Il mondo di Rocannon - Le guin Ursula Kroeber


Ursula K. Le Guin

PROLOGO

LA COLLANA

Come si può distinguere tra leggenda e realtà, su mondi che giacciono a molti anni di distanza dal nostro? Pianeti senza nome, che i nativi chiamano semplicemente «il Mondo»; pianeti senza storia, dove il passato è materia di mito e dove l'esploratore che vi fa ritorno scopre che le sue azioni di pochi anni prima sono diventate le gesta di un dio. Un velo buio di irrazionalità si stende sull'intervallo di tempo che le nostre astronavi attraversano alla velocità della luce, e nell'oscurità proliferano l'incertezza e le esagerazioni, come erbacce.

Accingendosi a riferire la storia di un uomo, di un normale scienziato della Lega, recatosi non troppi anni fa su un simile mondo semisconosciuto e senza nome, ci si sente come un archeologo che esplori rovine millenarie: ora, dopo essere avanzato a fatica fra un compatto groviglio di foglie, fiori, rami e rampicanti, scorge all'improvviso la chiara geometria di un arco o di una pietra angolare levigata; ora, varcando una comunissima soglia illuminata dal sole, nota nel buio l'impossibile guizzo di una fiamma, lo scintillio di una gemma, il movimento, intravisto solo a metà, di un braccio di donna.

Come si può distinguere fra realtà e leggenda, fra verità e verità?

Nella storia di Rocannon incontriamo varie volte, come elemento ricorrente, la gemma, l'azzurro luccichio che si lascia intravedere per un istante. Cominciamo perciò da quella, così come segue:

— È lei — disse Rocannon, alzando gli occhi dalla Guida delle forme di vita intelligenti (edizione ridotta tascabile) per osservare la donna alta, scura di pelle e dai capelli biondi, ferma più avanti, nella grande sala del museo. Eretta in tutta la sua statura, incoronata dalla chioma lucente, la nuova venuta fissava con attenzione il contenuto di una vetrina. Intorno a lei, chiaramente a disagio là dentro, si agitavano quattro nanerottoli sgraziati.

— Non sapevo che su Fomalhaut II ci fossero tante razze, oltre ai trogloditi — commentò Ketho, il curatore del musco.

— Neanch'io. E il manuale elenca altre razze «non confermate», con cui non siamo mai entrati in contatto. Sembrerebbe giunta l'ora di mandare una nuova missione esplorativa, che svolgesse un lavoro più approfondito. Comunque, almeno sappiamo cos'è quella donna.

— Certo, e mi auguro che possiamo anche sapere chi è…

Apparteneva a una famiglia antichissima, risalente ai primi re degli Angyar, e nonostante la povertà, nei suoi capelli splendeva l'oro purissimo degli antenati.

Il piccolo popolo, i Fiia, s'era sempre inchinato al suo passaggio, fin da quando era una bambina che correva a piedi nudi nei campi, animando con il fuoco e la luce della sua chioma i venti irrequieti di Kirien.

Era ancora giovanissima allorché Durhal di Hallan l'aveva scorta, le aveva dichiarato il suo amore e l'aveva tolta alle torri diroccate e agli atri ventosi dell'infanzia per condurla nel suo grande castello. Anche a Hallan, sui monti, gli agi e le comodità erano assenti, ma lassù rimaneva ancora lo splendore. Alle finestre non c'erano vetri, i pavimenti di pietra erano nudi; la mattina, nell'annofreddo, capitava di vedere sotto il davanzale un mucchietto lungo e basso di neve penetrata durante la notte. La sposa di Durhal scendeva a piedi scalzi sul pavimento coperto di neve: in piedi si pettinava i capelli di fuoco, raccogliendoli in trecce che poi annodava sul capo, e intanto sorrideva all'immagine del giovane marito, riflessa nello specchio d'argento appeso alla parete della loro camera. Quello specchio, insieme con la veste nuziale della madre, ricamata di mille cristalli minuscoli, costituiva l'intera ricchezza della giovane.

