Il mondo della foresta - Le guin Ursula Kroeber 12 стр.


E il traduttore è il dio. Selver aveva portato una nuova parola nella lingua del suo popolo. Aveva compiuto una nuova azione. La parola, l’azione, era l’omicidio. Solo un dio poteva condurre un nuovo venuto, grande come la Morte, sul ponte che unisce le due realtà.

Ma lui aveva imparato a uccidere i propri fratelli tra i suoi stessi sogni di oltraggio e di lutto, o dalle azioni… mai prima sognate… degli stranieri? Parlava il proprio linguaggio o parlava quello del capitano Davidson?

Ciò che sembrava nascere dalle radici della sua stessa sofferenza ed esprimere la sua personalità trasformata, poteva in realtà essere un’infezione, una malattia straniera, che non avrebbe trasformato in un nuovo popolo la sua razza, ma invece l’avrebbe distrutta.

Non era nella natura di Raj Lyubov chiedersi: "Che cosa posso fare?". Carattere e tirocinio lo portavano a non interferire negli affari degli altri. Il suo lavoro consisteva nello scoprire che cosa facessero, e la sua inclinazione era di lasciare che continuassero a farlo. Preferiva venire illuminato, piuttosto di illuminare; cercare dei fatti invece che la Verità.

Ma anche l’anima meno missionaria, a meno che non pretenda di essere priva di emozioni, si trova a volte a dover scegliere tra un peccato da commettere concretamente e uno di omissione. "Che cosa stanno facendo?" diventa tutt’a un tratto: "Che cosa stiamo facendo?" e poi: "Che cosa devo fare io?".

Di avere adesso raggiunto un punto di scelta simile, lui lo sapeva, e tuttavia non sapeva chiaramente perché, e neppure le alternative che gli fossero offerte.

Non poteva proprio fare altro, per aumentare le possibilità di sopravvivenza degli Athshiani, al momento; Lepennon, Or e l’ansible avevano fatto più di quanto lui avesse sperato di veder fare nel corso della sua vita.

L’Amministrazione di Terra era esplicita in ogni comunicazione ansible, e il colonnello Dongh, sebbene ricevesse pressioni, da alcuni del suo staff e dai capi del disboscamento, di ignorare le direttive, eseguiva alla lettera gli ordini. Era un ufficiale fedele alla consegna; e inoltre, la Shackleton sarebbe ritornata per osservare e far rapporto sul modo in cui gli ordini venivano eseguiti.

Un rapporto aveva il suo peso, ora che quell’ansible, quella machina ex machina, serviva a impedire la vecchia, tranquilla autonomia coloniale, e a renderti passibile di condanna, entro la durata della tua vita, per ciò che facevi.

Non c’era più un margine di cinquantaquàttro anni per gli errori. La politica non era più una cosa statica. Una decisione della Lega dei Mondi poteva portare la colonia, da un giorno all’altro, a essere confinata su una sola delle Isole, o a ricevere la proibizione di tagliare alberi, o l’incoraggiamento a uccidere i nativi… non c’era modo di saperlo.

Come operasse la Lega e che tipo di politiche stesse sviluppando non poteva ancora indovinarsi dalle monotone direttive dell’Amministrazione. Dongh era preoccupato da quei futuri aperti, molteplici, ma Lyubov li amava. Nella diversità c’è vita e dove c’è vita c’è speranza: ecco la somma generale dei suoi credo. Somma invero modesta.

I coloni lasciavano stare gli Athshiani, e gli Athshiani lasciavano stare i coloni. Una situazione salubre, e una situazione da non disturbare senza necessità. L’unica cosa che potesse disturbarla era la paura.

Al momento ci si poteva attendere che gli Athshiani fossero sospettosi e ancora animati dal risentimento, ma non particolarmente impauriti. E per quanto riguardava il panico sorto a Centralville alla notizia del massacro di Campo Smith, nulla era accaduto che potesse farlo rivivere.

Nessun Athshiano, in nessun luogo, aveva dato segni di violenza dopo di allora; e con la liberazione degli schiavi, con tutti i creechie svaniti di nuovo nelle loro foreste, non c’era più la continua irritazione della xenofobia. I coloni cominciavano finalmente a rilassarsi.

