— No, lavorano se sai farli lavorare. Hanno costruito il campo.
Il volto di ossidiana di Oknanawi era arcigno. — Be’, voi dovete avere il tocco magico con i creechie, credo. Io non l’ho. — Tacque. — In quel corso di Storia Applicata che ho fatto nell’addestramento per Oltre-spazio, dicevano che lo schiavismo non ha mai funzionato. Era antieconomico.
— Giusto, ma qui non si tratta di schiavismo, Ok, ragazzo mio. Quando allevi mucche, lo chiami schiavismo? No. E il sistema funziona.
Impassibile, il caposquadra annuì; ma disse: — Sono troppo piccoli. Ho cercato di affamare quelli più intrattabili. Ma si limitano a starsene immobili e a lasciarsi morire di fame.
— Sono piccoli, certo, ma non devi lasciarti fregare da loro, Ok. Sono duri; hanno una resistenza terribile; e non provano il dolore come gli uomini. Questa è la parte che tu dimentichi, Ok. Tu pensi che colpirne uno sia come colpire un bambino, più o meno. Credimi, è invece come colpire un robot, per quello che sentono. Senti, tu ti sei fatto qualcuna delle femmine, e sai che ti danno l’impressione di non provare nulla, né piacere né dolore, si limitano a starsene lì come materassi, qualunque cosa uno faccia. E tutti i creechie sono uguali. Probabilmente hanno nervi più primitivi di quelli dell’uomo. Come i pesci.
"Senti, te ne racconto una da far rizzare i capelli, a questo proposito. Quando ero alla Centrale, prima di venire qui, uno dei maschi domestici mi ha attaccato, una volta. Sì, lo so, ti dicono che non lottano mai, ma quello è impazzito, ha perso le rotelle, e per fortuna non era armato, altrimenti mi avrebbe ucciso. Sono stato costretto quasi a ucciderlo, perché si decidesse anche solo a fermarsi. E continuava a saltarmi addosso.
"Era incredibile la battuta che si prendeva, senza neppure accorgersene. Come un insetto: tocca a te smettere di calpestarlo, perché lui non si è accorto che l’hai già sfracellato. Da’ un’occhiata."
Davidson chinò il capo per mostrare una cicatrice ancora rigonfia, dietro un orecchio, in mezzo ai capelli tagliati a spazzola.
— Quel colpo, accidenti, per poco non mi ha spaccato il cranio. E mi ha colpito dopo che gli avevo già spaccato il braccio e gli avevo ridotto la faccia a una marmellata di mirtilli. Continuava a saltarmi addosso.
"La faccenda, Ok, è che i creechie sono pigri, sono stupidi, sono traditori, e non sentono il dolore. Bisogna essere duri con loro, e continuare a esserlo."
— Non ne vale la fatica, capitano. Quei piccoli, maledetti bastardi cocciuti, non fanno la lotta, non fanno il lavoro, non fanno nulla di nulla. L’unica cosa che fanno è che mi fanno venire l’angoscia.
C’era una sorta di calma, nei mugugni di Oknanawi, che tradiva un fondo di ostinazione. Non avrebbe mai battuto i creechie, a causa del fatto che erano tanto più piccoli di lui; ciò era chiaro nella sua mente, e adesso era chiaro anche a Davidson, che accettò subito la situazione. Sapeva da che lato prendere i propri uomini.
— Senti, Ok. Prova questo: prendi i capi del malcontento e di’ loro che gli farai un’iniezione di allucinogeni. Mescalina, acido, qualsiasi cosa: non ne distinguono uno dall’altro. Ma ne hanno una grande paura. Non forzare troppo la cosa, e vedrai che funzionerà. Te lo garantisco.
— E perché hanno paura degli allucinogeni? — chiese il capomastro, incuriosito.
— Come posso saperlo? Perché le donne hanno paura dei topi? Non cercare il buon senso nelle donne o nei creechie, Ok! Anzi, a proposito, stamattina vado alla Centrale: devo mettere il dito su una Ragazza di Colonia per te?
— Mi basta che teniate giù il dito da almeno una, fino a quando non avrò un permesso — rispose Ok, sogghignando.
