Il più giovane dei suoi accompagnatori si sedette di fronte a lui. Gli altri due erano ancora intenti a parlare tra loro. Parlavano di fisica, ma Shevek non aveva tentato di ascoltare il loro discorso. Il giovane disse in tono tranquillo: — Mi chiedo come si possa sentire, dottor Shevek.
Shevek allungò le gambe e si piegò in avanti per sentire sul volto il tepore del fuoco. — Mi sento pesante.
— Pesante?
— Forse la gravità. O sono stanco.
Alzò lo sguardo sull’altro, ma tra loro c’era il bagliore del fuoco, e il volto del suo accompagnatore non si distingueva chiaramente: soltanto il luccichio di una catena d’oro e il rosso scuro e brillante della toga.
— Non conosco il suo nome.
— Saio Pae.
— Oh, Pae, già. Conosco i suoi articoli sul Paradosso.
Parlava con voce pesante, insonnolita.
— Ci dev’essere un bar, qui. Le stanze degli Anziani di Facoltà hanno sempre l’armadietto dei liquori. Desidera qualcosa da bere?
— Acqua, sì.
Il giovane riapparve con un bicchiere d’acqua mentre gli altri due si avvicinavano per unirsi a loro accanto al fuoco. Shevek bevve avidamente l’acqua e si mise a fissare il bicchiere che stringeva in mano: un oggetto fragile, delicatamente sagomato, che rifletteva il bagliore del fuoco sul bordo dorato. Si accorse della presenza dei tre uomini, del loro atteggiamento, mentre stavano accanto a lui, in piedi o seduti, protettivi, rispettosi, proprietari.
Sollevò lo sguardo su di loro, e osservò un volto dopo l’altro. Tutti lo fissarono, in attesa. — Bene, mi avete — egli disse. E sorrise. — Avete il vostro anarchico. Che cosa contate di farne?
CAPITOLO 2
All’interno di una finestra quadrata, nel muro bianco, c’è il cielo luminoso e nudo. Al centro del cielo c’è il sole.
Ci sono undici bambini piccoli nella stanza, quasi tutti stipati a coppie, o a tre per volta, dietro la ringhiera di lettini imbottiti, e scivolanti pian piano, tra movimenti ed elocuzioni, nel riposo del sonno. I due più vecchi sono ancora in libertà: uno grasso e attivo, intento a smontare un gioco di costruzioni, e uno magro e nodoso, seduto nel quadrato di luce gialla proveniente dalla finestra, con lo sguardo fisso nel sole e sul viso un’espressione sciocca e tranquilla.
Nell’anticamera, la governante (una donna con un occhio solo e dai capelli grigi) parla con un uomo alto, dall’aria mesta, sulla trentina. — La madre ha ricevuto un incarico ad Abbenay — dice l’uomo. — Ma preferisce che lui resti qui.
— Dobbiamo tenerlo nel nido a giornata piena, allora, Palat?
— Sì. Io tornerò ad abitare in un dormitorio.
— Non preoccuparti, qui ci conosce tutti! Ma certo la Divisione Lavoro ti manderà presto a raggiungere Rulag? Visto che siete compagni, ed ingegneri entrambi? …
— Sì, ma lei è… Ecco, l’hanno chiamata loro, vedi, dall’Istituto Centrale d’Ingegneria. Io non sono bravo come lei. A Rulag è stato assegnato un lavoro molto importante.
La governante annuì col capo, e sospirò. — Ma anche così! … — incominciò con energia, poi non aggiunse altro.
Lo sguardo del padre era puntato sul bambino magro, il quale non aveva ancora notato la sua presenza, dato che si interessava solamente della luce. Il bambino grasso, in quel momento, si stava avvicinando a lui con rapidità, anche se con un’andatura piuttosto raggomitolata, causata da un pannolino bagnato e tendente a scivolare via. Si avvicinò spinto dalla noia o per socievolezza, ma una volta giunto nel quadrato di luce scoprì che laggiù era caldo. Si sedette a terra pesantemente accanto al bambino magro, e lo spinse nell’ombra.
L’espressione vacua e rapita del bambino magro lasciò immediatamente il posto a una smorfia di rabbia. Spinse il bambino grasso, strillando: — Via!
La governante fu immediatamente sul luogo del dissenso. Raddrizzò il bambino grasso. — Shev, non devi spingere gli altri.
