— Voi creechie — disse. — Fermi. Restate immobili. Giù le braccia. Niente mosse.
La sua voce crepitava come una sferza. Le quattro piccole creature non si mossero. Quella con la faccia rincalcata lo fissò da dietro il cumulo nero di macerie, e i suoi occhi larghi e vacui erano privi di ogni luce.
— Rispondete, adesso. Questo fuoco, chi l’ha fatto? Nessuna risposta.
— Rispondete: svelti, scat-tare! Niente risposta, e io brucio prima lui, poi lui, capito? Questo fuoco, chi l’ha fatto?
— Noi abbiamo bruciato il campo, capitano Davidson — disse quello venuto dalla Centrale, con una voce strana e morbida che a Davidson ricordò quella di qualche umano a lui noto. — Gli umani sono tutti morti.
— Voi l’avete bruciato? Cosa intendi dire?
Chissà perché, non gli riusciva di ricordare il nome dello Sfregiato.
— C’erano duecento umani qui. Novanta schiavi del mio popolo. Novecento del mio popolo sono usciti dalla foresta. Prima abbiamo ucciso gli umani nel luogo della foresta dove tagliavano gli alberi, poi abbiamo ucciso quelli che erano in questo luogo, mentre le case bruciavano. Pensavo che foste stato ucciso. Sono lieto di vedervi, capitano Davidson.
Erano parole assolutamente folli, e naturalmente si trattava di menzogne. Non potevano averli uccisi tutti: Ok, Birno, Van Sten, e tutto il resto, duecento uomini; almeno qualcuno sarebbe riuscito a scappare. I creechie non avevano altro che archi e frecce. E, comunque, i creechie non potevano averlo fatto.
I creechie non lottavano, non uccidevano, non facevano la guerra. Erano non-aggressivi intra-specie, ossia stavano fermi a fare da bersaglio. Non restituivano il colpo. Chiaro come il sole, non potevano avere massacrato duecento uomini con un colpo solo. Il creechie era pazzo.
Il silenzio, il debole puzzo di bruciato nella luminosità lunga e tiepida del crepuscolo, le facce color verde pallido, dagli occhi immobili, che lo guardavano, non volevano dire niente: erano solo un sogno pazzo e cattivo, un incubo.
— Chi lo ha fatto per voi?
— Novecento del mio popolo — disse lo Sfregiato, con quella sua voce maledettamente simile a una voce umana che lui non riusciva a ricordare.
— No, non loro. Chi altri? Chi vi ha fatto agire? Chi vi ha detto cosa fare?
— Mia moglie, me l’ha detto.
Davidson scorse la tensione rivelatrice che si stava accumulando nella creatura, e tuttavia il creechie gli balzò addosso con tale leggerezza, in modo talmente obliquo, che la pistola mancò il colpo, andando a bruciare un braccio o una spalla invece di colpire tra gli occhi.
Poi il creechie fu su di lui: era metà della sua taglia e del suo peso, eppure gli fece perdere l’equilibrio con l’impeto dell’attacco, perché Davidson si era affidato alla presenza della pistola e non si aspettava l’aggressione. Le braccia del creechie erano sottili, dure, coperte di pelliccia, entro la stretta delle sue mani; e mentre Davidson lottava per sciogliersi, il creechie cantava.
Davidson si trovò sulla schiena, premuto a terra, disarmato. Quattro musi verdi posavano lo sguardo su di lui. Lo Sfregiato cantava ancora: un bla-bla sfiatato, ma che pareva contenere un motivetto musicale. Gli altri tre ascoltavano, e mostravano ih un ghigno i denti bianchi.
Davidson non aveva mai visto un creechie sorridere. Non aveva mai fissato lo sguardo in una faccia di creechie dal disotto. Sempre dal disopra, dall’alto in basso. Dalla cima.
Non cercò di liberarsi, perché per il momento sarebbe stata fatica vana. Per piccoli che fossero, lo superavano di numero, e lo Sfregiato aveva la sua pistola. Doveva attendere. Ma provava un malessere indefinito, una nausea che faceva torcere e sussultare il suo corpo, contro la sua stessa volontà. Le piccole mani lo tenevano al suolo senza sforzo apparente, le piccole facce verdi dondolavano sopra di lui e sorridevano.
