— Sarebbe uno spreco di ottimo materiale — disse Shevek, ridendo; poi rise ancora quando si rese conto di quanto fossero ridicole le piene implicazioni di quell’idea.
Il dottore esitò, evidentemente occupato ad aggirare nel modo migliore uno degli ostacoli interni della sua mente, poi parve confuso e disse: — Oh, no, non intendevo riferirmi al lato sessuale… è chiaro che lei… che le donne… volevo dire, per quanto riguarda il loro stato sociale.
— Stato ha ora il significato di classe?
Kimoe cercò di spiegare lo stato sociale, non ci riuscì e infine ritornò all’argomento di partenza. — Non c’è veramente distinzione tra il lavoro degli uomini e quello delle donne?
— Be’, no, mi parrebbe una base un po’ troppo meccanica per la divisione del lavoro, non dice? Una persona si sceglie il lavoro in base agli interessi, alla disposizione, alla robustezza… che c’entra il sesso con questo?
— Gli uomini sono fisicamente più forti — affermò il dottore, con sicurezza professionale.
— Sì, varie volte, e anche più grossi, ma che importanza ha, se si hanno macchine? E anche se non si hanno le macchine, se occorre scavare col badile o portare sacchi sulle spalle, gli uomini forse lavorano più in fretta… almeno, quelli più grossi… ma le donne lavorano più a lungo. Spesso mi sarebbe piaciuto avere la resistenza di una donna.
Kimoe lo fissò ad occhi sbarrati. Lo stupore gli aveva fatto perdere le buone maniere. — Ma la perdita di… di ogni cosa femminile… della delicatezza… e del rispetto di se stessi del maschio… Lei non pretenderà, certo, nel suo lavoro, che le donne siano uguali a lei? In fisica, in matematica, nel ragionamento? Lei non vorrà pretendere di abbassarsi continuamente al loro livello?
Shevek appoggiò la schiena alla poltrona imbottita, comoda, e si guardò intorno, nel quadrato ufficiali. Sullo schermo visivo, la curva brillante di Urras era sospesa nel vuoto, immobile contro il nero dello spazio, simile a una opale verdazzurra. Quella piacevole vista, e il quadrato, erano divenuti familiari a Shevek in quegli ultimi giorni, ma ora i colori luminosi, le poltrone curvilinee, l’illuminamento indiretto, i tavolini da gioco e gli schermi televisivi e i tappeti morbidi, ogni cosa gli pareva estranea come la prima volta in cui l’aveva vista.
— Non penso di pretendere molto, Kimoe — disse.
— Naturalmente, anch’io ho conosciuto donne molto intelligenti, donne che potevano pensare proprio come un uomo — si affrettò a dire il dottore, accorgendosi di avere quasi urlato… di avere, pensò Shevek, picchiato i pugni contro la porta chiusa a chiave e di avere urlato.
Shevek cambiò argomento, ma continuò a pensare alla cosa. La faccenda della superiorità e dell’inferiorità doveva essere una questione centrale nella vita sociale degli urrasiani. Se per rispettare se stesso Kimoe doveva considerare inferiore a sé metà della razza, come facevano le donne a rispettare se stesse? Consideravano gli uomini inferiori? E come si ripercuoteva tutto questo nella loro vita sessuale? Egli sapeva, dagli scritti di Odo, che duecento anni prima le principali istituzioni sessuali urrasiane erano state il «matrimonio», un’unione autorizzata e fatta rispettare mediante sanzioni legali ed economiche, e la «prostituzione», che pareva semplicemente un termine più vasto, copulazione secondo le modalità mercantili. Odo le aveva condannate entrambe, e tuttavia Odo era stata «sposata». Comunque, le istituzioni potevano avere subìto dei notevoli cambiamenti in duecento anni. Se egli contava di andare a vivere su Urras in mezzo agli urrasiani, avrebbe fatto meglio a informarsi sull’argomento.
