La qualità è una faccenda importante, ma lo è altrettanto la quantità: la dimensione relativa. La normale reazione di un adulto nei confronti di una persona assai più piccola può essere arrogante, o protettiva, o paternalistica, o affezionata, o di sopraffazione, ma qualunque venga a essere la sua forma, è probabile che questa reazione sia più adatta a un bambino che a un adulto. Inoltre, quando la persona con taglia da bambino è coperta da un manto di pelo, un’ulteriore reazione psicologica fa la comparsa; una risposta che Lyubov aveva chiamato "Reazione dell’Orsacchiotto di Peluche". Poiché gli Athshiani usavano molto la carezza, le manifestazioni di questa reazione non erano del tutto fuori luogo, ma le sue motivazioni rimanevano alquanto dubbie. E infine c’era l’inevitabile Reazione al Fenomeno da Baraccone, il cercare di tenersi lontano da ciò che sia umano ma che non ne abbia pienamente l’aspetto.
Ma, del tutto al di fuori di questo, c’era il fatto che gli Athshiani, come del resto i terrestri, erano, a volte, semplicemente buffi. Alcuni di loro avevano davvero l’aspetto di piccole rane, gufi, bruchi pelosi. Sherrar non era la prima dama attempata che, vista dal di dietro, fosse parsa buffa agli occhi di Lyubov…
E questo è uno dei guai della colonia, pensò, mentre faceva prendere il volo all’elicottero e Tuntar svaniva sotto le querce e i frutteti senza foglie. Noi non abbiamo nessuna vecchietta. E neppure dei vecchietti, eccetto Dongh, che del resto ha solo sessant’anni. Ma le vecchie sono diverse da qualsiasi altro tipo di persona, perché dicono sempre quello che pensano.
Gli Athshiani sono governati, entro i limiti di quello che può essere il loro governo, da vecchie donne. L’intelletto spetta agli uomini, la politica alle donne, e l’etica all’interazione di entrambi: questo il loro ordinamento. Ha un suo certo fascino, e funziona… per loro.
Peccato che l’Amministrazione non abbia mandato anche un paio di care nonnine, insieme con tutte quelle giovani donne nubili fertili seno alto. A esempio, la ragazza che era da me la notte scorsa, è davvero una brava ragazza, ed è brava a letto, ha un cuore gentile, ma mio Dio, dovranno ancora passare quarant’anni prima che abbia qualcosa da dire a un uomo…
E per tutto il tempo, al di sotto dei suoi pensieri riguardanti le donne giovani e quelle vecchie, lo shock non si allontanava: l’intuizione o la comprensione che non voleva lasciarsi riconoscere.
Doveva pensarci bene, sviscerare la cosa, prima di fare rapporto al Quartier Generale.
Selver: che dire di Selver, dunque?
Selver era certamente una figura chiave per Lyubov. Perché? Perché lo conosceva bene, oppure a causa di qualche reale potere della sua personalità, un potere che Lyubov non era mai riuscito a individuare consciamente?
Eppure l’aveva individuato; aveva scelto Selver molto presto, riconoscendo in lui una persona straordinaria. "Sam" si era chiamato allora: l’attendente di tre ufficiali che condividevano una baracca prefabbricata. Lyubov ricordava che Benson si vantava del bravo creechie che avevano, l’avevano addomesticato bene.
Molti Athshiani, specialmente Sognatori delle Logge, non potevano cambiare il loro schema di sonno policiclico per accomodarlo a quello terrestre. Se recuperavano il sonno normale nel corso della notte, ciò impediva loro di recuperare il sonno REM, o sonno paradosso, il cui ciclo di 120 minuti regolava la loro vita sia di giorno che di notte, e non poteva venire adattato alla giornata lavorativa terrestre.
Una volta che abbiate imparato a fare i vostri sogni da svegli, a tenere in equilibrio la vostra sanità di mente non sul filo di rasoio della ragione, ma sul doppio supporto, la fine bilancia, della ragione e del sogno, una volta imparato questo, non potete disimpararlo più di quanto possiate disimparare a pensare.
E così, molti degli uomini diventavano storditi, confusi, ritirati in se stessi, perfino catatonici. Le donne, sconcertate e degradate, si comportavano con la scontrosa inquietudine di coloro che sono da poco caduti in schiavitù. I maschi non adepti e alcuni dei Sognatori più giovani si comportavano meglio; si adattavano, lavorando duramente nei campi dei taglialegna o diventando dei bravi servitori.