Lo Sfregiato terminò di cantare. Si inginocchiò sul petto di Davidson, con in una mano un coltello, nell’altra la sua pistola.
— Tu non sai cantare, capitano Davidson, vero? Be’, allora forse potrai correre al tuo elicottero, e volare via, e dire al colonnello, alla Centrale, che questo posto è stato bruciato e che gli umani sono stati tutti uccisi.
Sangue, dello stesso stupefacente colore rosso del sangue umano, macchiava il pelo del braccio destro del creechie, e il coltello tremava nella sua zampa verde. La faccia affilata e segnata di cicatrici si abbassò a fissare la faccia di Davidson da molto vicino, e ora Davidson poté scorgere la strana luce che bruciava nel profondo di quegli occhi scuri come il carbone. La voce era ancora morbida e tranquilla.
Lo lasciarono libero.
Davidson si rialzò con cautela, ancora stordito per la caduta che lo Sfregiato gli aveva fatto fare. Ora i creechie si tenevano ben lontano da lui, sapendo che il suo allungo era il doppio del loro; ma lo Sfregiato non era il solo che avesse un’arma: c’era una seconda pistola puntata sulla sua pancia. E quello che impugnava la pistola era Ben. Il suo creechie Ben, quel piccolo bastardo rognoso, con l’aria stupida come sempre, ma con in mano una pistola.
È difficile voltare la schiena a due pistole puntate su di te, ma Davidson fece proprio questo, e si avviò in direzione del campo d’atterraggio.
Una voce alle sue spalle disse qualche parola creechie, stridula e forte. Un’altra gli gridò: — Svelto, scat-tare! — seguito da uno strano suono, come un cinguettio di uccelli, che doveva essere una risata creechie.
Uno sparo colpì la strada e rimbalzò con un sibilo, a poca distanza da lui. Cristo, non vale, quelli avevano le pistole e lui non era armato. Cominciò a correre. Poteva correre più in fretta di qualsiasi creechie. E quelli non erano capaci di usare una pistola.
— Corri — disse la voce pacata, dietro di lui.
Aveva parlato lo Sfregiato… Selver, ecco come si chiamava.
Sam, lo avevano chiamato, finché Lyubov non aveva fermato Davidson, impedendogli di dargli quello che si meritava, e poi ne aveva fatto il suo beniamino: in seguito lo avevano chiamato Selver. Cristo, ma che cos’era tutto questo, era un incubo?
Continuò a correre. Il sangue gli pulsava alle orecchie. Corse nel crepuscolo dorato e fumoso. C’era un corpo steso attraverso il sentiero, all’andata non se n’era neppure accorto. Non era bruciato, sembrava un pallone bianco, svuotato di tutta l’aria. Aveva occhi azzurri, grandi e sbarrati.
Non osavano ucciderlo, uccidere Davidson. Non gli avevano più sparato. Era impossibile. Non potevano ucciderlo.
Ecco l’elicottero, sicuro e lucente… Davidson si tuffò sul sedile e mise in volo la macchina prima che i creechie potessero tentare qualcosa. Gli tremavano le mani, ma non molto: era solo lo shock. Non potevano ucciderlo. Descrisse un cerchio intorno alla collina e poi ritornò indietro a bassa quota, a tutta velocità, alla ricerca dei quattro creechie. Ma nulla si muoveva tra le rovine dell’accampamento.
C’era un accampamento, quella mattina. Duecento uomini. C’erano quattro creechie pochi minuti fa. Non si era sognato tutto. Non potevano scomparire così. Erano laggiù, nascosti. Aprì il boccaporto della mitragliatrice sulla prua dell’elicottero e tempestò la terra bruciata e i cadaveri ormai freddi dei suoi uomini e le macchine distrutte e i ceppi bianchi e marci, volando avanti e indietro finché le munizioni non furono terminate e i conati dell’arma non cessarono bruscamente.
Adesso le mani di Davidson non tremavano più, il suo corpo provava un senso di pacificazione, e lui era certo di non essersi lasciato prendere da nessun sogno.
Ritornò in volo sullo Stretto, per riferire la notizia a Centralville. Mentre volava, si accorse che la sua faccia si rilassava e riprendeva le abituali linee calme. Non avrebbero potuto accusarlo del disastro, poiché lui non era stato neppure presente.
