I reietti dell’altro pianeta - Le guin Ursula Kroeber 8 стр.


Le forme singolari dei pronomi e aggettivi possessivi erano usate, in pravico, soprattutto come forme enfatiche: l’uso colloquiale le evitava. Un bambino piccolo poteva dire «la mia mamma», ma presto imparava a dire «la madre». Per dire: «Questo è il mio e quello è il tuo», in pravico si diceva: «lo uso questo, tu usi quello.» Le parole di Mitis: «Sarai un uomo suo» avevano un suono strano. Shevek la fissò sorpreso.

— Hai un lavoro da fare — disse Mitis. Aveva gli occhi scuri: ora lampeggiarono, come per l’ira. — Fallo! — Poi uscì dalla stanza, poiché un gruppo la attendeva in laboratorio. Confuso, Shevek abbassò gli occhi sul frammento di carta. Pensò che Mitis intendesse dirgli di fare in fretta a correggere le equazioni. Soltanto molto tempo più tardi comprese cosa avesse inteso dirgli in realtà.

La notte precedente la sua partenza per Abbenay, gli altri studenti organizzarono una festa in suo onore. Le festicciole erano frequenti, bastava il minimo pretesto, ma Shevek fu sorpreso nel vedere con quanta energia gli altri la organizzarono, e si chiese perché fosse una così bella festa. Poiché gli altri non lo influenzavano, egli non si era mai accorto di avere influenza su di loro; non aveva idea del fatto che gli altri lo amassero.

Molti di loro dovevano avere risparmiato sulle proprie razioni quotidiane, in vista della festa, per giorni e giorni. C’erano incredibili quantità di cibo. L’ordinazione di pasticceria era così grande che il fornaio del refettorio aveva dato libero corso alla propria fantasia e aveva prodotto raffinatezze inedite: cialde speziate, piccoli quadrati dal gusto pizzicante, per accompagnare il pesce affumicato, frittelle dolci, unte e appetitose. C’erano succhi di frutta, frutta conservata della regione del Mare Kerano, minuscoli gamberetti, montagnole di patatine fritte, dolci. L’abbondanza e la ricchezza del cibo era intossicante. Tutti erano molto allegri, e alcuni finirono con lo star male.

Ci furono imitazioni e altri intrattenimenti, alcuni preparati, altri improvvisati. Tirin si mise addosso tutta una raccolta di stracci, tolti dal secchio della riciclazione, e prese a girare in mezzo a loro come l’Urrasiano Povero, il Mendicante: una delle parole iotiche che tutti avevano imparato studiando storia. — Datemi del denaro - gemeva, agitando la mano sotto il loro naso. — Denaro! Denaro! Perché non mi date del denaro? Non ne avete? Bugiardi! Sporchi proprietaristi! Profittatori! Guardate tutto quel cibo: come l’avete preso, se dite di non avere denaro? — Infine si mise in vendita. — Ombratemi, ombratemi, per solo un po’ di denaro — si mise a ripetere in tono suadente.

— Non si dice ombrare, si dice comprare — lo corresse Rovab.

— Ombratemi, compratemi, chi se ne frega, guardate che corpo affascinante, non lo desiderate? — ripeteva Tirin, agitando i fianchi magri, e battendo le palpebre. Alla fine venne ucciso pubblicamente con un coltello per il pesce e riapparve vestito normalmente. Tra di loro c’erano bravi suonatori d’arpa e cantanti, e ci fu molta musica e danza, ma ancora di più ci furono parole. Parlavano tutti come se l’indomani dovessero diventare muti.

Con il proseguire della notte i giovani amanti si allontanarono per copulare, nelle stanze singole; altri, colti dal sonno, si recarono nei dormitori; infine rimase soltanto un piccolo gruppo, fra i bicchieri vuoti, le lische di pesce e le briciole di pane: tutta pulizia da fare prima del mattino. Ma al mattino mancavano ancora varie ore. Parlarono. E mentre parlavano mangiucchiavano questo e quello. C’erano Bedap e Tirin e Shevek, un paio di altri ragazzi, tre ragazze. Parlarono della rappresentazione spaziale del tempo sotto forma di ritmo, e della connessione delle antiche teorie delle Armonie Numeriche con la moderna fisica temporale. Parlarono dello stile preferibile per nuotare sulle lunghe distanze. Parlarono del fatto se la loro fanciullezza fosse stata felice. Parlarono sulla natura della felicità.

