Il pianeta dell'esilio - Le guin Ursula Kroeber 10 стр.


Rolery rimase in silenzio. Era molto stanca, e non capiva. La Città Invernale era stata conquistata, distrutta. Poteva essere vero? Ella aveva lasciato la sua gente. Ora la sua gente era morta, o era priva di casa sulle montagne in una notte invernale. Ella era rimasta sola. Gli stranieri continuavano a parlare interminabilmente, con le loro voci aspre. Per qualche tempo Rolery ebbe l'illusione — e fu consapevole che si trattava di un'illusione — di avere una sottile pellicola di sangue sulle mani e sui polsi. Si sentiva male, ma non aveva più sonno; di quando in quando si accorgeva di rasentare i confini, il primo stadio, dell'Assenza per qualche attimo. I chiari e freddi occhi della vecchia, Pasfal, la strega, la fissavano. Ella non riusciva a muoversi. Non c'era alcun posto dove andare. Tutti erano morti.

Poi ci fu un cambiamento. Era come una minuscola luce, lontano, nel buio. Ella disse a voce alta, ma in tono così basso che soltanto coloro che le stavano più vicino la poterono udire: — Agat sta arrivando.

— Ti ha parlato mentalmente? — chiese brusca Alla Pasfal.

Rolery fissò per un istante un punto a mezz'aria, accanto alla vecchia che la impauriva; non la voleva vedere. — Sta venendo qui — ripeté.

— Probabilmente non sta trasmettendo, Alla — disse l'uomo chiamato Dipilota. — Sono in rapporto continuo, entro certi limiti.

— Sciocchezze, Huru.

— Perché? Agat ci ha riferito di avere trasmesso con forte intensità, in direzione di lei, sulla spiaggia, e di essere riuscito a passare; la ragazza dev'essere una Naturale. E ciò ha instaurato un rapporto. È già successo altre volte.

— Tra coppie umane, certo — disse la vecchia. — Un bambino privo di addestramento non può trasmettere o ricevere un messaggio paraverbale, Huru; un Naturale è la cosa più rara del mondo. E questa è un'eis, non un'umana.

Intanto Rolery si era alzata in piedi, era uscita dal cerchio e si era recata alla porta. L'apri. All'esterno c'erano la vuota oscurità e il freddo. Guardò lungo la strada, e dopo un istante poté distinguere un uomo che veniva nella sua direzione con passo stanco. L'uomo raggiunse la macchia di luce giallognola che proveniva dalla porta aperta, e alzando le mani per stringere le sue, ansimando, disse il suo nome. Sorridendo, rivelò l'assenza di tre incisivi; c'era una benda annerita che gli circondava la testa, sotto il cappuccio di pelliccia; aveva la pelle grigia per la stanchezza e il dolore. Era rimasto sulle montagne fin da quando i Gaal erano entrati nel Territorio di Askatevar, tre giorni e due notti prima. — Dammi un po' d'acqua da bere — disse piano a Rolery, e poi si presentò nella luce, mentre tutti gli altri si radunavano intorno a lui.

Rolery trovò la cucina, e in essa la canna di metallo con un fiore in cima: bastava girare il fiore per far uscire acqua dalla canna. Anche la casa di Agat aveva un simile arnese. Non vide da nessuna parte tazze o recipienti, cosicché raccolse l'acqua nel cavo dell'orlo della sua tunica di cuoio, e in tal modo la portò al marito nell'altra stanza. Egli si chinò gravemente a bere dalla sua tunica. Gli altri fissarono la scena ad occhi spalancati, e Pasfal disse in tono tagliente: — Ci sono delle tazze nel mobiletto. — Ma ormai non era più una strega. La sua malignità cadde al suolo come una freccia priva di forza. Rolery si inginocchiò accanto ad Agat e udì la sua voce.

CAPITOLO NONO

I guerriglieri

L'aria si era di nuovo riscaldata, dopo la prima neve. C'erano il sole, un poco di pioggia, il vento da nordovest, una leggera gelata nel corso della notte: un po' come era stato per l'intera ultima fase lunare d'autunno. L'Inverno non era poi così diverso da ciò che l'aveva preceduto; era quasi difficile credere ai documenti degli Anni precedenti, che parlavano di nevicate alte tre metri, di intere fasi lunari in cui il ghiaccio non si scioglieva. Forse questo sarebbe venuto in seguito. Il problema era adesso rappresentato dai Gaal…