Il bambino magro si drizzò in piedi. Il suo viso era illuminato dal sole e distorto dalla rabbia. Il pannolino minacciava di cadere. — Mio! — esclamò con voce acuta, penetrante. — Mio, sole!
— No, non è tuo — disse la donna senza un occhio, con la pacatezza di chi enuncia una profonda certezza. — Non c’è niente di tuo. Ogni cosa è da usare. Da dividere con gli altri. Se non sei disposto a dividerla, non puoi neppure usarla. — E prese con mani delicate e inesorabili il bambino magro e lo trasportò via lontano dal quadrato di luce solare.
Il bambino grasso rimase lì seduto, con lo sguardo assorto, indifferente. Quello magro si agitò tutto, strillò: — Mio, sole! — e scoppiò in lacrime di rabbia.
Il padre lo prese in braccio. — Su, basta, Shev — disse. — Su, sai bene che non puoi avere le cose. Cosa c’è, che non va? — La sua voce era bassa, e tremava come se anch’egli non fosse molto lontano dal pianto. Il bambino sottile, lungo, leggero fra le sue braccia piangeva con passione.
— C’è qualcuno che non riesce a non prendersela, tutto qui — disse la donna senza un occhio, fissandoli con simpatia.
— Ora lo porto al domicilio per una visita. La madre parte questa sera, capisci.
— Fai pure. Spero che vi diano presto un incarico comune — disse la governante, sollevando il bambino grasso e ponendoselo sull’anca come un sacco di grano. Aveva un’espressione melanconica sul viso e batteva le palpebre dell’occhio buono. — Ciao ciao, Shev, cuoricino mio. Domani, sentimi bene, domani giocheremo a fare il carrettino.
Ma il bambino non l’aveva ancora perdonata. Singhiozzò, stretto al collo del padre, e nascose la faccia nell’oscurità del suo sole perduto.
L’Orchestra aveva bisogno di tutte le panche, quel mattino, per le prove, e il gruppo di danza era occupato a ballare nella stanza più grande del centro d’apprendimento, cosicché i bambini che lavoravano al Parlare e Ascoltare sedevano in cerchio sul pavimento di pomice del laboratorio. Il primo volontario, un bambino allampanato di otto anni, con mani e piedi lunghi, si alzò. Stava in piedi molto dritto, da bambino in buona salute; il suo viso velato di una leggera peluria era pallido, all’inizio, ma presto divenne rosso, mentre aspettava che gli altri bambini gli dessero ascolto. — Parla, Shevek — disse il direttore del gruppo.
— Be’, avevo un’idea.
— Più forte — disse il direttore, che era un uomo di corporatura massiccia, di poco più di vent’anni.
Il bambino sorrise con imbarazzo. — Be’, vedi, pensavo: diciamo, ad esempio, che tu getti una pietra contro qualcosa. Contro un albero. Tu la getti, e la pietra viaggia nell’aria e colpisce l’albero. Giusto? Ma invece non può farlo. Perché… posso avere la lavagna? Ecco, questo sei tu che getti la pietra, e questo è l’albero — tracciò dei segni sulla lavagna, — ecco, questo dovrebbe essere l’albero, e qui la pietra, a metà strada tra i due. — I ragazzi ridacchiarono di fronte al suo disegno di una pianta di holum, ed egli sorrise. — Per passare da te all’albero, la pietra deve trovarsi a metà strada tra te e l’albero, vero? E poi deve trovarsi a metà tra la metà e l’albero. E poi a metà tra lì e l’albero. Non importa dov’è arrivata: c’è sempre un punto, che però in realtà è un tempo, posto a metà strada tra l’ultimo punto dove l’abbiamo messa e l’albero…
— Ti pare che sia tanto interessante? — lo interruppe il direttore.
— Ma perché non può raggiungere l’albero? — chiese una bambina di dieci anni.
— Perché deve sempre andare fino a metà della strada che deve ancora fare — disse Shevek, — e le rimane sempre da fare metà della strada già fatta… capisci?
— Diciamo allora che hai tirato male la pietra — disse il direttore, con un sorriso tirato.
— Non ha importanza come la tiri. La pietra non può raggiungere l’albero.
— Chi ti ha dato questa idea?