— La sofferenza è un malinteso — disse Shevek, piegato in avanti, con gli occhi chiari spalancati. Era ancora magro, con grandi mani, orecchie sporgenti, giunture nodose, ma nel pieno della salute e delle forze, da giovane adulto, era assai bello. I capelli, color sabbia come quelli degli altri, erano fini e dritti: li portava alla loro piena lunghezza e li teneva discosti dalla fronte con un nastro. Di tutti i presenti, soltanto uno portava un’acconciatura diversa: una ragazza dagli zigomi alti e dal naso largo; si era tagliata i capelli neri in modo da formare una calotta lucente intorno al capo. Questa ragazza fissava ora Shevek con uno sguardo serio e fermo. Le sue labbra erano unte per avere mangiato le frittelle, e sul mento c’era una briciola.

— Essa esiste — diceva Shevek, allargando le mani. — È reale. Io posso chiamarla un malinteso, ma non posso pretendere che non esista, o che una volta o l’altra non esisterà più. La sofferenza è la condizione a cui viviamo. E quando arriva, la riconosciamo. La riconosciamo come la verità. E, certamente, è giusto curare le malattie, prevenire la fame e l’ingiustizia, come fa l’organismo sociale. Ma nessuna società può cambiare la natura dell’esistenza. Non possiamo prevenire la sofferenza. Questo dolore qui e quel dolore là, certo, ma non il Dolore. Una società può alleviare soltanto la sofferenza sociale, la sofferenza innecessaria. Ma rimane il resto. La radice, la realtà. Tutti noi qui presenti conosceremo il dolore per cinquant’anni. E alla fine moriremo. Questa è la condizione a cui siamo nati. E io ho paura della vita! Ci sono dei momenti in cui io… ne ho molta paura. E la felicità sembra banale. E tuttavia mi chiedo se non sia tutto un malinteso: questo rincorrere la felicità, questa paura del dolore… Se invece di averne paura e di fuggirlo, si potesse… attraversarlo, portarsi al di là. Al di là di esso c’è qualcosa. È la nostra personalità, che soffre; e c’è un punto nel quale la personalità individuale, il «sé»… cessa. Non so come dirlo. Ma credo che la realtà… la verità che riconosco nella sofferenza e che dimentico nel benessere e nella felicità… credo che la realtà del dolore non sia un dolore. Se riuscite a superarlo. Se potete sopportarlo fino in fondo.

— La realtà della nostra vita sta nell’amore, nella solidarietà — disse la ragazza alta, dagli occhi dolci. — L’amore è la vera condizione della vita umana.

Bedap scosse il capo. — No. Shevek ha ragione — disse. — L’amore è semplicemente uno dei modi per superare il dolore, e come tale può fallire, può non avere successo. Ma il dolore non fallisce mai. Dunque, non abbiamo molta scelta sul fatto di sopportarlo o no! Lo sopportiamo, volenti o nolenti.

La ragazza dai capelli corti scosse il capo con veemenza. — No, non lo sopportiamo! Uno su cento, uno su mille compie l’intero tragitto, arriva dall’altra parte. Gli altri continuano a pretendere di essere felici, oppure, semplicemente, si rifugiano nell’ottusità. Noi soffriamo, sì, ma non abbastanza. E dunque soffriamo per niente.

— Che cosa dovremmo fare? — disse Tirin. — Batterci in testa col martello per un’ora al giorno, in modo da essere certi di soffrire abbastanza?

— State creando un culto del dolore — disse un altro. — Le mete Odoniane sono sempre positive, mai negative. La sofferenza non è funzionale, salvo che come avviso per l’organismo, contro un pericolo. Ma psicologicamente e socialmente è soltanto distruttiva.

— E allora, da che cosa sarebbe stata motivata, Odo, se non da un’eccezionale sensibilità nei riguardi della sofferenza… la sua e quella di altri? — obiettò Bedap.

— Ma tutto il principio della mutua assistenza è inteso per prevenire la sofferenza!