Era strano che anche l’attività sessuale, che gli era stata fonte di tanto sollievo, delizia e gioia per così tanti anni, potesse divenire da un giorno all’altro un territorio sconosciuto, in cui si doveva muovere con attenzione, conscio della propria ignoranza; eppure era così. Gliene avevano dato l’avviso non soltanto la strana esplosione di collera e dispetto da parte di Kimoe, ma anche una vaga impressione avuta qualche tempo prima, e che ora veniva messa a fuoco dall’episodio. Appena giunto a bordo della nave, nelle lunghe ore di febbre e di disperazione, Shevek si era sentito distrarre, a volte in modo piacevole, a volte in modo irritante, da una sensazione smaccatamente semplice: la morbidezza del letto. Sebbene non fosse altro che una cuccetta, il materasso cedeva sotto il suo peso con una morbidezza voluttuosa. Si arrendeva a lui, con tanta insistenza che egli ne avvertiva sempre la presenza, quando era sul punto di addormentarsi. Tanto il piacere quanto l’irritazione prodotti in lui erano di natura decisamente erotica. E poi c’era lo strumento salvietta che soffiava aria calda da un orifizio: aveva lo stesso, identico effetto. Un solleticamento. E la linea dei mobili del quadrato ufficiali, le curve plastiche e lisce fatte assumere con la forza a legni e metalli robusti, la levigatezza e la delicatezza delle superfici dei materiali: non erano anche queste debolmente, insistentemente erotiche? Shevek si conosceva abbastanza bene da sapere che pochi giorni senza Takver, anche sotto quella tensione, bastavano ad accumulare in lui una carica tale da spingerlo a vedere una donna in ogni tavolino. A meno che la donna non vi fosse veramente dentro.
Che i mobilieri urrasiani fossero tutti celibi?
Rinunciò a queste speculazioni: l’avrebbe scoperto abbastanza presto, su Urras.
Poco prima che si legassero per la discesa, il dottore venne nella sua cabina per controllare il progresso delle varie immunizzazioni, l’ultima delle quali, un’inoculazione contro la peste, gli aveva fatto venire nausee e capogiri. Kimoe gli diede una nuova compressa. — Questa — gli disse, — la metterà in forma per l’atterraggio. — Stoicamente, Shevek la trangugiò. Il dottore cincischiò con la sua attrezzatura medica, poi d’improvviso attaccò a parlare rapidamente: — Dottor Shevek, non penso che potrò ancora attendere a lei, in futuro, anche se forse lo potrò, ma se non potrò desideravo dirle che è, che io, che è stato un grande privilegio per me. Non perché… ma perché… sono giunto a rispettare… ad apprezzare… che semplicemente come essere umano, la sua gentilezza, vera gentilezza…
Poiché il mal di capo gli impediva di trovare una risposta più adatta, Shevek tese la mano e strinse quella di Kimoe, dicendo: — Ma allora incontriamoci nuovamente, fratello! — Kimoe gli restituì una stretta di mano nervosa, alla maniera urrasiana, e uscì di fretta. Quando se ne fu andato, Shevek si accorse di avergli parlato in pravico, chiamandolo ammar, fratello, in una lingua che l’altro non poteva comprendere.
L’altoparlante della parete lanciava ordini. Legato alla cuccetta, Shevek li ascoltò con mente annebbiata e distaccata. Le sensazioni della discesa ispessirono la nebbia; fu conscio di poche cose, salvo della fonda speranza di non vomitare. Non si accorse che la nave era atterrata fino a quando Kimoe non giunse di corsa in cabina e lo trascinò fuori, nel quadrato ufficiali. Lo schermo visivo che per tanto tempo aveva mostrato l’immagine luminosa e velata di cordoni di nubi di Urras, era spento. La stanza era piena di gente. Da dove era venuta? Fu sorpreso e compiaciuto della propria capacità di stare in piedi, camminare, stringere mani. Si concentrò su queste azioni, e lasciò che il significato gli sfuggisse. Voci, sorrisi, mani, parole, nomi. Il suo nome, che continuava a essere ripetuto: dottor Shevek, dottor Shevek… Ora egli e tutti gli sconosciuti intorno a lui scendevano per una rampa tappezzata, le voci erano forti, le parole echeggiavano sulle pareti. Il rumore delle voci si assottigliò. Una strana aria gli sfiorò il viso.
Alzò gli occhi verso il cielo, e mentre muoveva il piede dall’ultimo scalino della rampa al terreno, inciampò e per poco non cadde. Pensò alla morte, in quell’intervallo di vuoto fra l’inizio di un passo e il suo termine, e alla fine del passo era su una nuova terra.
Una sera ampia e grigia lo circondava. Luci azzurre, velate dalla foschia, erano accese assai lontano, all’altro estremo di un campo nebbioso. L’aria che gli sfiorava il viso e le mani, che gli entrava nelle narici, nella gola e nei polmoni, era fredda, umida, carica di molti profumi indefinibili, dolce. Non la sentiva affatto straniera. Era l’aria del mondo da cui era giunta la sua razza, era l’aria di casa.