Un gruppo di creechie passò davanti a loro, portando una lunga trave di tre metri per trenta centimetri, destinata alla Sala Ricreativa che stava sorgendo accanto al fiume. Le figurine lente e curve portavano la grossa trave come un gruppo di formiche che trasportasse un bruco morto: ostili e inette. Oknanawi le osservò e poi disse: — Capitano, mi fanno venire la pelle d’oca.
La frase era strana, sulle labbra di un tipo robusto e tranquillo come Ok.
— Be’, sono d’accordo con te, a dire il vero, Ok, che non ne valgono la fatica, o il rischio. Se quello stronzo di Lyubov non fosse sempre tra i piedi e il colonnello non fosse così maniaco nel seguire il regolamento, io penso che potremmo limitarci a ripulire le aree in cui ci insediamo, invece di questo tran-tran del Lavoro Volontario.
"Tanto, finiranno per essere cancellati, prima o poi, e dunque è meglio che lo siano prima. Le razze primitive devono sempre cedere il passo alle razze civili. O venire assimilate. Ma quant’è vero Iddio, non possiamo assimilare un mucchio di scimmie verdi. E, come dici tu, hanno giusto quel tanto d’intelligenza che basta a non renderle mai degne fino in fondo di fiducia. Come quelle grosse scimmie che vivevano una volta in Africa, come diavolo si chiamavano?"
— Gorilla?
— Proprio quelle. Andrà assai meglio, qui da noi, quando non ci saranno più creechie, esattamente come adesso va meglio senza gorilla in Africa. Ci bloccano la strada… Ma il colonnello Din-Don-Dan ci dice di usare manovali creechie, e noi usiamo i creechie. Per ora. Giusto? Ci vediamo questa sera, Ok.
— D’accordo, capitano.
Davidson andò a prendere l’elicottero al Quartier Generale di Campo Smith: un cubo di assi di pino, quattro metri per quattro, due scrivanie, la macchinetta dell’acqua refrigerata, il tenente Birno che riparava un walkie-talkie.
— Non far bruciare l’accampamento, Birno.
— Portatemi una Ragazza di Colonia, capitano. Bionda, misure 85, 55, 90.
— Cristo, niente di più?
— Mi piacciono asciutte, vedete, senza troppa polpa.
Birno tracciò espressivamente nell’aria le sue preferenze. Con un sorriso d’intesa, Davidson salì fino all’hangar. Mentre sorvolava il campo, si sporse a guardarlo: cubetti per bambini, linee di sentieri simili a schizzi, lunghe spianate irte di ceppi sporgenti; tutto si restrinse quando la macchina si alzò: vide il verde delle foreste non tagliate della grande isola, e al di là di quel verde cupo il verde pallido del mare che si stendeva interminabile. Ora Campo Smith pareva una macchia gialla, una pagliuzza su un vasto tappeto verde.
Attraversò lo Stretto di Smith e le pendici alberate, profondamente corrugate, della parte nord dell’Isola Centrale, e per mezzogiorno scese a Centralville. Sembrava una vera città, dopo tre mesi trascorsi nei boschi; c’erano vere e proprie strade, veri edifici, ed era laggiù fin dagli albori della Colonia, quattro anni addietro.
Non ti accorgevi della piccola, inconsistente cittadina di frontiera che era, finché non guardavi un chilometro più a sud e vedevi scintillare al di sopra della spianata di monconi e dei frangifiamme di cemento un’unica torre dorata, più alta di ogni altra cosa di Centralville. La nave non era di quelle grandi, ma quaggiù sembrava enorme. E si trattava solamente di una lancia, una navetta, una scialuppa; la nave ultra-luce della serie, la Shackleton, era mezzo milione di chilometri più su, in orbita. La lancia era solo una traccia, un’unghia della poderosità, della forza, della precisione dorata, della grandiosità della tecnologia della Terra, capace di congiungere tra loro le stelle.
Ecco perché gli occhi di Davidson si riempirono per un istante di lacrime, alla vista della nave venuta dalla madrepatria. E non se ne vergognava affatto. Era un patriota: lui, Davidson, era fatto così, e non poteva farci niente.
E presto, mentre camminava lungo quelle stradine da cittadina di pionieri, con i loro grandi panorami di niente all’uno e all’altro capo, cominciò a sorridere. Poiché le donne c’erano davvero, perfettamente, e si vedeva subito che erano arrivi freschi. Quasi tutte indossavano gonne lunghe e aderenti e scarpe grandi, simili a galosce, rosse, viola o dorate, e camicette arricciate di filo d’oro o d’argento.