Sam era stato uno di questi, un cameriere efficiente, privo di fisionomia, cuoco, lavandaio, maggiordomo e capro espiatorio dei suoi tre padroni. Aveva imparato l’arte di rendersi invisibile. Lyubov l’aveva preso in prestito come informatore etnologico, e si era guadagnato subito, grazie a qualche affinità di mente e di natura, la fiducia di Sam. Aveva trovato in Sam l’informatore ideale, esperto dei costumi del proprio popolo, capace di comprendere i significati, e rapido nel tradurli, nel renderli comprensibili a Lyubov, colmando la distanza tra due linguaggi, due culture, due specie del genere Homo.
Da due anni Lyubov continuava a viaggiare, studiare, interrogare, osservare, e non era riuscito a trovare la chiave che gli avrebbe permesso di penetrare nella mente degli Athshiani. Anzi, non sapeva neppure dove fosse la serratura.
Aveva studiato le abitudini degli Athshiani che riguardavano il sonno, e aveva scoperto che essi, a quanto pareva, non ne avevano. Aveva collegato un’infinità di elettrodi a un’infinità di crani coperti di pelo verde, e non era riuscito a trarre alcun senso dai tracciati familiari, i "fusi" e i picchi, le onde alfa, delta e teta che apparivano sullo schermo.
Era stato Selver a fargli capire, alla fine, il significato della parola "sogno", che era anche la parola per dire "radice", e a dargli in questo modo la chiave del regno del popolo della foresta. E con Selver come soggetto elettroencefalografico aveva per la prima volta visto, e compreso, gli straordinari schemi di impulsi di un cervello che entrava in uno stato onirico, uno stato di sogno, che non era né il sonno né la veglia: una condizione che stava in rapporto con il sonno onirico terrestre come il Partenone sta in rapporto con una capanna di fango: la stessa cosa, fondamentalmente, ma con l’aggiunta di complessità, qualità e controllo.
E poi, che altro?
Selver avrebbe potuto fuggire. Era rimasto, prima come un valletto, poi… grazie a uno dei pochi privilegi utili di Lyubov in qualità di Specialista… come Assistente Scientifico, ancora chiuso a chiave la notte con tutti gli altri creechie nel recinto… i Quartieri del Personale Lavorativo Volontario Autoctono.
«Posso portarti a Tuntar con l’elicottero e lavorare con te laggiù» gli aveva detto Lyubov, la terza o quarta volta che aveva parlato con Selver. «Per l’amor di Dio, perché vuoi restare qui?»
E Selver aveva risposto: «Mia moglie Thele è nel recinto».
Lyubov aveva cercato di farla liberare, ma lei era in forza alla cucina del Quartier Generale, e i sergenti che comandavano la cucina si opponevano a ogni interferenza dei "pezzi grossi" e degli "specialisti". Lyubov doveva procedere con i piedi di piombo, per evitare che scaricassero sulla donna il loro risentimento.
Tanto la donna quanto Selver parevano disposti ad aspettare pazientemente fino al momento in cui tutti e due insieme potessero venir fatti evadere o liberati. Maschi e femmine creechie erano rigorosamente segregati nei recinti… perché, nessuno pareva saperlo… e moglie e marito avevano raramente la possibilità di vedersi.
Lyubov riuscì a organizzare qualche loro incontro nella baracca che aveva tutta per sé alla periferia nord del campo. E proprio una volta che Thele tornava al Quartier Generale dopo uno di questi incontri, Davidson l’aveva vista ed era stato evidentemente colpito dalla sua grazia fragile e spaventata. Se l’era fatta portare nel proprio alloggio, quella notte, e l’aveva violentata.
Nell’atto, l’aveva uccisa; la cosa era già accaduta altre volte, per effetto della diversità fisica; oppure era stata lei stessa che aveva cessato di vivere. Al pari di taluni terrestri, gli Athshiani possedevano il segreto dell’autentico desiderio di morte, e potevano smettere di vivere con un atto di volontà.
Nell’uno o nell’altro caso, era stato Davidson a ucciderla. Omicidi come quello erano già avvenuti in precedenza. Ciò che non era mai avvenuto in precedenza era ciò che aveva poi fatto Selver, due giorni dopo la sua morte.