Qualcuno l’aveva preso per il braccio quando era incespicato. Lampi di luce lo colpirono. I fotografi stavano filmando la scena per i notiziari: «Il primo uomo dalla Luna»; una figura alta e fragile in mezzo a una folla di dignitari e professori e agenti di pubblica sicurezza, con la testa bella e irsuta molto eretta (in modo che i fotografi potessero coglierne ogni connotazione) come se cercasse di guardare al di sopra dei proiettori, nel cielo: il grande cielo di nebbia che nascondeva le stelle, la Luna, tutti gli altri mondi. I giornalisti cercarono di irrompere al di là degli anelli di poliziotti: «Volete farci una comunicazione, dottor Shevek, in questo momento storico?» Furono cacciati indietro, immediatamente. Gli uomini intorno a lui lo spinsero avanti. Venne portato all’automobile che lo attendeva, eminentemente fotografabile fino all’ultimo istante grazie alla statura, ai lunghi capelli e la strana espressione di dolore e di rimembranza che aveva sul volto.
Le torri della città s’innalzavano nella nebbia, simili a grandi e strette scale a pioli nella luce confusa. In alto passavano i treni, nastri luminosi e urlanti. Poderose muraglie di pietra e di vetro si affacciavano sulle strade, al di sopra della corsa di auto e di tram. Pietra, acciaio, vetro, luce elettrica. E nessun volto.
— Qui siamo a Nio Esseia, dottor Shevek. Ma è stato deciso che fosse meglio tenerla lontano dalla folla cittadina, per il momento. Ora ci rechiamo direttamente all’Università.
C’erano cinque uomini con lui nell’interno buio, morbidamente imbottito dell’auto. Gli indicarono dei punti importanti, ma nella nebbia non poté capire quale di quei grandi, vaghi, fuggevoli edifici fosse l’Alta Corte, quale il Museo Nazionale, il Direttorato e il Senato. Attraversarono un fiume, o un estuario; i milioni di luci di Nio Esseia, diffuse dalla nebbia, tremolarono sull’acqua scura, dietro di loro. La strada si fece più buia, la nebbia si fece più spessa, l’autista rallentò la velocità del veicolo. I fari illuminavano la nebbia come un muro che continuava a ritirarsi davanti a loro. Shevek si sporse leggermente in avanti, per osservare. I suoi occhi non erano a fuoco, e neppure la sua mente, ma il suo viso aveva un aspetto grave e distaccato, e gli altri parlavano piano, rispettosi del suo silenzio.
Che cos’era quell’oscurità più profonda che scorreva interminabilmente a fianco della strada? Alberi? Possibile che avessero viaggiato, fin da quando avevano lasciato la città, in mezzo ad alberi? Gli venne in mente la parola iotica: «foresta» Non si sarebbe aperto improvvisamente davanti a loro il deserto. Gli alberi continuavano senza fine, sul pendio davanti a loro e su quello che lo seguiva, e poi sul successivo, ritti nel dolce freddo della nebbia; senza fine, una foresta che copriva tutto il mondo, un rapporto reciproco di vite in lotta tra sé, un oscuro movimento di foglie nella notte. Poi, mentre Shevek ancora se ne meravigliava, mentre l’auto, uscendo dalla nebbiosa valle del fiume, entrava in un’atmosfera più chiara, apparve a fissarlo, dall’oscurità sotto le fronde affacciate sulla strada, per un solo istante, una faccia.
Non assomigliava ad alcuna faccia umana. Era lunga come il suo braccio, e bianca in modo spettrale. Il respiro usciva sotto forma di vapore da quelle che dovevano essere le nari, e terribile, inconfondibile, c’era un occhio. Un occhio grande, scuro, melanconico, forse cinico? che sparì nel lampo dei fari del veicolo.
— Che cos’era?
— Un asino, no?
— Un animale?
— Sì, un animale. Santo Dio, è vero! Non avete animali di grossa taglia su Anarres, no?