Al castello di Hallan, molti suoi consanguinei di grado inferiore possedevano ancora guardaroba di broccato, mobili di legno intarsiati d'oro, finimenti d'argento per i grifoni, corazze, spade con l'impugnatura d'argento, gemme e gioielli… che la sposa di Durhal guardava con invidia, al punto di voltarsi per dare un'occhiata furtiva a qualche diadema incastonato o a qualche monile d'oro, anche quando chi lo portava si scostava per cederle il passo, in deferente omaggio alla sua nascita e al rango elevato conseguito con il matrimonio.

Quarti a partire dall'Alto Seggio dei Banchetti di Hallan, sedevano infatti Durhal e la sua sposa Semley: così vicini al Signore di Hallan che spesso il vecchio versava di propria mano il vino a Semley e parlava di caccia con Durhal, suo nipote ed erede, rimirando la giovane coppia con affetto, ma senza gioia e senza speranza.

La speranza era dura a nascere tra gli Angyar, sia al castello di Hallan, sia nelle Terre Occidentali, da quando erano giunti i Signori delle Stelle, con le loro case che si muovevano su colonne di fuoco e con le loro armi spaventose, capaci di spianare le montagne. Avevano messo fine alle vecchie abitudini e alle vecchie lotte; e sebbene si trattasse di somme modeste, per gli Angyar era motivo di grande vergogna dover pagare loro una tassa, un tributo destinato alla guerra che i Signori delle Stelle si preparavano a combattere contro un nemico ignoto, chissà dove, nella cavità tra le stelle, alla fine degli anni.

«È una guerra che riguarda anche voi», affermavano, ma ormai da una generazione gli Angyar erano costretti a rimanere oziosi, nella vergogna, seduti nelle Sale dei Banchetti, mentre le doppie spade si coprivano di ruggine, i figli diventavano adulti senza sferrare un solo colpo in battaglia, le figlie erano costrette a sposare uomini poveri, o addirittura plebei, poiché mancava loro la dote di eroico bottino che avrebbe fatto accorrere mariti nobili. La faccia del Signore di Hallan s'incupiva, quando guardava la coppia di giovani dai biondi capelli e ascoltava le loro risate, mentre bevevano vino amaro e si scambiavano frasi scherzose nella gelida, diroccata, splendida fortezza della loro razza.

E si incupiva anche il viso di Semley, quando posava lo sguardo sulla sala e scorgeva, su scanni molto più bassi del suo, o addirittura fra i mezzosangue e i plebei, fra le pelli bianche e i capelli neri, il colore e lo sfavillio delle pietre preziose. Di suo, non aveva portato nulla al marito in dote nuziale, neppure una forcina d'argento. E quanto alla veste dai mille cristalli, l'aveva riposta nella cassapanca, serbandola per le nozze della figlia, se fosse stata una figlia.

Fu una figlia, e la chiamarono Haldre. Quando la lanugine sulla sua testolina bruna divenne più lunga, essa assunse il colore e il luccichio dell'oro incorruttibile: l'eredità dei suoi regali antenati, l'unico oro che avrebbe mai posseduto…

Semley non rivelò mai al marito la sua insoddisfazione. Nonostante la sua gentilezza con lei, Durhal, nel suo severo orgoglio di grande signore, nutriva soltanto disprezzo per i sentimenti di invidia e per i desideri vani, e lei non voleva incorrere in quel disprezzo. Ma ne parlò con Durossa, sorella di Durhal.

— Un tempo la mia famiglia possedeva un grande tesoro — le disse. — Era una collana d'oro massiccio, con una grande gemma azzurra incastonata al centro… uno zaffiro?