Se Lyubov avesse fatto rapporto di avere visto Selver a Tuntar, Dongh e gli altri si sarebbero allarmati. Avrebbero potuto fare pressioni per tentare di catturare Selver e di riportarlo indietro per processarlo.

Il Codice Coloniale proibiva di portare in giudizio un membro di una società planetaria per avere infranto le leggi di un’altra, ma la Corte Marziale scavalcava questo tipo di distinzioni.

Potevano processare, condannare e fucilare Selver. Riportando da New Java Davidson, per fare da testimone. Oh, no, pensò Lyubov, rimettendo il dizionario nello scaffale stracolmo. Oh, no, pensò, e poi non ci pensò più. E così effettuò la sua scelta senza neppure accorgersi di averla fatta.

Inoltrò un breve rapporto, il giorno seguente. Diceva che a Tuntar le cose procedevano come sempre, e che lui non era stato né allontanato né minacciato. Era un rapporto assai tranquillizzante, ed era il meno accurato che Lyubov avesse mai scritto.

Venivano omesse tutte le cose importanti: la non apparizione della donna-capo, il rifiuto di Tubab di salutare Lyubov, il gran numero di stranieri in città, l’espressione della giovane cacciatrice, la presenza di Selver…

Naturalmente, quest’ultima era un’omissione intenzionale, ma per tutto il resto il rapporto si atteneva rigorosamente ai fatti, pensò Lyubov; lui aveva semplicemente omesso talune impressioni soggettive, così come deve fare ogni scienziato. Ebbe un feroce mal di testa mentre scriveva il rapporto, e uno ancora peggiore quando lo consegnò.

Sognò molto, quella notte, ma non poté ricordare il sogno il mattino seguente. A notte fonda, il secondo giorno dopo la sua visita a Tuntar, lui si svegliò, e nell’ululato isterico delle sirene d’allarme e nei tonfi delle esplosioni fronteggiò, alla fine, ciò che si era rifiutato di vedere. Lyubov fu l’unico uomo di Centralville che non venne colto di sorpresa. In quel momento seppe che cos’era: un traditore.

Eppure, neanche ora, non era chiaro nella sua mente che si trattava di un’incursione degli Athshiani. Era il terrore nella notte.

La sua baracca era stata ignorata, dato che si trovava nel proprio spiazzo, lontano dalle altre case; forse gli alberi che la circondavano l’avevano protetta. Il centro della città era completamente in preda alle fiamme. Perfino il cubo di pietra del Quartier Generale bruciava dall’interno, come un forno spaccato. Là dentro c’era l’ansible, il prezioso collegamento.

C’erano fuochi anche in direzione del deposito degli elicotteri e del campo d’atterraggio. Dove avevano preso gli esplosivi? E i fuochi, come avevano fatto a scoppiare tutti insieme? Tutti gli edifici affacciati sui due lati della Strada Principale, costruiti in legno, bruciavano; il rumore dell’incendio era terribile.

Lyubov corse verso i fuochi. L’acqua scorreva sulla strada; pensò in un primo momento che provenisse da un idrante, poi si accorse che la condotta proveniente dal fiume Menend si rovesciava inutilmente al suolo, mentre le case bruciavano con quel pauroso ruggito risucchiante.

Come avevano fatto? C’erano le sentinelle, c’erano sempre sentinelle in jeep al campo d’atterraggio… Colpi: raffiche, le vacue chiacchiere di una mitragliatrice. Tutt’intorno a Lyubov c’erano piccole figurette che correvano, ma corse in mezzo a esse senza badare loro.

Era davanti all’Ostello, adesso, e vide una delle ragazze ferma sulla soglia, col fuoco che le guizzava alla schiena e la via della fuga aperta davanti a lei. Ma non si muoveva. Lyubov le gridò, poi attraversò il cortile per raggiungerla e le strappò le mani dagli stipiti a cui si afferrava nel panico: la tirò via con la forza dicendo gentilmente: — Vieni, cara, vieni.

La ragazza venne via, ma non abbastanza in fretta. Mentre attraversavano il cortile, la facciata del piano superiore, bruciando dall’interno, cadde lentamente verso di loro, spinta dalle travi del tetto che crollava. Assi e travi caddero come frammenti di una granata; l’estremità infuocata di una trave colpì Lyubov e lo gettò a terra disteso. Giacque con la faccia in giù, nel lago di fango illuminato dal fuoco. Non vide la piccola cacciatrice coperta di pelo verde balzare sulla ragazza, farla cadere a terra sulla schiena, tagliarle la gola. Ormai non poteva vedere più nulla.

