La prova del fuoco - Бен Бова 11 стр.


Tutti risero e l'autoblindo si rimise in moto. Ma Alec non poteva fare a meno di pensare: Lui è lì, da qualche parte, che ci aspetta. E non è solo.

Nelle ore successive chiamò due volte Ron Jameson all'aeroporto. Laggiù tutto era tranquillo, e gli uomini dormivano a turno.

Alec scoprì che anche i suoi uomini sonnecchiavano aggrappati alle varie parti dell'auto, o sdraiati se trovavano una superficie abbastanza grande. Dopo avere chiamato Jameson per la seconda volta, prese la guida del mezzo perché il conducente potesse riposarsi un po'. Anche Kobol si era appisolato, con la testa china sul petto che ciondolava a ogni scossa.

Nello schermo agli infrarossi che gli stava davanti la strada si stendeva come un nastro arancione punteggiato di crepe e buche. Il fogliame ai due lati era rosa, e i piccoli animali che comparivano ogni tanto erano rossi.

— Chi è all'arma? — chiese al microfono.

— Gianelli.

— Sei sveglio?

— Per forza. Gli occhiali agli infrarossi sono così pesanti che mi danno il mal di testa. Non potrei dormire neanche se volessi.

— Bene.

— Lieto di sentire che il capo si preoccupa per me.

Alec rise. — Tu bada a tenere gli occhi aperti. Io guardo avanti, tu guarda dietro.

— Sì, lo sto già facendo. Tutto immobile, salvo qualche altro cervo.

— Sei sicuro che fossero cervi?

Gianelli ridacchiò piano. — A meno che ci siano uomini che attraversano la strada saltando sulle quattro zampe.

Alec era ancora alla guida quando raggiunsero la sommità di un'altura e i sensori captarono il calore irradiato dal complesso di Oak Ridge, che poco dopo si delineò sullo schermo. Alec guardò l'orologio; mancava un'ora e mezzo all'alba.

Rimase per un momento indeciso se svegliare gli uomini. Rinunciò. Si cacciò in bocca una pastiglia di stimolante, aprì il portello sul tettuccio, e si arrampicò fuori. Rimase qualche istante sul tetto dell'autoblindo per stiracchiarsi e respirare a pieni polmoni l'aria fresca della notte. Ovunque c'erano uomini sdraiati, appena visbili nell'oscurità. Un altro suono, uno strano urlo, risuonò nei boschi facendo rabbrividire Alec.

Scavalcando uno degli uomini che dormivano raggiunse la postazione del laser. — Gianelli — chiamò sottovoce.

— Sì.

— Fai un sonnellino. Sto io di guardia.

Gianelli non fece obiezioni. Alec si arrampicò sul suo seggiolino e si fece dare gli occhiali agli infrarossi. Il laser ronzava sommessamente. Invece che come arma funzionava da riflettore, regolato su una sonda ad ampia portata.

Gli occhiali erano davvero pesanti. Alec doveva fare uno sforzo per tenere la testa eretta mentre faceva compiere un giro completo all'affusto. Il debole ronzio dei motori gli dava un certo qual senso di sicurezza contro gli strani rumori della notte.

Le lenti agli infrarossi facevano sembrare gli alberi simili a bianchi fantasmi, mentre gli edifici di cemento del complesso erano di un vivido arancione. Il complesso era istallato in un'ampio spiazzo della valle sottostante, distante parecchi metri dagli alberi più vicini. La zona circostante era buia, arida. Forse ci cresceva un po' di erba, ma niente di più.

Mentre Alec faceva ruotare lentamente il laser, per scandagliare tutta l'area circostante, cominciò a provare la sgradevole sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Dapprima fu solo una vaga sensazione di disagio, ma poco per volta la sensazione si accentuò facendolo rabbrividire.

Forse dovrei svegliare qualcuno, pensò. Ma subito si rimproverò: No, sei solo nervoso! Hai paura perché sei fuori all'aperto, da solo.

Stringendo i denti continuò a fare ruotare lentamente l'affusto del laser, con una sensazione di gelo che continuava ad aumentare. Davanti c'era la strada e giù, nel fondovalle, gli edifici. Girando, gli alberi si avvicinavano, misteriosi, coi loro bianchi rami che si protendevano verso di lui o si levavano al cielo. Continuando a ruotare ecco di nuovo la strada, il tratto che portava all'aeroporto, alle navette, alla salvezza. Poi di nuovo gli alberi, e infine gli edifici.