Lyubov era arrivato solo nelle fasi finali. Ricordava ancora i suoni; lui stesso che correva lungo la Strada Principale sotto la rovente luce del sole; la polvere, il gruppo di uomini. Il tutto era durato al massimo cinque minuti: un tempo assai lungo per una lotta omicida.
Quando Lyubov era giunto, Selver era accecato dal sangue, era una sorta di giocattolo con cui Davidson si divertiva, eppure si era rimesso in piedi e stava ritornando all’attacco, non con la rabbia del guerriero impazzito, ma con la disperazione dell’intelligenza. E continuava ad attaccare.
Era Davidson quello che infine, portato alla rabbia dalla paura, a causa di quella terribile ostinazione, aveva sbattuto Selver a terra con un pugno, aveva fatto un passo avanti e aveva sollevato il piede per schiacciargli il cranio sotto gli stivali. Mentre stava per calare il piede, Lyubov aveva fatto irruzione nel cerchio di uomini.
Aveva fermato la lotta… infatti, per quanto fosse potuta essere grande la sete di sangue dei dieci o dodici uomini che avevano assistito alla scena, quella sete era ormai soddisfatta, ed essi avevano aiutato Lyubov a fermare Davidson… e da allora in poi, Lyubov aveva odiato Davidson, ed era stato odiato da lui, poiché si era interposto tra l’uccisore e la sua morte.
Poiché infatti, se è tutto il resto dell’umanità a venire ucciso dal suicida, è se stesso che l’omicida uccide; solamente, lui lo deve rifare ancora, e ancora, e ancora.
Lyubov aveva raccolto da terra Selver, un peso leggerissimo tra le sue braccia. Il volto mutilato aveva premuto sulla sua camicia, e il sangue vi era penetrato fino a bagnargli la pelle.
Aveva portato Selver al proprio bungalow, gli aveva steccato il polso fratturato, aveva fatto tutto il possibile per la sua faccia, l’aveva tenuto nel proprio letto, una notte dopo l’altra aveva cercato di parlargli, di giungere fino a lui nella solitudine del suo dolore e della sua vergogna. Si era trattato, naturalmente, di una cosa che andava contro i regolamenti.
Nessuno gli aveva fatto notare i regolamenti. E neppure aveva avuto bisogno di farlo. Lui sapeva di avere messo a repentaglio la poca simpatia di cui godeva presso gli ufficiali della colonia.
Aveva fatto sempre attenzione a tenersi dalla giusta parte del Quartier Generale, protestando solo di fronte ai casi estremi di brutalità contro gli indigeni, usando la persuasione e non la provocazione, e cercando di conservare le poche briciole di potere e di influenza da lui possedute.
Non poteva evitare lo sfruttamento degli Athshiani. Era molto peggio di quanto non gli avesse fatto credere il suo tirocinio, ma poteva fare poco, a tal riguardo, ora come ora. I suoi rapporti all’Amministrazione e al Comitato per i Diritti avrebbero potuto… dopo il viaggio di andata e ritorno, cinquantaquattro anni… avere qualche effetto; la Terra avrebbe potuto perfino decidere che la politica di Colonia Aperta per il pianeta Athshe era un grave errore. Meglio cinquantaquattro anni che mai. Se si fosse perso la tolleranza dei suoi superiori, essi avrebbero potuto censurare o invalidare i suoi rapporti, e allora non ci sarebbe stata alcuna speranza.
Ma era troppo arrabbiato, ora, per continuare con quella strategia. Al diavolo gli altri, se insistevano nel voler vedere le sue attenzioni verso un amico come un insulto alla Madreterra e un tradimento della colonia. Se lo avessero etichettato "l’amante degli alieni", la sua utilità per gli Athshiani sarebbe svanita; ma non poteva collocare al di sopra dei pressanti bisogni di Selver un bene collettivo che era solo possibile. Non puoi salvare un popolo vendendo il tuo amico.
Davidson, stranamente infuriato dalle piccole ferite che Selver gli aveva arrecato e dall’interferenza di Lyubov, era andato in giro a dire che intendeva farla finita con quel creechie ribelle; e certo l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto la possibilità. Lyubov rimase con Selver notte e giorno per due settimane, e poi lo portò via dalla Centrale e lo fece scendere in una città della costa occidentale, Broter, dove Selver aveva dei parenti.