6

Selver

Quella notte non ci furono canti. Solamente grida e silenzi. Quando le navi volanti bruciarono, Selver esultò, e lacrime gli spuntarono agli occhi, ma nessuna parola alla bocca. Distolse lo sguardo, in silenzio; il lanciafiamme era pesante nelle sue mani: si accinse a guidare nuovamente il gruppo entro la città.

Ciascun gruppo di persone dell’Ovest e del Nord era guidato da un ex schiavo come lui: uno che avesse servito gli umani alla Centrale e conoscesse gli edifici e le vie della città.

Molte delle persone che erano venute per l’attacco quella notte non avevano mai visto la città degli umani; molte di loro non avevano mai visto un umano. Erano venute perché seguivano Selver, perché erano spinte dal cattivo sogno e solamente Selver poteva insegnare loro a padroneggiarlo.

Ce n’erano centinaia e centinaia, uomini e donne; avevano atteso in profondo silenzio nel buio e nella pioggia, tutt’intorno al perimetro della città, mentre gli ex schiavi, due o tre alla volta, facevano quelle cose che, a loro giudizio, occorreva fare per prime: spaccare la conduttura dell’acqua, tagliare i fili che portavano la luce della Casa del Generatore, fare irruzione nell’Arsenale e saccheggiarlo.

Le prime morti, quelle delle guardie, erano avvenute in silenzio, mediante armi da caccia: cappio, coltello, freccia; molto rapidamente, nel buio. La dinamite, rubata tempo prima, nella notte, al campo dei boscaioli quindici chilometri più a sud, venne messa nell’Arsenale, nella cantina dell’edificio del Quartier Generale, mentre i fuochi vennero appiccati in altri luoghi; poi suonò l’allarme, i fuochi scoppiarono e sia la notte che il silenzio fuggirono.

La maggior parte del rumore di tuono e d’alberi caduti della fucileria veniva dagli umani che si difendevano, poiché solamente gli ex schiavi avevano preso armi dall’Arsenale e le avevano usate; tutti gli altri rimasero con le lance, i coltelli e gli archi. Ma era stata la dinamite, collocata e accesa da Reswan e da altri che avevano lavorato come schiavi nei campi dei tagliaboschi, a fare il rumore che aveva conquistato ogni altro rumore, a far scoppiare le pareti del Quartier Generale e a distruggere gli hangar e le navi.

C’erano circa millesettecento umani nella città quella notte, e circa cinquecento di essi erano femmine; si diceva che tutte le femmine umane fossero laggiù in quel momento, e questo era il motivo che aveva spinto all’azione Selver e gli altri, anche se non si erano ancora radunate tutte le persone che desideravano partecipare all’attacco. Un numero di uomini compreso tra quattromila e cinquemila era giunto attraverso le foreste all’Incontro di Endtor, e da lì alla città, a quella notte.

I fuochi bruciavano alti, e l’odore dell’incendio e del macello era cattivo.

Selver aveva la bocca secca e la gola dolorante, e perciò non poteva parlare, e avrebbe desiderato bere dell’acqua. Mentre guidava il suo gruppo lungo il sentiero centrale della città, un umano giunse di corsa incontro a loro, stagliandosi gigantesco sullo sfondo del buio e il bagliore dell’aria satura di fumo.

Selver sollevò il lanciafiamme e premette sulla lingua dell’arma, proprio mentre l’umano scivolava nel fango e cadeva annaspando sulle ginocchia. Nessun sibilante getto di fiamma corse fuori dalla macchina, si era tutta consumata nel bruciare le navi aeree che non erano chiuse nell’hangar. Selver lasciò cadere la macchina pesante. L’umano non era armato, ed era maschio.

Selver cercò di dire: — Lasciatelo fuggire — ma la sua voce era debole, e due uomini, cacciatori dei boschi di Abtan, erano già corsi davanti a lui, mentre parlava, brandendo lunghi coltelli. Le grosse, nude mani cercarono di afferrarsi all’aria, poi ricaddero immobili. Il grosso corpo giacque in un mucchio informe sul sentiero.

Ce n’erano molti altri che giacevano morti, laggiù in quello che era stato il centro della città. Non c’erano più tanti rumori, a eccezione di quello dei fuochi.