Prestando poca attenzione ai guerriglieri di Agat, sebbene questi avessero inflitto alcune brutte ferite ai fianchi del loro esercito, gli uomini del nord si erano riversati a passo veloce nel Territorio dell'Askatevar, si erano accampati ad est della foresta, ed ora, il terzo giorno, assalivano la Città Invernale. Ma non la distruggevano; ovviamente cercavano di salvare dal fuoco i granai e le mandrie, e forse le donne. Uccidevano soltanto gli uomini. Forse, com'era già stato riferito, avrebbero cercato di trasformarla in una loro guarnigione, lasciandovi una parte dei loro uomini. All'arrivo della Primavera, i Gaal che fossero ritornati dal sud avrebbero potuto marciare da una città all'altra di un loro Impero.

Non era un comportamento da indigeni, pensò Agat, mentre era sdraiato dietro il nascondiglio di un immenso albero caduto, e attendeva che il suo piccolo esercito prendesse posizione per il proprio assalto a Tevar. Era fuori, a lottare e a nascondersi, da due giorni e due notti ormai. Una costola rotta, ricordo della battitura che si era preso nei boschi, sebbene fasciata bene, gli faceva ancora male, e così una scalfittura alla testa, causata da un colpo di fionda dei Gaal il giorno prima; ma con l'immunità alle infezioni, le ferite si rimarginavano molto in fretta, e Agat non si preoccupava di nulla che non fosse almeno un'arteria tagliata. In fin dei conti, solo un colpo alla testa l'aveva messo fuori combattimento. Al momento aveva sete e si sentiva un po' rigido, ma la sua mente era gradevolmente attenta ed egli si godette il breve riposo forzato. Non era un comportamento da indigeni, quel fare progetti per il futuro. I nativi non consideravano né il tempo né lo spazio nella maniera lineare, imperialistica della specie a cui egli, Agat, apparteneva. Per loro, il tempo era una lanterna che illuminava un passo avanti e un passo indietro… il resto era buio indistinguibile. Il tempo era questo giorno, quest'unico giorno dell'immenso Anno. Non avevano neppure un vocabolario per riferirsi al tempo storico: c'erano soltanto l'oggi e «il passato». Guardavano innanzi a sé, tutt'al più, soltanto fino alla prossima stagione. Non guardavano all'indietro lungo il tempo, ma si trovavano in esso, come la lampada nella notte, come il cuore nel corpo. E così facevano anche per lo spazio; per loro lo spazio non era una superficie su cui tirare linee di confine, ma una catena montana, un territorio chiuso, che aveva come centro la persona, il clan e la tribù. Intorno al Territorio c'erano aree che s'illuminavano quando ci si avvicinava ad esse, e che diventavano indistinte quando ci si allontanava; e più lontane erano, tanto più vaghe diventavano. Ma non c'erano linee, non c'erano confini. Questo modo di fare progetti per il futuro, questo voler cercare di conservare nel tempo come nello spazio la proprietà di un luogo che si è conquistato, non era tipica dei nativi; mostrava… che cosa? Un cambiamento autonomo in uno schema culturale indigeno, o un'infezione proveniente dalle antiche colonie settentrionali dell'Uomo e dalle sue vecchie incursioni?

Sarebbe la prima volta, pensò Agat, ironicamente, che hanno imparato un'idea da noi. Come prossima mossa ci attaccheranno il loro raffreddore. Ed esso potrebbe ucciderci; e le nostre idee potrebbero benissimo segnare la loro fine…

C'era in lui una profonda e in gran parte inconscia amarezza nei riguardi dei tevarani, che gli avevano spaccato la testa e le costole e che avevano infranto l'alleanza; e che ora lo costringevano ad osservarli mentre si facevano massacrare nella loro sciocca e minuscola cittadina di fango, sotto i suoi occhi. Egli non aveva potuto difendersi da loro, e adesso era quasi incapace di difenderli. Li detestò perché lo costringevano all'incapacità.

In quel preciso momento — mentre dall'altra parte dei monti Rolery cominciava a fare ritorno a Landin dietro le bestie — ci fu un fruscio delle foglie secche, nella cava dietro di lui. Prima che il suono si fosse spento, egli aveva già puntato in quella direzione la sua pistola.