Non c’erano penalità per chi aiutasse gli schiavi a fuggire, poiché gli Athshiani non erano schiavi in nessun senso, se non di fatto: erano Personale di Lavoro Autoctono Volontario. Lyubov non fu neppure rimproverato. Ma gli ufficiali regolari nutrirono una sfiducia totale, invece che parziale, nei suoi confronti, da allora in poi; e anche i suoi colleghi dei Servizi Speciali, gli esobiologi, i coordinatori agricoli e forestali, gli fecero capire, varie volte, che si era comportato in modo irrazionale, donchisciottesco o stupido.
«Credevi di venire a un picnic?» gli aveva domandato Gosse.
«No, non credevo che fosse nessun porco picnic» aveva risposto Lyubov, sgarbato.
«Non capisco perché un esperto di forme d’intelligenza si voglia legare volontariamente a una Colonia Aperta. Sai che la gente che studi finirà per essere schiacciata, e probabilmente spazzata via. È il modo in cui vanno le cose. È la natura umana, e certo saprai che non puoi cambiarla. Allora, perché venire a osservare il processo? Per masochismo?»
«Non so che cosa sia la "natura umana". Forse lasciare descrizioni di ciò che spazziamo via fa parte della natura umana… E poi, è forse più piacevole, per un ecologo?»
Gosse aveva ignorato queste parole. «D’accordo, scrivi pure le tue descrizioni. Ma tienti fuori della mischia. Un biologo che studia una colonia di ratti non ci mette dentro le mani per salvare dei singoli ratti che gli sono simpatici e che corrono dei pericoli, lo sai.»
A questo, Lyubov era sbottato. Aveva sopportato troppo.
«No, certamente no» aveva detto. «Un ratto non può essere un amico. Selver è mio amico. In realtà è l’unico uomo di questo pianeta che io consideri mio amico.»
Queste parole avevano ferito il povero vecchio Gosse, che voleva essere per Lyubov una figura paterna, e non avevano fatto del bene a nessuno. Eppure era la verità. E la verità vi renderà liberi… Io amo Selver, lo rispetto, l’ho salvato; ho sofferto con lui; ho paura di lui. Selver è mio amico.
Selver è un dio.
Così aveva detto la piccola vecchietta verde, come se tutti lo sapessero, con la stessa semplicità con cui avrebbe potuto dire che Tizio era un cacciatore.
«Selver Sha’ab.»
Ma che cosa significava sha’ab, però? Molte parole della Lingua delle Donne, il parlare quotidiano degli Athshiani, venivano dalla Lingua degli Uomini, che era uguale per tutte le comunità, e quelle parole, molte volte, non solo avevano due sillabe, ma avevano anche due significati. Erano come monete: diritto e rovescio. Sha’ab significava dio, o entità numinosa, o essere potente; significava anche un’altra cosa, del tutto differente; ma Lyubov non riusciva a ricordare quale fosse. A questo punto dei suoi pensieri, lui era già a casa, nel bungalow, e gli bastava andare a guardare nel dizionario che lui e Selver avevano compilato in quattro mesi di lavoro faticoso ma armonioso. Ma certo: Sha’ab, traduttore.
Era quasi troppo opportuno, troppo a proposito.
C’era un legame tra i due significati? Spesso c’era, ma non con tale frequenza da costituire una regola. Se un dio era un traduttore, che cosa traduceva? Selver era effettivamente un interprete dotato, ma quel dono aveva trovato espressione solamente in un avvenimento fortuito: il fatto che una lingua totalmente straniera fosse stata portata nel suo mondo.
Uno sha’ab era una persona che traduceva il linguaggio del sogno e della filosofia, la Lingua degli Uomini, nel linguaggio di tutti i giorni? Ma tutti i Sognatori sapevano farlo. Poteva allora essere una persona che sapeva tradurre nella vita della veglia l’esperienza centrale della visione: una persona che serviva da legame tra le due realtà, considerate uguali dagli Athshiani, il tempo del sogno e il tempo del mondo, le cui connessioni, per quanto vitali, sono oscure? Un legame, una persona che poteva dire a voce le percezioni del subconscio. "Parlare" quel linguaggio è agire. Fare una nuova cosa. Cambiare o essere cambiato radicalmente, dalla radice. Poiché la radice è il sogno.