Selver aprì le labbra e lanciò con voce roca il richiamo del ritorno a casa, che pone fine alla caccia; coloro che erano con lui lo raccolsero, e lo ripeterono più chiaramente, più forte, con un falsetto che si prolungò; altre voci risposero, vicine e lontane, nella foschia e nell’odore e nell’oscurità della notte interrotta dalle fiamme.

Invece di condurre subito fuori della città il suo gruppo, Selver segnalò ai compagni di andare avanti da soli e si allontanò lateralmente, sul terreno fangoso, che separava il sentiero da un edificio che era bruciato ed era caduto. Scavalcò il corpo di una femmina umana morta e si chinò su un umano che giaceva a terra, schiacciato da un grosso, annerito palo di legno. Non riuscì a distinguere i lineamenti del viso, cancellati dal fango e dall’oscurità.

Non era giusto; non era necessario; lui non avrebbe dovuto guardare quel morto tra così tanti altri. Non avrebbe dovuto riconoscerlo nel buio. Fece per avviarsi dietro al proprio gruppo. Poi tornò indietro; con sforzo, sollevò il palo e lo tolse dalla schiena di Lyubov; si inginocchiò, facendo scivolare una mano sotto la pesante testa, cosicché Lyubov parve giacere più comodamente, con la faccia lontana dal suolo; e laggiù Selver si inginocchiò, immobile.

Non dormiva da quattro giorni, e non rimaneva fermo a sognare da un tempo ancora più lungo… non sapeva esattamente da quanto. Aveva agito, parlato, viaggiato, fatto piani notte e giorno fin da quando aveva lasciato Broter con i suoi seguaci venuti da Cadast.

Era andato da una città all’altra parlando al popolo della foresta, annunciando loro la nuova cosa, svegliandoli dal sogno e portandoli nel mondo, predisponendo tutto in modo che la cosa venisse fatta quella notte, parlando, parlando sempre e ascoltando altri parlare, mai in silenzio e mai solo.

Gli altri l’avevano ascoltata, l’avevano sentita ripetere ed erano giunti fino a lui per seguirlo, e per seguire la nuova via. Avevano raccolto nelle loro mani il fuoco di cui avevano paura: avevano raccolto nelle loro mani il dominio sul sogno cattivo: e avevano liberato sul nemico la morte che essi temevano. Tutto era stato fatto così come, secondo le sue parole, doveva essere fatto. Tutto si era svolto come aveva detto lui.

Le Logge e molte abitazioni degli umani erano state bruciate, le loro navi volanti erano state bruciate o rotte, le loro armi rubate o distrutte; le loro femmine erano morte. I fuochi si stavano spegnendo, la notte diventava assai scura, guastata dal fumo. Selver non riusciva quasi a vedere; alzò gli occhi verso l’est, chiedendosi se l’alba fosse prossima. Inginocchiato laggiù nel fango tra i morti, pensò: Questo è ora il sogno, il sogno cattivo. Io pensavo di guidarlo, ma è stato lui a guidare me.

Nel sogno, le labbra di Lyubov si mossero un poco contro il palmo della sua mano; Selver abbassò gli occhi e vide che le palpebre del morto erano aperte. Il riflesso dei fuochi morenti luccicava sulla superficie degli occhi di Lyubov. Dopo un poco, Lyubov pronunciò il nome di Selver.

— Lyubov, perché sei rimasto qui? Ti avevo detto di allontanarti dalla città questa notte. — Così Selver parlò nel sogno, seccamente, come se fosse adirato nei confronti di Lyubov.

— Sei tu il prigioniero? — disse Lyubov, debolmente e senza sollevare la testa, ma con una voce così normale che Selver pensò, per un istante, che quello non fosse il tempo del sogno, ma invece il tempo del mondo, la notte della foresta. — Oppure lo sono io?

— Nessuno, entrambi, come posso saperlo? Tutti i motori e le macchine sono bruciati. Tutte le donne sono morte. Abbiamo lasciato fuggire gli uomini, se hanno voluto farlo. Ho detto di non dare fuoco alla tua casa, i libri non hanno subito danni. Lyubov, perché tu non sei come gli altri?

— Io sono come loro. Un uomo. Come loro. Come te.

— No, tu sei diverso…

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