— Nessuno. L’ho vista da me. Ma credo di poter anche dire come fa la pietra a colpire davvero…
— Basta così.
Alcuni degli altri bambini stavano parlando fra loro, ma tacquero immediatamente, come se fossero diventati tutti muti. Il ragazzino con la lavagna rimase immobile, nel silenzio. Pareva impaurito, e aveva aggrottato la fronte.
— Parlare è dividere… un’arte cooperativa. Tu non dividi; tu egoizzi, e basta.
Le sottili, vigorose armonie dell’orchestra echeggiarono nella sala.
— Tu non l’hai vista da te, l’idea non è stata spontanea. Ho letto qualcosa di molto simile in un libro.
Shevek fissò il direttore ad occhi spalancati. — Che libro? Ne abbiamo uno qui?
Il direttore si alzò in piedi. Era alto quasi il doppio e pesante quasi il triplo del suo oppositore, e gli si leggeva in faccia che provava un’antipatia intensissima per il bambino; ma nella sua posizione non c’era minaccia di violenza fisica: solamente un’asserzione di autorità, che era uscita indebolita dalla reazione irritata alla strana domanda del bambino. — No! E smetti di egoizzare! — Poi riprese, con il suo tono melodioso di pedante: — Questo genere di cosa è in realtà direttamente contrario a ciò che cerchiamo di ottenere in un gruppo di Parlare e Ascoltare. La parola è una funzione con andata e ritorno. Shevek non è ancora pronto a capirlo, mentre invece gli altri di voi lo sono già, e così la sua presenza è un elemento di disgregazione per il gruppo. Lo capisci anche tu, vero, Shevek? Ti consiglio di trovare un altro gruppo che lavori al tuo livello.
Nessuno altro parlò. Il silenzio e la musica forte e sottile continuarono mentre il ragazzo consegnava la lavagna e usciva dal circolo. Uscì in corridoio e vi restò. Il gruppo da lui lasciato cominciò, sotto la guida del direttore, una storia di gruppo, raccontata a turno. Shevek ascoltò le loro voci sommesse e il proprio cuore che ancora batteva a precipizio. Aveva nelle orecchie una nota ronzante, che non veniva dall’orchestra, ma che era il suono che sorge quando ci si trattiene dal piangere; aveva già notato varie volte, in passato, lo stesso suono ronzante. Non gli piaceva ascoltarlo, e non voleva pensare alla pietra e all’albero, cosicché volse la propria mente al Quadrato. Era composto di numeri, e i numeri erano sempre spassionati e solidi; quando si sentiva in difetto, egli poteva volgersi a quelli, poiché essi non avevano difetti. Aveva visto il Quadrato nella propria mente qualche tempo prima: un disegno nello spazio, simile ai disegni che la musica faceva nel tempo: un quadrato dei primi nove numeri interi, con 5 nel centro. In qualunque modo sommavi le righe, il risultato era sempre uno, tutte le diseguaglianze si pareggiavano; era piacevole da osservare. Se soltanto avesse potuto organizzare un gruppo che amasse parlare di cose come quella; ma soltanto un paio di ragazzi e ragazze più adulti amavano farlo, ed erano occupati. E che dire del libro di cui il direttore aveva parlato? Era un libro di numeri? Avrebbe mostrato come fa la pietra a raggiungere l’albero? Egli era stato uno sciocco a raccontare la celia della pietra e dell’albero, nessuno si era accorto che era una celia, il direttore aveva ragione. La testa gli faceva male. Volse lo sguardo interiormente, verso le configurazioni calme.
Se un libro fosse stato scritto completamente con numeri, sarebbe stato vero. Sarebbe stato giusto. Nulla detto a parole usciva perfettamente pareggiato, mai. Le cose dette a parole si ingarbugliavano e cozzavano tra loro, invece di rimanere dritte e di incastrarsi bene le une nelle altre. Ma al di sotto delle parole, al centro, come al centro del Quadrato, tutto si pareggiava. Ogni cosa poteva cambiare, eppure nulla si sarebbe perduto. Se vedevi i numeri potevi vederlo: l’equilibrio, lo schema armonioso. Vedevi le fondamenta del mondo. Ed esse erano solide.