Shevek era seduto sul tavolo; le sue lunghe gambe dondolavano fuori del bordo, il suo viso aveva un’espressione attenta e pacata. — Avete mai visto morire qualcuno? — domandò agli altri. Molti di loro avevano già assistito alla morte, vuoi in domicilio, vuoi in servizio volontario presso un ospedale. Tutti, meno uno, avevano aiutato una volta o l’altra a seppellire i morti.

— C’era un uomo, quando ero in un campo nel Sudest. È stata la prima volta in cui ho visto qualcosa di simile. C’era qualche difetto nel motore dell’aereo: si è schiantato nel decollo e ha preso fuoco. Quando l’hanno estratto dai rottami, quell’uomo era tutto ustionato. È sopravvissuto per circa due ore. Non lo si sarebbe potuto salvare in alcun caso; non c’era ragione perché sopravvivesse tanto a lungo, nessuna giustificazione per quelle due ore. Noi aspettavamo un altro aereo con gli anestetici, dalla costa. Io rimasi con quell’uomo, insieme con due delle ragazze. Eravamo laggiù, avevamo fatto il carico dell’aeroplano. Non c’erano dottori. Non si poteva fare nulla per quell’uomo, eccetto che stare lì, stare con lui. Era traumatizzato, ma per la maggior parte del tempo conservò la conoscenza. Aveva dolori spaventosi, soprattutto nelle mani. Non credo che sapesse che il resto del suo corpo era completamente ustionato, sentiva soprattutto il dolore alle mani. Non si poteva toccarlo per confortarlo, pelle e carne venivano via al minimo tocco, e lui gridava. Non si poteva fare nulla per lui. Non c’era assistenza che gli si potesse dare. Forse sapeva che eravamo accanto a lui, non so. Ma il fatto che gli fossimo accanto, non gli servì assolutamente a nulla. Non si poteva fare nulla per lui. E fu allora che compresi… vedete… compresi che non puoi fare nulla per nessuno. Non possiamo salvarci mutuamente. O salvare noi stessi.

— E cosa ti rimane, allora? Isolamento e disperazione. Tu neghi la fratellanza, Shevek! — gridò la ragazza alta.

— No… no, niente affatto. Io cerco di esprimere quella che, secondo me, è in realtà la fratellanza. Essa comincia… essa comincia nella condivisione del dolore.

— E dove finirebbe?

— Non lo so. Ancora non lo so.

CAPITOLO 3

Quando Shevek si destò, dopo avere dormito senza interruzioni per tutta la sua prima mattina su Urras, aveva il naso intasato, la gola irritata e una tosse insistente. Ritenne di essersi preso un raffreddore — neppure l’igiene Odoniana era riuscita a evitare il raffreddore comune — ma il dottore che attendeva di eseguire su di lui un controllo medico completo, un uomo anziano e dall’aria solenne, gli disse che si trattava, molto probabilmente, di un attacco di febbre da fieno: una reazione allergica al pulviscolo e al polline di Urras, che non erano familiari al suo organismo. Gli prescrisse delle compresse e un’iniezione, che Shevek accolse con filosofia, e il vassoio della colazione, che Shevek accolse con appetito. Il dottore gli chiese ancora di non uscire dall’appartamento, poi se ne andò. Non appena ebbe terminata la colazione, Shevek si dedicò all’esplorazione di Urras, una stanza alla volta.