Forse avrebbero ritenuto significativo il fatto che i creechie avessero colpito mentre lui era assente, sapendo che l’attacco non avrebbe avuto successo se fosse stato presente per organizzare la difesa.
E almeno una cosa positiva sarebbe uscita da tutto l’accaduto. Avrebbero fatto ciò che avrebbero dovuto fare fin dall’inizio, e avrebbero ripulito il pianeta in funzione dell’occupazione umana. Neppure Lyubov avrebbe potuto impedire loro di cancellare i creechie, ormai… soprattutto quando avessero udito che era stato il creechie beniamino di Lyubov a guidare il massacro!
Per un po’ di tempo, sarebbero stati favorevoli allo sterminio di quei parassiti, d’ora in poi; e forse… ripeto forse… avrebbero affidato a lui quel lavoretto. Di fronte a quel pensiero, un altro uomo avrebbe anche potuto sorridere. Ma lui mantenne impassibile il volto.
Il mare sotto di lui era grigiastro dell’ultima luce del crepuscolo, e davanti a lui si stendevano le collinette delle isole, i profondi corrugamenti, i numerosissimi fiumi e le molteplici foglie delle foreste immerse nella tenebra.
2
Selver
Ogni tinta della ruggine e del tramonto, rossi marrone e verdi pallidi, cangiava interminabilmente nelle lunghe foglie agitate dal vento. Le radici dei salici ramati, spesse e nodose, erano color verde muschio in prossimità dell’acqua corrente, che, come il vento, si muoveva con lentezza, con molti ritorni e pause apparenti, trattenuta da rocce, radici, foglie cadute e fronde pendenti.
Nessun cammino era netto, nessuna luce era ininterrotta nella foresta. Nel vento, nell’acqua, nella luce del giorno e in quella delle stelle sempre s’infilavano la foglia e il ramo, il tronco e la radice, il chiaroscuro, la complessità. Brevi percorsi correvano sotto i rami intorno ai tronchi, sulle radici: non procedevano diritti, bensì cedevano a ogni ostacolo, tortuosi come nervi.
Il terreno non era asciutto e solido, ma umido ed elastico, prodotto dalla collaborazione degli organismi viventi con la lunga complicata morte delle foglie e degli alberi; e da quel ricco cimitero crescevano sia alberi di trenta metri, sia minuscoli funghi che spuntavano in cerchi larghi poco più di un centimetro.
L’odore dell’aria era sottile, vario e dolce. La distanza a cui poteva giungere lo sguardo non era mai molta, a meno che non si guardasse in alto, fra i rami, e non si scorgessero le stelle. Nulla era puro, secco, arido, netto. Le rivelazioni mancavano all’appello.
Non esisteva la visione di tutte le cose nello stesso tempo: non c’erano certezze. Le tinte della ruggine e del tramonto continuavano a cangiare sulle foglie pendenti dei salici ramati, e non avresti neppure potuto dire se le foglie dei salici erano di un bruno tendente al rosso, o di un rosso tendente al verde, o verdi.
Selver giunse a un sentiero accanto all’acqua, camminando lentamente e spesso incespicando nelle radici di salice. Scorse un vecchio, intento a sognare, e si fermò. Il vecchio lo fissò, tra le lunghe foglie dei salici, e lo vide nei suoi sogni.
— Posso venire nella tua Loggia, Padron Sognatore? Vengo da assai lontano.
Il vecchio continuò a rimanere seduto, senza muoversi. Dopo un poco, Selver si accoccolò sui calcagni, a lato del sentiero, accanto al torrente. La sua testa si chinò, poiché era esausto e doveva dormire. Camminava da cinque giorni.
— Appartieni al tempo del sogno o a quello del mondo? — gli chiese infine il vecchio.
— Al tempo del mondo.
— Vieni con me, allora.
Il vecchio si alzò rapidamente e accompagnò Selver lungo il sentiero tortuoso che portava dal boschetto di salici alle regioni più asciutte, più buie, della quercia e del biancospino.
— Ti avevo scambiato per un dio — disse, mentre lo precedeva di un passo. — E mi pareva di averti già visto, forse in sogno.
— Non certamente nel tempo del mondo. Vengo da Sornol, non sono mai stato qui prima d’ora.
— Questa città è Cadast. Io sono Coro Mena. Del Biancospino.
— Selver è il mio nome. Del Frassino.