Durossa scosse il capo, sorridendo: anche lei era incerta sull'esattezza del nome. Si era quasi alla fine dell'annocaldo, nome dato all'estate dell'anno di ottocento giorni dagli Angyar del Nord, i quali facevano ricominciare dall'inizio, ad ogni equinozio, il ciclo dei mesi: Semley l'aveva sempre giudicato un modo poco nobile di contare i giorni, un calcolo da plebei. Era l'ultima della sua famiglia, ma apparteneva a una razza più antica e più pura di quella degli Angyar delle frontiere nordoccidentali, adusi a unirsi un po' troppo facilmente agli Olgyior.

Semley e la cognata sedevano insieme in un riquadro di sole, su una panca di pietra accanto a una finestra della Grande Torre, dove si trovavano le stanze di Durossa.

Rimasta vedova ancora giovane, e senza figli, la sorella di Durhal era poi andata in sposa al Signore di Hallan, che era anche suo zio paterno. Poiché era un matrimonio tra consanguinei, e poiché per entrambi si trattava di seconde nozze, lei non aveva preso il titolo di Signora di Hallan che in futuro sarebbe spettato a Semley; sedeva però a fianco del vecchio Signore sull'Alto Seggio, e lo aiutava a governare i suoi domìni. Era più anziana del fratello, voleva molto bene alla giovane cognata e soprattutto adorava la piccola, bionda Haldre.

— Fu comprata — continuò Semley — con tutto il bottino conquistato dal mio antenato Leynen, allorché s'impadronì dei Feudi del Sud… pensa: tutto il denaro di un intero regno, per una singola gemma! Oh, offuscherebbe qualsiasi gioiello che si sia visto qui a Hallan, certo. Perfino quei cristalli grossi come uova di koob che porta tua cugina Issar. Era talmente bella che le venne dato anche un nome: la chiamarono Occhio del Mare. La portava la nonna di mia nonna.

— E tu, non l'hai mai vista? — domandò pigramente la donna più anziana, facendo scorrere lo sguardo sulle verdi pendici della valle, dove la lunghissima estate mandava venti caldi e inquieti a perdersi momentaneamente tra le foreste per poi precipitarsi di nuovo, fischiando, lungo le strade bianche, fino a raggiungere il mare lontano.

— Andò perduta prima che nascessi.

— L'hanno presa i Signori delle Stelle, come parte del tributo?

— No. Mio padre diceva che fu rubata, prima ancora che i Signori delle Stelle giungessero nel nostro regno. Non ha mai voluto parlarne, ma c'era una vecchia donna plebea che conosceva molte storie: mi diceva sempre che certamente i Fiia sapevano dove fosse finita.

— Ah, i Fiia, come mi piacerebbe vederli! — disse Durossa. — Ne parlano tutte le ballate e le fiabe; perché non vendono mai nelle Terre Occidentali?

— Perché sono troppo alte e troppo fredde d'inverno, credo. I Fiia amano il sole delle valli meridionali.

— Assomigliano al Popolo d'Argilla?

— Non saprei; non ho mai visto Uomini d'Argilla: vivono lontano da noi, al sud. Si dice che siano bianchi come i plebei, e goffi e tozzi. I Fiia sono biondi e aggraziati, sembrano bambini, ma più sottili, e molto saggi. Oh, se mi dicessero dove si trova la collana, chi l'ha rubata e dove l'ha nascosta! Pensa, Durossa: se potessi entrare nella Sala dei Banchetti di Hallan e sedermi accanto a mio marito, con al collo le ricchezze di un intero regno, e far sfigurare tutte le altre donne davanti a me, come lui fa sfigurare gli altri uomini!

Durossa si chinò sulla piccola Haldre, che sedeva su un tappeto di pelliccia, tra la madre e la zia, e che era profondamente impegnata a studiarsi le dita dei bruni piedini. — Semley è sciocca — mormorò alla bimba. — Semley che splende come una stella cadente, Semley il cui marito ama un unico oro: quello dei suoi capelli…

E Semley, che aveva distolto gli occhi dalle verdi pendici dell'estate per perdersi con lo sguardo nel lontano mare, non disse più nulla.