Il letto, un letto massiccio, montato su quattro piedini, con un materasso assai più soffice di quello della cuccetta della nave, con coperte complicate, alcune lisce e sottili, altre calde e spesse, e con un mucchio di cuscini che parevano nubi e cumuli, disponeva di un’intera stanza. Il pavimento era ricoperto di un tappeto cedevole ed elastico; c’erano una cassettiera di legno mirabilmente scolpito e lucidato, un ripostiglio abbastanza grande da accogliere gli abiti di un dormitorio per dieci persone. Poi c’era la grande stanza comune con il focolare, da lui già osservata la sera prima, e una terza stanza, che conteneva una vasca da bagno, un lavandino e un cesso complicatissimo. Questa stanza era destinata evidentemente al suo uso esclusivo, dato che la sua porta d’accesso dava sulla stanza da letto, e dato che conteneva soltanto una serie di oggetti da bagno, sebbene ciascuno di tali oggetti fosse lussuoso in un modo talmente sensuale da spingersi assai al di là del semplice erotismo e da costituire, secondo Shevek, qualcosa come l’insuperabile apoteosi dell’escrementale. Egli passò circa un’ora in questa terza stanza, occupato a usare ciascuno degli oggetti, a turno, e così raggiungendo, incidentalmente, un alto grado di pulizia personale. Lo spiegamento delle acque era meraviglioso. I rubinetti continuavano a versare finché non li si chiudeva; la vasca da bagno teneva sessanta litri; il cesso usava non meno di cinque litri d’acqua ogni volta. Ma in realtà la cosa non costituiva una sorpresa. La superficie di Urras era per cinque sesti composta d’acqua. Perfino i suoi deserti erano di ghiaccio, ai poli. Non c’era bisogno di economizzare; non c’era siccità… Ma dove finivano gli escrementi? Se lo chiese a lungo, inginocchiato accanto alla tazza del cesso, dopo aver studiato il meccanismo dello sciacquone. Probabilmente li filtravano in qualche impianto per la produzione di concime. Anche su Anarres c’erano delle comunità marine che usavano un simile sistema per il loro recupero. Si ripromise di chiedere informazioni su questo particolare, ma in seguito non se ne presentò mai l’occasione. C’erano molte domande ch’egli non fece mai, su Urras.

Nonostante la testa pesante, si sentiva abbastanza bene, e desideroso di attività. Le stanze erano talmente calde ch’egli rinunciò a vestirsi, e continuò a girare nudo per l’appartamento. Si recò alle finestre della camera più grande e rimase lì fermo, a guardare fuori. La stanza era molto in alto. La sua prima reazione fu di sorpresa: si tirò indietro, poiché non era abituato a edifici di altezza superiore a un piano. Era come guardare giù da un dirigibile; ci si sentiva distaccato dalla terra, dominante, non coinvolto in quanto vi accadeva. Le finestre si affacciavano sulle cime di un boschetto e, al di là di questo, si scorgeva un edificio bianco con una aggraziata torre di forma quadrata. Dietro all’edificio, il terreno digradava a formare un’ampia vallata. Tutta la superficie era coltivata, poiché le innumerevoli macchie di verde che la coloravano erano rettangolari. E anche dove il verde svaniva nella distanza azzurrina, si potevano distinguere le righe nere delle strade, delle siepi divisorie e dei filari d’alberi: una rete altrettanto fine quanto il sistema nervoso di un organismo vivente. E infine si innalzavano delle montagne, che facevano da limite alla valle, una piega blu dopo l’altra, morbide e scure sotto il grigio pallido, ininterrotto, del cielo.

Era il più bel panorama che Shevek avesse visto. La delicatezza e la vitalità dei colori, la mescolanza del disegno rettilineo umano con i margini robusti, proliferanti, della natura, la varietà e l’armonia degli elementi, davano un’impressione di complessa integrità quale egli non aveva mai visto, ad eccezione, forse, di quella adombrata in piccola scala su taluni volti umani sereni e pensosi.

Paragonata a questa, qualsiasi scena che Anarres potesse offrire, perfino la Piana di Abbenay, e i massicci dei Ne Theras, era poca cosa: appariva spoglia, arida, approssimativa. I deserti del Sudovest possedevano la bellezza nella loro vastità, ma era una bellezza ostile, senza tempo. Anche là dove Anarres era coltivata in modo più estensivo, il paesaggio pareva un abbozzo senz’arte, in gesso giallo, a paragone con questa piena magnificenza di vita, ricca sia di storia sia di stagioni a venire, inesauribile.

Ecco come dovrebbe essere un mondo, pensò Shevek.

E in qualche punto, là fuori, in quello splendore verde e azzurro, qualcosa stava cantando: una piccola voce acuta, che iniziava e poi cessava, incredibilmente dolce. Di che cosa si trattava? Una piccola voce, chiara e imprevedibile, una musica sospesa nell’aria.

Egli ascoltò, e il respiro gli si fermò nella gola.

Ci fu un bussare alla porta. Voltandosi incuriosito, nudo così come si trovava, e volgendo le spalle alla finestra, Shevek disse: — Venga avanti!

Entrò un uomo, portando sulle braccia vari pacchetti. Si arrestò non appena varcata la soglia. Shevek attraversò la stanza in direzione del nuovo venuto, e pronunciò il proprio nome, secondo il costume anarresiano; insieme, secondo il costume urrasiano, tese la mano.

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