Anarres! Le garantisco, le cose saranno molto diverse quando arriveremo al Campo di Pei.

— Non dubito che saranno diverse — rispose Shevek.

La Rotta Lunare richiedeva normalmente quattro giorni e mezzo all’andata e altrettanti al ritorno, ma questa volta vennero aggiunti al volo di ritorno cinque giorni di acclimatazione a vantaggio del passeggero. Shevek e il dottor Kimoe li trascorsero in vaccinazioni e conversazioni. Il capitano del Pensiero li passò in orbita attorno a Urras, bestemmiando. Quando doveva parlare con Shevek, lo faceva in modo imbarazzato e irrispettoso. Il dottore, che era sempre pronto a spiegare qualsiasi cosa, aveva già pronta una propria analisi: — È abituato a considerare tutti gli stranieri come inferiori, come persone non pienamente umane.

— La creazione di pseudo specie, così la definiva Odo. Già. Pensavo che forse, su Urras, la gente avesse cessato di pensare a quel modo, dato che avete molte lingue e molte nazioni, e perfino visitatori provenienti da altri sistemi solari.

— Be’, assai pochi di questi, dato che il viaggio interstellare è così costoso e lento. Ma forse non sarà sempre così — aggiunse il dottor Kimoe, con l’intenzione, evidentemente, di fare un complimento a Shevek o di farlo parlare. Shevek ignorò tale intenzione.

— Il Secondo Ufficiale - disse, — pare avere timore di me.

— Oh, per quello là si tratta di fanatismo religioso. È un epifanista di stretta osservanza. Recita i Primi ogni sera. Una mente completamente priva di elasticità.

— Dunque egli mi vede… in che modo?

— Come un pericolosissimo ateo.

— Ateo! E perché mai?

— Be’, perché lei è un Odoniano di Anarres… su Anarres non ci sono religioni.

— Non ci sono religioni? E che siamo, su Anarres, pietre?

— Voglio dire religioni regolari… chiese, sette… — Kimoe era facile a confondersi. Aveva la sicurezza sbrigativa tipica dei medici, ma Shevek gliela sconvolgeva continuamente. Ogni sua spiegazione terminava, dopo due o tre domande di Shevek, in confusioni. Ciascuna risposta dava per assodate talune relazioni che l’altro, invece, non riusciva neppure a scorgere. Ad esempio, la curiosa faccenda della superiorità e dell’inferiorità. Shevek sapeva che il concetto di superiorità, di altezza relativa, era importante per gli urrasiani; essi spesso usavano la parola «superiore» come sinonimo di «migliore» nei loro scritti, in punti in cui un anarresiano avrebbe detto «più centrale». Ma che aveva a vedere, il fatto di essere più alto, con il fatto di essere straniero? Era un enigma tra centinaia d’altri.

— Comprendo — disse ora, mentre un altro enigma si chiariva. — Voi non ammettete religioni al di fuori delle chiese, così come non ammettete moralità al di fuori delle leggi. Lei sa, non avevo capito neppure quello, nonostante tutte le mie letture di libri urrasiani.

— Be’, oggigiorno qualsiasi persona illuminata ammette…

— Il vocabolario rende tutto difficile — disse Shevek, portando avanti la propria scoperta. — In pravico, la parola religione è scarsa. No, come dite voi? … rara. Non usata frequentemente. Naturalmente si tratta di una delle Categorie: il Quarto Modello. Poche persone imparano a praticare tutti i Modelli. Ma i Modelli sono costituiti di naturali capacità della mente, e potreste voi credere seriamente che noi non abbiamo capacità per la religione? Che noi siamo capaci di conoscere la fisica ma siamo tagliati fuori dalla relazione più profonda che l’uomo abbia col cosmo?

— Oh, no, niente affatto…

— Allora, sì, saremmo davvero una pseudo specie!

— Una persona istruita riuscirebbe certamente a comprenderlo, ma questi ufficiali sono ignoranti.

— Soltanto ai fanatici, allora, si permette di uscire nel cosmo?

Tutte le loro conversazioni erano simili a questa: spossanti per il dottore, e poco soddisfacenti per Shevek, ma profondamente interessanti per entrambi. Erano l’unico modo per Shevek di esplorare il nuovo mondo che lo attendeva. La nave stessa, e la mente di Kimoe, erano il suo microcosmo. Non c’erano libri a bordo del Pensiero, gli ufficiali evitavano Shevek e gli uomini dell’equipaggio venivano tenuti rigorosamente lontani da lui. E per ciò che riguardava la mente del dottore, per quanto fosse intelligente e certamente bene intenzionata, era un guazzabuglio di artefatti intellettuali ancor più sconcertanti di tutti quegli aggeggi, accessori e servizi vari di cui l’astronave era piena. Questi ultimi parevano assai divertenti a Shevek; ogni cosa era data in tale abbondanza, era così elegante ed estrosa; ma Shevek non trovò altrettanto agevole l’arredamento interno della mente di Kimoe. Le idee di Kimoe non parevano mai capaci di procedere lungo un cammino rettilineo; ogni volta dovevano aggirare questo, evitare quello, e poi finivano a sbattere in pieno contro qualche muro. C’erano delle muraglie attorno a ciascuno dei suoi pensieri, ed egli pareva assolutamente inconsapevole della loro esistenza, anche se eternamente continuava a nascondersi dietro di esse. Solo una volta Shevek ne vide cadere una, in tutte le loro giornate di conversazione tra i mondi.

Gli aveva chiesto perché non c’erano donne sulla nave, e Kimoe aveva risposto che il funzionamento di una nave spaziale non era lavoro da donne. I corsi di storia seguiti, la conoscenza degli scritti di Odo, fornivano a Shevek un contesto entro cui collocare questa risposta tautologica, ed egli non aggiunse altro. Ma il dottore a sua volta gli rivolse una domanda a proposito di Anarres: — È vero, dottor Shevek, che le donne, nella vostra società, sono trattate esattamente come gli uomini?

Назад Дальше