— Ci sono persone del Frassino tra di noi, sia uomini che donne. E anche dei tuoi clan di matrimonio, Betulla e Agrifoglio; non abbiamo donne del Melo. Ma tu non sei venuto qui per una moglie, vero?
— Mia moglie è morta — disse Selver.
Giunsero alla Loggia degli Uomini, posta in una piccola altura, in mezzo a un campo di giovani querce. Si chinarono e strisciarono entro la galleria d’ingresso. All’interno, illuminato dalla luce del fuoco, il vecchio si alzò in piedi, ma Selver rimase curvo sulle mani e le ginocchia, incapace di alzarsi. Ora che soccorsi e conforto erano vicini, il corpo che lui aveva eccessivamente sforzato non voleva andare oltre. Si stese a terra, i suoi occhi si chiusero; Selver scivolò, con sollievo e gratitudine, nella grande oscurità.
Gli uomini della Loggia di Cadast si presero cura di lui, e il loro guaritore giunse a prendersi cura della ferita che aveva al braccio destro. Nella notte, Coro Mena e il guaritore Torber sedettero accanto al fuoco. Quasi tutti gli altri uomini erano con le mogli, quella notte; c’era solo un paio di sognatori apprendisti, sulle panche, ed entrambi si erano presto addormentati.
— Non so che cosa possa procurare a un uomo cicatrici come quelle che ha sulla faccia — disse il guaritore — per non parlare poi di una ferita come quella che ha al braccio. Una ferita davvero strana.
— Ed è una strana macchina, quella che recava alla cintura — disse Coro Mena.
— L’ho vista e non l’ho vista.
— L’ho messa sotto la sua panca. Sembra ferro lucidato, ma non mi pare un manufatto prodotto da uomini.
— Viene da Sornol, ti ha detto.
Entrambi rimasero in silenzio per un certo tempo. Coro Mena sentì una paura irragionevole premere su di lui, e scivolò nel sogno per trovare la ragione della paura: era un uomo anziano, adepto da lungo tempo.
Fece un sogno in cui camminavano i giganti, pesanti e terribili. Le loro membra asciutte e scagliose erano fasciate di stoffe; i loro occhi erano piccoli e chiari, come perline di stagno. Dietro di loro strisciavano grandi oggetti semoventi, fatti di ferro lucidato. Gli alberi cadevano a terra davanti a quelli.
Dagli alberi che cadevano uscì un uomo, di corsa, gridando forte, con il sangue alla bocca. Il sentiero su cui correva era l’ingresso della Loggia di Cadast.
— Be’, non ci sono dubbi — disse Coro Mena, uscendo dal sogno. — È venuto da oltremare, direttamente da Sornol, oppure è venuto a piedi dalla costa di Kelme Deva, sulla nostra stessa terra. I giganti sono in entrambi quei luoghi, dicono i viaggiatori.
— Lo seguiranno — disse Torber. Nessuno rispose alla domanda, che non era una domanda, ma la formulazione di una possibilità.
— Tu hai visto i giganti una volta, Coro?
— Una sola volta — disse il vecchio.
Sognò; e a volte, essendo molto vecchio e non più forte come un tempo, scivolò nel sonno per qualche periodo. Venne il giorno, trascorse il mezzodì. All’esterno della Loggia una squadra di cacciatori partì, con i bambini che cinguettavano, le donne che parlavano con voci simili all’acqua corrente. Una voce più asciutta chiamò Coro Mena, dalla porta. Lui strisciò fuori, nella luce della sera. All’esterno c’era sua sorella, che fiutava con piacere il vento aromatico, ma che non per questo pareva meno preoccupata.
— Lo straniero si è destato, Coro? — chiese la donna.
— Non ancora. Torber si occupa di lui.
— Dobbiamo ascoltare la sua storia.
— Non dubito che presto si sveglierà.
Ebor Dendep si accigliò. Donna-capo di Cadast, era preoccupata per il suo popolo; ma non osava chiedere di disturbare un uomo ferito, né voleva offendere i Sognatori facendo valere il suo diritto di entrare nella loro Loggia.
— Non puoi svegliarlo, Coro? — domandò infine. — E se lui fosse… inseguito?
Coro non poteva guidare le emozioni della sorella con le stesse redini delle sue, ma le avvertiva bene; l’ansia di lei lo pungeva.
— Se Torber darà il permesso, lo farò — disse.