Ma quando fu trascorso un altro annofreddo e i Signori delle Stelle si furono nuovamente presentati a raccogliere la tassa destinata alla guerra contro la fine del mondo (questa volta servendosi come interpreti di due grotteschi Uomini d'Argilla: un'umiliazione che fece nascere in tutti gli Angyar pensieri di ribellione), e quando fu trascorso un altro annocaldo, e Haldre, crescendo, si fu trasformata in un'adorabile chiacchierina, una mattina Semley la condusse nella soleggiata stanza di Durossa, in alto nella Torre. Semley indossava un vecchio mantello blu, con un cappuccio che le copriva i capelli.

— Tieni tu Haldre per qualche giorno, Durossa — le disse, senza preamboli, con voce tranquilla. — Io vado nel Sud, a Kirien.

— A visitare tuo padre?

— A cercare la mia eredità. I tuoi cugini del Feudo di Harget continuano a deridere Durhal. Perfino quel mezzosangue di Parna può divertirsi a tormentarlo, perché sua moglie ha sul letto una coperta di raso, ha un orecchino con brillante, e ha tre abiti di gala, quella sciattona dalla faccia color farina, dai capelli neri! Mentre la moglie di Durhal va in giro con la veste rammendata…

— Di che cosa deve andare fiero Durhal? — intervenne con un sorriso la donna più anziana. — Di sua moglie, o di ciò che indossa?

Ma Semley non era disposta a cedere. — I Signori di Hallan stanno diventando poveri nel loro castello — disse. — Intendo portare al mio signore la mia dote nuziale, come è dovere delle donne del mio rango.

— Semley! Hai avvertito Durhal della tua partenza?

— Il mio ritorno sarà trionfale… fagli sapere solo questo — disse la giovane Semley, scoppiando per un attimo in una delle sue allegre risate; poi si chinò a baciare la figlia, si voltò, e prima che Durossa riuscisse a dire una sola parola, sparì come un soffio di vento sull'assolato pavimento di pietra.

Le donne sposate degli Angyar non cavalcano per divertimento, e Semley non si era mai allontanata da Hallan dopo il matrimonio; perciò, quando montò sull'alta sella di un destriero del vento, si sentì di nuovo bambina, ritornò a essere la ragazza selvaggia che montava grifoni non del tutto domati, lanciandoli contro il vento del nord, nei cieli di Kirien. L'animale che adesso lasciava i monti di Hallan era di razza più pura, con il mantello striato che aderiva liscio alle ossa cave e leggere, gli occhi verdi socchiusi per ripararli dal vento, e le ali sottili e possenti che lentamente si alzavano e si abbassavano ai due lati di Semley, coprendo e scoprendo, coprendo e scoprendo le nubi sopra di lei e i monti sottostanti.

La mattina del terzo giorno giunse a Kirien e si ritrovò ancora una volta nelle sue corti diroccate. Suo padre aveva bevuto tutta la notte, e, proprio come ai vecchi tempi, la luce del mattino che filtrava attraverso il tetto sfondato gli dava fastidio; il fastidio aumentò ulteriormente quando si accorse della presenza della figlia. — Perché sei tornata? — brontolò, fissandola per un attimo con occhi assonnati e distogliendo subito lo sguardo. I suoi capelli, che in giovinezza avevano avuto il colore della fiamma, ormai erano spente ciocche grige spettinate, ammassate sul cranio. — Quel giovane Hallan non ti ha poi sposato, e adesso ritorni a casa alla chetichella?

— Sono la moglie di Durhal. Vengo a prendere la mia dote, Padre.

L'ubriaco brontolò, disgustato; ma lei rise così dolcemente che lo costrinse a guardarla di nuovo, con un brivido.

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