Gli esplosivi erano vietati dalla Legge per l'Embargo Culturale, che era divenuta il principio morale basilare degli Esuli; ma alcune tribù locali, nei primi Anni dei combattimenti, avevano usato lance e frecce avvelenate. Liberatisi così del loro tabù, i dottori di Landin avevano creato alcuni veleni assai efficaci, che facevano tuttora parte dell'armamentario per la caccia e la guerra. C'erano veleni che stordivano, che paralizzavano, e altri che uccidevano lentamente o velocemente; quello dei proiettili di Agat era mortale, e richiedeva circa cinque secondi per sconvolgere il sistema nervoso di un grosso animale, ad esempio un Gaal. Il meccanismo della pistola a dardi era semplice e funzionale, e la mira era accurata fino a circa una cinquantina di metri. — Vieni fuori — gridò Agat, rivolto verso la cavità silenziosa, e le sue labbra ancora gonfie si tesero in un sogghigno. Tutto considerato, era pronto a uccidere un nativo.

— Alterra?

Un indigeno si alzò in tutta la sua statura, in mezzo agli sterpi secchi della cavità. Teneva le mani lungo i fianchi. Era Umaksuman.

— Al diavolo! — fece Agat, abbassando la pistola, ma non del tutto. La violenza repressa lo agitò per un istante, procurandogli un fremito incontrollato.

— Alterra — si affrettò a dire il tevarano, — nella tenda di mio padre eravamo amici.

— E dopo… nel bosco?

Il nativo rimase fermo in silenzio: una figura grossa e pesante, con i capelli chiari sporchi di terriccio, il viso cereo per la fame e la stanchezza.

— Ho udito la tua voce, insieme a quella degli altri. Se dovevate vendicare l'onore di vostra sorella, avreste potuto farlo uno alla volta. — Il dito di Agat era ancora sul grilletto; ma quando Umaksuman gli rispose, la sua espressione cambiò. Non aveva sperato di poter ottenere una risposta.

— Io non ero con gli altri. Li ho seguiti, e li ho fermati. Cinque giorni fa ho ucciso Ukwet, mio nipote e fratello, che li aveva guidati. Da allora sono sulle montagne.

Agat abbassò la pistola e distolse lo sguardo.

— Vieni qui — disse, dopo un poco. Solo allora compresero entrambi di essere rimasti fermi, in piedi, a parlare a voce alta, in quelle montagne pullulanti di esploratori Gaal. Agat fece una lunga, silenziosa risata quando Umaksuman scivolò nella nicchia sotto il tronco dell'albero a fargli compagnia. — Amico, nemico, che diavolo… — disse. — Prendi. — Passò all'indigeno un pezzo di pane che teneva nella bisaccia. — Rolery è mia moglie, da tre giorni.

Senza parlare, Umaksuman prese il pane e lo mangiò come un uomo affamato.

— Quando faranno un fischio da sinistra, laggiù, scenderemo tutti insieme, diretti verso quella breccia nelle mura, all'angolo nord, e faremo una corsa nella città, per raccogliere tutti i tevarani che possiamo. I Gaal ci stanno cercando intorno alla Palude, dove eravamo questa mattina, e non da questa parte. Vuoi venire?

Umaksuman annui.

— Sei armato?

Umaksuman sollevò la scure. A fianco a fianco, senza parlare, rimasero acquattati, intenti ad osservare i tetti che bruciavano, le macchie e gli scatti di movimento nelle vie distrutte della piccola città che sorgeva sulla collina, di fronte alla loro. Un cielo grigio nascondeva la luce del sole; l'odore di fumo giungeva pungente alle loro nari, portato dal vento.

Alla loro sinistra si alzò un fischio. Il fianco della collina, ad ovest e a nord di Tevar, acquistò bruscamente vita, sotto forma di uomini; piccole figure sparse che correvano piegate su se stesse, scendendo nella valle per poi risalire il pendio dall'altro lato, e concentrandosi poi sulla breccia delle mura e fra la distruzione e la confusione della città.

Quando gli uomini di Landin si incontrarono davanti alle mura della città, si riunirono a formare squadre di numero variante dai cinque ai venti uomini, e le squadre rimanevano unite, sia quando attaccavano con pistole, bolas o coltelli le bande di saccheggiatori Gaal, sia quando raccoglievano tutte le donne e i bambini tevarani che incontravano e poi ritornavano con loro all'uscita dalla città. Procedettero con tale sicurezza e tale velocità che avrebbero potuto ripetere l'incursione; i Gaal, occupati a spazzare via le ultime resistenze della città, erano stati presi fuori guardia.