E se lui fosse là? Avrà i rivelatori agli infrarossi? Se li ha allora noi siamo come un faro, un grosso bersaglio luminoso.

D'improvviso Alec premette a fondo i pedali per fare ruotare in senso inverso l'affusto. I motori elettrici protestarono per un istante, l'affusto sobbalzò, poi cominciò a girare nella direzione opposta.

Là! Fra gli alberi!

Scomparve prima che lui potesse distinguere cos'era. Chiazze di calore, parecchie chiazze, fra gli alberi. Erano svanite dal suo campo visivo proprio nell'attimo in cui il laser le aveva evidenziate.

Animali, disse fra sé Alec. Ancora un'ora prima dell'alba, ma il cielo oltre il complesso di Oak Ridge cominciava a schiarire. Possibile che i nostri orari della levata del sole siano sbagliati? Poi, ricordando il magnifico tramonto che si era protratto a lungo la sera prima, nonché quanto gli avevano insegnato sugli effetti dell'atmosfera terrestre, capì che il cielo impallidiva ben prima che il sole comparisse all'orizzonte.

Coi nervi tesi, continuò a scrutare per un quarto d'ora, continuando a cambiare per non ripetere sempre le stesse posizioni. Non vide niente. Poi cominciò ad esserci abbastanza luce per potere fare a meno del laser e degli occhiali.

Via via che la luce aumentava, gli uomini cominciarono a svegliarsi, e Alec non sapeva se fosse più contento perché adesso non era solo o perché la lunga e minacciosa notte era finalmente terminata.

Si avviarono a piedi verso il complesso con Alec all'avanguardia, Kobol alla retroguardia con tre uomini, e l'autoblindo in mezzo alla formazione sparsa degli uomini.

Il terreno intorno alle costruzioni era arido e cosparso qua e là da radi ciuffi di erba stenta. Intorno al complesso c'era una pavimentazione di cemento e asfalto, qua e là screpolata. In alcuni tratti il terreno era coperto di ghiaia.

Mentre si avvicinavano, Alec cominciò a capire perché Kobol si era offerto di stare alla retroguardia. Era l'unico di tutti loro ad essere già stato lì, l'unico che conoscesse la zona. Alec avrebbe voluto chiedergli se gli edifici avevano subito dei cambiamenti, ma per farlo, avrebbe dovuto chiamarlo, e di conseguenza gli uomini si sarebbero resi conto che aveva bisogno dei suoi consigli.

All'inferno! Alec continuò a camminare verso gli edifici immersi in un silenzio di morte, impugnando il mitra. Il tragitto fu più lungo del previsto. Regnava una tranquillità irreale. Non tirava un alito di vento. Dagli alberi non veniva il cinguettio degli uccelli. Il sole stava spuntando oltre la cresta delle colline, ma faceva già molto più caldo del giorno prima. Che il calore provenisse da quegli edifici? La paura della radioattività lo fece rabbrividire, ma continuò a camminare voltandosi di tanto in tanto per guardare gli altri.

Quando raggiunsero il bordo dei vialetti di cemento che correvano fra gli edifici, diede l'alt. I muri erano coperti da striature scure e chiazze variegate.

— Fermate qui l'autoblindo, dove può coprire tutta l'area. Mettetevi in formazione davanti al mezzo.

Kobol lo raggiunse zoppicando, con la tuta chiazzata di sudore alle ascelle e sul petto. Aveva un aspetto grottesco col pesante elmetto sferico piantato sulla testa.

— Cosa ne pensi? — gli chiese Alec indicando con un ampio gesto gli edifici.

Kobol sollevò le sopracciglia tanto da farle sparire sotto il bordo dell'elmetto. — È passato molto tempo da quando sono venuto qui. Ma mi pare che non siano cambiati.

— Quello è l'ingresso principale, vero?

Kobol annuì.

— Bene. Gianelli, prendi due uomini e seguici. Gli altri restino qui. Tenete gli occhi bene aperti.

I cinque si avviarono lentamente verso l'ingresso, in preda a una crescente tensione. Alec vedeva le finestre, fracassate tanto tempo prima, che lo fissavano come occhi ciechi. Anche le porte erano andate distrutte e le pareti recavano i segni di un antico incendio. L'interno era immerso nell'ombra.