Sparite quelle trasparenti, mostraseno. La moda era cambiata; peccato. E tutte portavano i capelli pettinati in alto a formare una sorta di casco cilindrico: probabilmente se li spruzzavano con qualche fissatore colloso. L’effetto era brutto come il peccato, ma era il tipo di cosa che solo le donne sarebbero disposte a fare con i loro capelli, e dunque risultava eccitante.
Davidson fece un sorriso a una piccola eurafricana pettoruta che aveva più capelli che testa; non ne ricavò alcun sorriso in risposta, bensì un ancheggiare, nell’allontanarsi da lui, che diceva a tutte lettere: seguimi, seguimi, seguimi.
Ma non la seguì. Era ancora presto. Si recò al Quartier Generale della Centrale: pietra a presa rapida e plastipiastre, Modello Standard, quaranta uffici, dieci refrigeratori d’acqua da bere e l’arsenale nel sotterraneo, e si presentò al Comando dell’Amministrazione Coloniale Centrale di New Tahiti.
Venne presentato a un paio di membri dell’equipaggio della lancia, inoltrò una richiesta per un nuovo scortecciatore semiautomatico alla Foresteria, e combinò di vedersi al Bar Luau alle due del pomeriggio con il suo vecchio amico Juju Sereng.
Si recò al bar un’ora prima, per mettersi in corpo un po’ di cibo solido prima che avessero inizio le bevute. Laggiù trovò Lyubov, seduto insieme con un paio di individui nell’uniforme della Flotta: qualche razza indeterminata di specialisti, scesi con la lancia della Shackleton.
Davidson non teneva in troppa considerazione la Marina (un branco di svitati che si divertiva a saltare da una stella all’altra e lasciava all’Esercito tutta la parte fangosa, polverosa, pericolosa del lavoro sul campo), ma i gradi sono gradi, e poi era divertente lo spettacolo di Lyubov che se la faceva da amiconi con alcune persone in uniforme. Lyubov stava parlando, e gesticolava tutto convinto, come faceva sempre.
Mentre gli passava accanto, Davidson gli diede una pacca sulla spalla e gli fece: — Ehi, Raj, vecchio furfante, come te la passi?
Proseguì senza stare ad aspettare l’occhiataccia dell’altro, ma gli sarebbe piaciuto vederla. Probabilmente quel Lyubov era effeminato come tanti altri intellettuali, e gli dava fastidio la virilità di Davidson. Comunque, Davidson non intendeva perder tempo a nutrire ostilità verso Lyubov: quell’uomo non ne valeva la fatica.
Al Luau si poteva avere una bistecca di cacciagione, prima scelta. Che cosa avrebbero detto sulla vecchia Terra se avessero visto un uomo mangiarsi un chilo di carne in un pasto solo? Poveri marpioni, con le loro bistecche di soia! E poi arrivò Juju con… così come Davidson aveva previsto con certezza… la crema delle nuove Ragazze di Colonia: due succose beltà, non certo appartenenti alla categoria delle Spose, ma al Personale Ricreativo. Oh, a volte la vecchia Amministrazione Coloniale raggiungeva il suo scopo! Fu un pomeriggio lungo e rovente.
Ritornando in volo al campo, attraversò lo Stretto di Smith allo stesso livello del sole posato in cima a un vastissimo letto dorato di foschia sovrastante il mare. Cantava, mentre pilotava l’elicottero senza alcuna preoccupazione. La Terra di Smith giunse in vista, velata dai vapori, e c’era del fumo al disopra del campo, una chiazza nerastra, come se dell’olio lubrificante fosse finito nell’inceneritore delle immondizie.
In mezzo a quel fumo non si potevano neppure distinguere gli edifici. Solamente quando cominciò a scendere sul campo d’atterraggio, scorse il jet segnato dal fuoco, gli elicotteri fracassati, l’hangar incendiato.
Fece riprendere quota all’elicòttero e ritornò in volo sul campo, a un’altitudine talmente scarsa da rischiare di colpire l’alto cono dell’inceneritore, che era l’unica cosa che rimanesse ancora in piedi. Tutto il resto se n’era andato: segheria, fornace, deposito della legna segata, Quartier Generale, baracche, caserma, recinto dei creechie, tutto. Gusci vuoti e rottami anneriti, ancora fumanti.