Shevek aveva imparato ad attendere. E in questo era molto bravo: un vero esperto. Aveva imparato inizialmente quest’arte aspettando che sua madre Rulag ritornasse, anche se la cosa era successa così tanto tempo prima che egli non la ricordava più; poi aveva approfondito l’arte aspettando il proprio turno, aspettando di dividere, aspettando la propria parte. All’età di otto anni chiedeva perché, e come, e cosa succederebbe se, ma raramente chiedeva quando.
Attese fino a quando giunse il padre per portarlo con sé in visita domiciliare. Fu una lunga attesa: sei decadi. Palat aveva preso un breve incarico di manutenzione all’Impianto Recupero Acque di Monte Tamburo, e alla fine dell’incarico contava di prendersi una decade ai bagni di Malennin, dove intendeva nuotare, riposarsi e copulare con una donna chiamata Pipar. Aveva spiegato tutto questo al figlio. Shevek si fidava di lui, ed egli non deludeva questa fiducia. Alla fine dei sessanta giorni, Palat apparve al dormitorio dei bambini di Piano Grande: un uomo alto e sottile, con lo sguardo più melanconico che mai. Copulare non era in realtà ciò che voleva. Rulag lo era. Quando vide il ragazzo, sorrise, e la sua fronte si increspò con dolore.
Ciascuno prese piacere dalla compagnia dell’altro.
— Palat, hai mai visto un libro con tutti numeri?
— Cosa vuoi dire, di matematica?
— Forse sì.
— Come questo?
Palat prese dalla tasca un libro. Era piccolo, fatto per stare in tasca, e come quasi tutti i libri era rilegato in verde, con il Cerchio della Vita impresso sulla copertina. Era stampato fitto, in caratteri piccoli e con margini esigui, poiché la carta è una sostanza che richiede molte piante di holum e molta fatica umana per la propria produzione, come il dispensatore del centro di apprendimento faceva sempre notare a chi impiastricciava un foglio e andava a farsene dare un altro. Palat porse a Shevek il libro aperto. Le due pagine erano una serie di colonne di numeri. Eccoli lì, proprio come li aveva immaginati. Nelle sue mani ricevette il pegno dell’eterna giustizia. Tavole dei Logaritmi, Base 10 e 12, diceva il titolo sulla copertina, al di sopra del Cerchio della Vita.
Il bambino studiò la prima pagina per un certo tempo. — A che cosa servono? — chiese, poiché evidentemente quelle configurazioni di numeri non erano presentate esclusivamente per la loro bellezza. L’ingegnere, seduto su un duro pagliericcio accanto a lui, nella stanza comune del domicilio, fredda e scarsamente illuminata, cominciò a spiegargli i logaritmi. Due vecchi, dall’altra parte della stanza, ridacchiavano, occupati a giocare a «Punto più Alto». Entrò una coppia di adolescenti, che chiese se la camera singola era libera per quella notte e che poi vi si recò. La pioggia colpì con rumore sordo il tetto metallico del domicilio a un solo piano, e poi si fermò. La pioggia non durava mai a lungo. Palat prese il proprio regolo calcolatore e ne mostrò a Shevek il funzionamento; in cambio Shevek gli mostrò il Quadrato e il principio della sua disposizione. Era già molto tardi quando compresero che si era fatto tardi. Fecero di corsa la strada, attraverso l’oscurità fangosa, meravigliosamente profumata di pioggia, fino al dormitorio dei bambini, e si presero la rituale sgridata del sorvegliante notturno. Si baciarono frettolosamente, entrambi scossi dal riso, e Shevek corse nella grande camerata, e poi alla finestra, da cui poté vedere il padre che ripercorreva in senso inverso l’unica strada di Piano Grande, nell’oscurità umida e blu.
Il bambino andò a letto con le gambe ancora sporche di fango, e sognò. Sognò di percorrere una strada, in mezzo a una landa spoglia. Molto avanti a sé, attraverso la strada, scorse una linea. Quando vi si avvicinò, vide che era un muro. Si stendeva da un orizzonte all’altro, e attraversava tutta la landa spoglia. Era denso, scuro, e molto alto. La strada giungeva fino ai suoi piedi, e veniva arrestata.
Egli doveva andare avanti, e non poteva. Il muro lo fermava. Una dolorosa, rabbiosa paura sorse in lui. Doveva andare avanti, altrimenti non sarebbe mai riuscito a ritornare a casa. Ma davanti a lui s’innalzava il muro. Non c’era modo di passare.