Alec sentiva il battito del proprio cuore mentre salivano i gradini che portavano all'ingresso. La mano sudata scivolava sull'impugnatura dell'arma, ma nell'intimo era freddo e calmo.

L'interno dell'edificio era cosparso di frammenti di cemento e di intonaco, di foglie morte e macerie. Il locale era ampio e spoglio.

— Era l'atrio — spiegò Kobol. — Tutto quello che conteneva è stato distrutto o rubato da tempo.

— E i materiali fissili? — chiese Alec allarmato.

— Non preoccuparti — rispose Kobol ridendo. — Non è facile arrivarci… anche se i barbari sapevano della loro esistenza, e posto che li volessero. Il che è sommamente improbabile perché il materiale radioattivo è circondato da leggende e tabù. I barbari hanno una tremenda paura di quella roba.

Ispezionarono tutto l'edificio abbandonato. I locali erano ampi, ma recavano i segni del fuoco e delle distruzioni. Quasi tutti i tetti erano spariti e il sole nascente filtrava fra le travi smozzicate. Solo qualche muro divisorio era ancora intatto. Non c'erano indizi che lì dentro fossero entrati degli esseri umani.

C'era ovunque una grande sporcizia ed escrementi di animali. Kobol indicò un ciuffo d'erba secca incuneato in una crepa. — È il nido di un uccello — spiegò.

— Io ho la pelle d'oca — mormorò Gianelh.

— I barbari hanno portato via tutto quello che si poteva asportare e hanno bruciato il resto.

Raggiunsero una porta di metallo che si apriva su un lungo tunnel puntellato da travi pure di metallo.

— Questo è il corridoio che collegava la sede dell'amministrazione, dove siamo entrati, con uno degli impianti di lavorazione dove si ricavavano i materiali fissili dai minerali grezzi a bassa gradazione. — La voce di Kobol, che parlava come un professore in aula, risuonava nell'andito angusto. — Nell'edificio attiguo vedrete i macchinari, e più avanti ci sono le camere blindate dove sono immagazzinati i materiali che cerchiamo.

Aprirono la porta in fondo al corridoio, e si trovarono nella stanza più grande che Alec avesse mai visto. Il sole filtrava attraverso il tetto sconnesso. La stanza era vuota.

I giganteschi macchinari erano stati asportati, e non erano rimaste che le nude pareti. Kobol rimase esterrefatto.

— Ma qui non c'è niente! — esclamò Alec.

— Hanno portato via tutto — mormorò con voce rotta Kobol.

— I materiali fissili!

Corsero verso la pesante porta metallica al capo opposto dello stanzone. Alec aveva l'impressione di vivere un incubo. Continuava a correre, ma gli pareva di non progredire di un passo, in quell'enorme scatolone di cemento. Quasi inconsciamente si accorse che il pavimento era segnato da infissi metallici, nei punti dove prima i macchinari erano stati inchiavardati al cemento. Gli infissi erano lucidi e puliti, segno che i macchinari erano stati asportati di recente.

Raggiunsero ansimando la porta. Era socchiusa.

— Le stanze blindate… — ansò Kobol cercando di spalancare il pesante battente. Alec e Gianelli si fecero avanti per aiutarlo.

Dall'altra parte c'era un piccolo locale, in cui riuscirono a entrare a malapena tutti e cinque. Tre pareti erano coperte da compartimenti di metallo della grandezza di una grossa scatola, disposti uno sull'altro come scaffali, ma con spesse suddivisioni fra uno scaffale e l'altro.

— Vuoto!

Kobol continuava ad ansimare ed era pallidissimo. — Non… sono… stati i barbari.

Alec si voltò verso di lui.

— Solo un uomo… sapeva… Solo un uomo conosceva il valore… dei materiali fissili… Tuo padre — disse Kobol.

10

Prima di rispondere Alec si costrinse ad aspirare a fondo qualche boccata d'aria.

— Credi che abbia deliberatamente saccheggiato l'impianto?

— E chi altri avrebbe potuto farlo? — ribatté Kobol con gli occhi che mandavano lampi. — I barbari non sarebbero in grado di organizzare uomini e attrezzi necessari. Inoltre non sapevano certo cosa fossero tutte queste macchine. Fuggono questo impianto come l'inferno.