— Gli asini sono un po’ come i cavalli — spiegò un altro degli uomini, e un terzo, con voce ferma, da persona anziana: — Quello era davvero un cavallo. Non ci sono asini di quella taglia. — Avrebbero voluto parlare con lui, ma Shevek aveva nuovamente smesso di ascoltare. Pensava a Takver. Chiese ancora cosa avrebbe potuto dire a Takver quello sguardo profondo, asciutto, scuro, uscito dall’oscurità. Takver aveva sempre saputo che tutte le vite sono una comunità, gioito della propria consanguineità con i pesci delle vasche del suo laboratorio, cercato di conoscere, di sperimentare, le esistenze che giacciono al di là del confine umano. Takver avrebbe saputo come restituire lo sguardo a quell’occhio spuntato dall’oscurità sotto gli alberi.
— Ecco Ieu Eun, là davanti. C’è una vera folla in attesa di conoscerla, dottor Shevek; il Presidente, molti Direttori, e il Cancelliere, naturalmente, e ogni tipo di pezzi grossi. Ma se lei è stanco, cercheremo di ridurre i convenevoli al minimo possibile.
I convenevoli durarono parecchie ore. Egli, in seguito, non riuscì mai a ricordarli con chiarezza. Venne spinto fuori dalla piccola scatola nera della vettura, fino a una grossa scatola illuminata piena di gente: centinaia di persone, sotto un soffitto dorato da cui pendevano lampade di cristallo. Venne presentato a tutti. Ciascuno di loro era di statura inferiore alla sua, e calvo. Le poche donne presenti erano glabre perfino sulla testa; poi comprese che dovevano radersi tutto il corpo: radersi la peluria sottile, morbida, corta della sua razza, e anche i capelli. Ma li sostituivano con abiti meravigliosi, clamorosi nel taglio e nel colore: le donne in gonne lunghissime che spazzavano il suolo, il seno nudo, la vita il collo e il capo adorni di gioielli e pizzi e veli, gli uomini in calzoni e cappe o tuniche rosse, azzurre, viola, oro e verde, con maniche aperte e sbuffi di merletto, o lunghi gonnellini rossi, verde cupo o nero che si aprivano al ginocchio per mostrare calzini bianchi, dalle giarrettiere argentate. Un’altra parola iotica venne in mente a Shevek, una parola che non aveva mai saputo a cosa applicare, anche se il suono gli piaceva: «splendore». Ecco, questa gente aveva splendore. Vennero tenuti discorsi. Il Presidente del Senato della nazione di A-Io, un uomo dagli occhi strani, gelidi, propose un brindisi: «Alla nuova èra di fratellanza tra i Pianeti Gemelli, e al messaggero di questa nuova èra, il nostro eminente e graditissimo ospite, il dottor Shevek di Anarres!» Il Cancelliere dell’Università gli parlò in modo affascinante, il Primo Direttore della Nazione gli parlò in modo assai serio, venne presentato ad ambasciatori, astronauti, fisici, politici, decine di persone, ognuna delle quali aveva lunghe liste di titoli e onoreficenze sia prima che dopo il nome, ed esse gli parlarono, ed egli rispose loro, ma più tardi non ricordò nulla di quanto aveva detto ciascuno, e men che meno ciò che aveva detto lui. Molto tardi, quella notte, si trovò insieme con un piccolo gruppo di uomini che camminava sotto la pioggia tiepida in un grosso parco o in una piazza. Si sentiva sotto i piedi la cedevolezza elastica dell’erba verde; la riconobbe perché aveva camminato nel Parco Triangolare di Abbenay. Quel vivo ricordo e l’ampio, freddo tocco del vento notturno lo destarono. La sua anima uscì dal nascondiglio.
I suoi accompagnatori lo condussero a un edificio e una stanza che, come gli spiegarono, era «sua».
Era ampia, lunga circa dieci metri, ed evidentemente si trattava di una camerata comune, dato che non c’erano divisioni né predelle per dormire; evidentemente, i tre uomini rimasti con lui dovevano essere i suoi compagni di stanza. Era una bellissima camerata, con una parete composta interamente di una serie di finestre, divise tra loro mediante sottili colonne che si innalzavano, simili ad alberi, fino a formare un doppio arco, in cima. Il pavimento era ricoperto di un tappeto rosa, e all’altro estremo della stanza c’era un fuoco, in un focolare aperto. Shevek attraversò la stanza e si fermò davanti al fuoco. Non aveva mai visto bruciare del legno per riscaldarsi, ma ormai non si stupiva più di nulla. Tese le mani verso il piacevole tepore, e si sedette su una panca di marmo levigato, accanto al focolare.