Agat e Umaksuman si mantennero vicini, e un gruppo di otto o dieci si conglomerò con loro, mentre correvano per la piazza del Pestaggio, e poi per uno stretto vicolo-galleria, fino a una piazza più piccola, ed irrompevano in una delle grandi Case Familiari. Uno dopo l'altro discesero lungo la scala di terra battuta e penetrarono nell'interno buio. Uomini dalla faccia bianca, con piume rosse intrecciate fra i capelli acconciati a corno, giunsero lanciando urla e brandendo l'ascia, per difendere il bottino. Il dardo della pistola di Agat penetrò nella bocca aperta di uno dei Gaal; vide che Umaksuman staccava nettamente un braccio dalla spalla di un altro Gaal, come un boscaiolo che taglia il ramo di un albero. Poi cadde il silenzio. Le donne erano accovacciate in silenzio nella semioscurità. Un bambino continuava a piangere. — Venite con noi! — urlò Agat. Alcune delle donne si mossero verso di lui, e, vedendolo, si fermarono.

Umaksuman si stagliò dietro di lui alla poca luce della porta d'ingresso. Era curvo sotto un pesante fardello che portava sulle spalle. — Venite, portate i bambini! — ruggì, e al suono della sua voce conosciuta tutte si mossero. Agat le raggruppò sulle scale, disponendo intorno a loro i suoi uomini perché le proteggessero, poi diede l'ordine. Corsero via dalla Casa Familiare e si diressero verso la porta della città. Nessun Gaal interruppe la loro corsa: uno strano gruppetto di donne, bambini, uomini, guidati da Agat che, con un'ascia Gaal in mano, copriva la corsa di Umaksuman, il quale portava sulle spalle un grosso fardello penzolante, il vecchio capo, suo padre Wold.

Uscirono dalla porta, scambiarono alcuni colpi con un gruppo di Gaal nel vecchio accampamento; e con altre squadre di uomini di Landin e di fuggiaschi, alcune davanti a loro, altre dietro, si dispersero nei boschi. L'intera incursione attraverso Tevar aveva richiesto circa cinque minuti.

Nella foresta non c'era sicurezza. Esploratori e squadre Gaal erano sparpagliati lungo tutta la strada che portava a Landin. I fuggitivi e i loro salvatori si allargarono in gruppetti di una o due persone, dirigendosi a sud, verso l'interno dei boschi. Agat rimase con Umaksuman, che non poteva difendersi perché doveva portare il vecchio. Avanzarono a fatica tra gli alberi più bassi. Non incontrarono nessun nemico fra le macchie grige e le basse colline, i tronchi caduti e i mucchi di rami secchi e di arbusti mummificati. In qualche punto imprecisato, dietro di loro, assai lontano, una donna urlava e urlava.

Occorse loro molto tempo per spingersi a sud e ad est in un ampio semicerchio, nella foresta, sui monti e poi di nuovo a nord, finalmente, in direzione di Landin. Quando Umaksuman non poté proseguire, Wold prese a camminare, ma riuscì solamente a procedere con molta lentezza. Quando infine uscirono dagli alberi, videro le luci della Città dell'Esilio, che splendevano assai lontano, nell'oscurità e nel vento, al di sopra del mare. Semitrascinando il vecchio, percorsero ancora faticosamente un tratto sulla collina e giunsero alla Porta di Terra.

— Arrivano nativi! — esclamarono le guardie, prima ancora ch'essi giungessero abbastanza vicino, scorgendo i capelli chiari di Umaksuman. Poi scorsero Agat, e le voci gridarono: — L'Alterra, l'Alterra!

Scesero ad accoglierlo e lo portarono all'interno della città: uomini che avevano combattuto al suo fianco, avevano preso i suoi ordini, gli avevano salvato la pelle in quei tre giorni di guerriglia nei boschi e sulle montagne.

Avevano fatto quel che avevano potuto: quattrocento di loro contro un nemico che sciamava come le vaste migrazioni delle bestie… quindicimila uomini, aveva valutato Agat. Quindicimila guerrieri, e nel complesso sessanta o settantamila Gaal, con le loro tende e le pentole, le slitte a travois e gli hann, i tappeti di pelliccia e le asce, i bracciali e le culle legate alle spalle e gli acciarini, tutte le loro scarse proprietà e la loro paura dell'Inverno e la loro fame. Egli aveva visto le donne Gaal, negli accampamenti, raccogliere dai tronchi i licheni morti e mangiarli. Non sembrava possibile che la piccola Città dell'Esilio esistesse ancora, immune da quel fiume di violenza e di fame, con le torce accese sulle porte di ferro e legno scolpito, e uomini che lo accoglievano al suo ritorno a casa.

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