Gianelli tirò un calcio al muro. — Maledizione, siamo venuti qui per niente!

— Tuo padre — riprese Kobol, e lo disse come se volesse accusare Alec — sapeva che a noi occorrono quei materiali. Per questo li ha portati via. Vuole farci morire tutti.

— Quanto credi che potranno durare ancora le nostre scorte? — chiese Alec senza alterarsi.

— Un anno. Forse un anno e mezzo. Ma che differenza fa?

— Prima di allora avremo quei materiali. Dovessi mettere sottosopra tutto il pianeta, li troverò.

Kobol si limitò a rispondere con una risatina ironica.

Tornarono lentamente sui loro passi. La stanca marcia degli uomini sconfitti, pensò Alec. Ma in realtà non si sentiva sconfitto, anzi, era eccitato, quasi felice. Mio padre mi costringe a cercarlo. È il suo primo sbaglio.

Si trovavano a metà del corridoio quando l'auricolare di Alec cominciò a crepitare. — C'è qualcuno… verso di noi… — la voce era debole e resa meno comprensibile dalle continue interferenze.

— Cosa?

— …sola persona… a piedi… noi… qui sull'autoblindo…

Alec si mise a correre e quando fu all'aperto e non ci furono più interferenze, sentì dire con chiarezza: — Ehi ma è una ragazza!

Adesso vedevano anche loro la figuretta snella che si avviava in direzione dell'autoblindo, camminando con passo lento, ma deciso. I cinque raggiunsero il mezzo prima di lei.

— È disarmata — disse Kobol.

— E carina — aggiunse Gianelli.

Piccola e magra, indossava una camicia bianca macchiata e un paio di calzoni lunghi che sottolineavano la curva dei fianchi. Aveva la faccia lunga, seria, e gli occhi grandi. La brezza agitava i capelli biondi, e lei continuava a scostare le ciocche che le ricadevano sulla faccia.

— Pare che abbia un motivo preciso per venire da noi — disse Alec.

— Forse si sente sola — sghignazzò Gianelli.

— Non è per te, nasone — lo rimbeccò un altro.

— Non si vede nessun altro intorno — disse Kobol che esaminava col binocolo i boschi circostanti. — Ma in mezzo a quegli alberi potrebbe nascondersi un intero esercito.

Come l'esercito di Annibale al lago Trasimeno, pensò Alec.

Guardò la ragazza che si stava avvicinando. Aveva una faccia volitiva, con la mascella prominente e gli zigomi sporgenti, e un piccolo naso aristocratico. La bocca era una sottile linea, ferma e decisa. Ma gli occhi erano incerti, un po' impauriti.

— Gianelli — sussurrò Alec — tieni d'occhio gli edifici. La ragazza potrebbe essere un'esca.

— Controlla anche sui fianchi — aggiunse Kobol.

— Preferirei guardare quelli di lei — mormorò Gianelli.

La ragazza alzò la mano destra e si fermò a una ventina di passi dall'autoblindo. Alec le andò incontro. Kobol lo seguì.

— Mi chiamo Angela — disse lei, seria, con voce ferma.

— Io sono Alec e questo è…

— Alexander Morgan e Martin Kobol — disse lei.

— Tu conosci mio padre — asserì Alec. Non era sorpreso.

— È lui che mi ha mandato. Per mettervi in guardia.

Per un attimo Alec ebbe l'impressione che il tempo si fosse fermato. Sentiva il calore del sole sul collo e sulle spalle, vedeva il cielo azzurro e il verde primaverile dei boschi in lontananza, sentiva la voce della ragazza, ma era come se lui si trovasse altrove, più lontano della Luna, e osservasse la scena da una distanza enorme.

— Non ci lasciamo spaventare dagli avvertimenti — disse Kobol.

— Aspetta — lo tacitò Alec. — Metterci in guardia da cosa? — chiese alla ragazza.

— C'è una banda di razziatori che sta dirigendosi verso l'aeroporto. Hanno visto atterrare le vostre navi…

— Perché mai dovrebbero attaccarci? Non hanno paura di noi?

Un pallido sorriso aleggiò sulle labbra di Angela. — Paura di una dozzina di uomini? Sapete quanti sono loro?

— Abbiamo armi sufficienti…

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