Ma non si era trattato di un incendio della foresta. La foresta era ancora in piedi, e verdeggiava intatta, a fianco a fianco con le rovine. Davidson virò di nuovo sul campo d’atterraggio, toccò terra, accese le luci per cercare la moto, ma anch’essa era un rottame annerito, in mezzo alle rovine puzzolenti e fumanti dell’hangar e delle macchine.
Si mise a correre lungo il sentiero che scendeva verso l’accampamento. Mentre passava davanti a quella che era stata la baracca della radio, riacquistò d’improvviso il buon senso. Senza esitare nemmeno per una falcata, cambiò direzione, si allontanò dal sentiero battuto, passò dietro la baracca sventrata. E laggiù si fermò. Tese le orecchie.
Non c’era nessuno. Tutto taceva. I fuochi erano già spenti da tempo; solamente le grosse pile di assi lavorate fumavano ancora, mostrando un cuore rosso intenso al di sotto delle ceneri e dei frammenti bruciacchiati. Valevano più dell’oro, quegli oblunghi mucchietti di cenere, prima… Ma nessuna spirale di fumo si levava ormai dagli scheletri anneriti della caserma e delle baracche; e in mezzo alle ceneri c’erano delle ossa.
Il cervello di Davidson era super-chiaro e in piena attività, a questo punto, mentre si teneva accovacciato dietro la baracca della radio.
C’erano due possibilità. Uno: un attacco da un altro campo. Qualche ufficiale di King o di New Java dava i numeri e stava cercando di fare un coup de planète.
Due: un attacco dall’esterno del pianeta. Rivide la torre dorata, ai moli spaziali della Centrale. Ma se la Shackleton era passata alla pirateria, perché cominciare con la cancellazione di un piccolo campo, invece di impadronirsi di Centralville?
No, doveva trattarsi di un’invasione, di qualche alieno. Qualche razza sconosciuta, o forse i Cetiani o gli Hainiti avevano deciso di assalire le colonie terrestri. Lui non si era mai fidato di quei maledetti umanoidi doppiogiochisti.
Il colpo doveva essere stato effettuato con una bomba incendiaria. La forza d’invasione, appoggiata da jet, vagoni volanti, bombe nucleari, poteva essere nascosta su un’isola, su un atollo, in qualsiasi punto del quarto di sfera sudovest. Avrebbe fatto meglio a ritornare al suo elicottero per trasmettere l’allarme, poi cercare di darsi un’occhiata intorno, in perlustrazione, in modo da riferire al Quartier Generale la propria valutazione della situazione reale. E stava rimettendosi in piedi quando udì le voci.
Non voci umane. Acute, leggere, bla-bla-bla. Alieni.
Chino sulle mani e sulle ginocchia dietro il tetto di plastica della baracca, che ora giaceva sul terreno, deformato dal calore fino ad assumere l’aspetto di un’ala di pipistrello, Davidson s’irrigidì e rimase in ascolto.
Quattro creechie si avvicinarono a pochi passi da lui, sul sentiero. Erano creechie selvatici, completamente nudi a eccezione di un’ampia cintura di cuoio che recava coltelli e piccoli tascapani. Nessuno aveva i calzoncini e il collare di cuoio che venivano assegnati ai creechie addomesticati. Probabilmente, i Volontari chiusi nel recinto erano stati ridotti in cenere insieme con gli umani.
Si fermarono poco più avanti del suo nascondiglio, continuando a parlarsi col loro lento bla-bla-bla, e Davidson trattenne il respiro. Non voleva farsi scorgere. Chissà che diavolo ci facevano, laggiù, dei creechie? Non potevano essere altro che spie o esploratori del nemico.
Uno dei creechie indicò in direzione sud, mentre parlava, e si voltò, cosicché Davidson poté vederlo in faccia. E riconoscerlo.
Tutti i creechie erano uguali tra loro, ma questo era differente. Davidson aveva vergato la propria firma su tutta quella faccia, meno di un anno prima. Era il creechie che era impazzito e che lo aveva assalito giù alla Centrale, il creechie omicida, il beniamino di Lyubov. E che diavolo ci faceva, lì al campo?
La mente di Davidson guizzò, ticchettò; con le reazioni scattanti come sempre, si alzò in piedi, improvviso, alto, tranquillo, arma alla mano.