— È vero, Padre, che furono i Fiia a rubare la collana chiamata Occhio del Mare?
— E lo chiedi a me? Vecchie storie. Quella collana è scomparsa prima che io nascessi, mi pare. Anzi, meglio che non fossi nato. Se proprio ti interessa saperlo, devi chiederlo ai Fiia. Va' da loro, torna da tuo marito, ma lasciami in pace, A Kirien non c'è posto per le ragazze, per l'oro e per il resto di quella storia. Qui le storie sono finite: il castello è caduto, la sala è vuota. Tutti i figli di Leynen sono morti, tutti i loro tesori si sono persi. Vattene per la tua strada, ragazza.
Grigio e gonfio come il ragno di una casa in rovina, le voltò le spalle e si avviò barcollando verso la cantina dove si nascondeva alla luce del sole.
Conducendo per la briglia il destriero dal manto a strisce, Semley lasciò la sua vecchia casa e discese la ripida collina, oltrepassando il villaggio dei plebei, che l'accolsero con rispetto, ma con poca simpatia, e proseguendo per i campi e per i pascoli dove brucavano i grandi herilor parzialmente selvaggi, dalle ali tarpate, fino a una valle che era verde come una tazza dipinta colma di sole fino all'orlo. In fondo alla valle c'era il villaggio dei Fiia: vedendola scendere con il grifone alla briglia, le piccole e snelle creaturine lasciarono le capanne e gli orticelli e corsero verso di lei, ridendo e chiamandola con le voci acute e sottili.
— Salve, Sposa di Hallan, Signora di Kirien, Padrona del Vento, Semley la Bella!
La chiamavano sempre con nomi bellissimi, e a lei piaceva ascoltarli, senza fare caso alle loro risate, perché i Fiia ridevano di tutto ciò che dicevano. Era il loro modo di vivere: ridere e parlare. Si fermò in mezzo a loro, alta nel suo lungo mantello azzurro, mentre quelli le davano il benvenuto turbinandole intorno.
— Salve, Popolo della Luce, Abitatori del Sole, Fiia Amici degli Uomini!
La condussero al villaggio e la invitarono in una delle loro case ariose, seguiti per tutto il tragitto da un codazzo di bambini piccolissimi. Era impossibile determinare l'età di un Fian adulto; era molto difficile distinguerli l'uno dall'altro, e addirittura essere certi, mentre si muovevano svelti all'intorno, veloci come falene che roteano intorno a una fiamma, di parlare sempre allo stesso individuo. Ma a Semley parve di essersi sempre rivolta a uno solo dei Fiia, almeno all'inizio, mentre gli altri davano da mangiare al suo grifone e lo accarezzavano, portavano acqua da bere anche a lei e cestini di frutta, coltivata nei loro frutteti di piccoli alberi. — Non sono stati i Fiia a rubare la collana dei Signori di Kirien! — esclamava l'ometto. — Signora, cosa se ne farebbero dell'oro, i Fiia? Abbiamo la luce del sole nell'annocaldo, e nell'annofreddo il ricordo di quella luce; i frutti gialli e le foglie gialle quando la stagione finisce, i biondi capelli della nostra signora di Kirien. Non abbiamo altro oro.
— Allora fu rubata da un plebeo?
Un coro di fioche risate si alzò intorno a lei, echeggiando a lungo. — Come potrebbe osare, un plebeo? O Padrona di Kirien, come sia stato rubato il grande gioiello, ormai non lo sa più nessun mortale: signore o plebeo, Fian o un altro qualsiasi dei Sette Popoli. Soltanto le menti dei morti conoscono come sia andato perduto, tanto tempo fa, allorché Kireley l'Orgogliosa, che fu la nonna della nonna di Semley, andò a passeggiare da sola nei pressi delle grotte marine. Ma forse lo si potrà trovare fra i Nemici del Sole.
— Il Popolo d'Argilla?
Uno scoppio di risate, più forti, ma nervose.
— Siedi con noi, Semley, Capelli di Sole, ritornata finalmente dal Nord. — Si sedette a mangiare con loro, e i Fiia si rallegrarono della sua cortesia, così come Semley si rallegrò della loro. Ma quando udirono nuovamente la sua decisione di recarsi dal Popolo d'Argilla per riavere la sua eredità (se davvero era laggiù la Collana), cominciarono a non ridere più; e a poco a poco il numero di quanti sedevano intorno a lei prese a ridursi. Infine rimase un unico Fian, che forse era lo stesso che l'aveva ascoltata prima del pranzo.
— Non andare dal Popolo d'Argilla, Semley — disse il Fian, e per un istante lei sentì un tuffo al cuore. L'ometto, passandosi lentamente una mano sugli occhi dall'alto al basso, aveva fatto oscurare l'aria intorno a loro: i frutti contenuti nei cestini erano divenuti bianchi come cenere, le ciotole colme d'acqua pulita parevano vuote.
— Fra le montagne della Terra Lontana i Fiia e gli Gdemiar si separarono. La separazione avvenne molto tempo fa — disse il piccolo, immoto Fian. — E in un tempo ancora più lontano noi eravamo una cosa sola. Ciò che noi non siamo, essi sono. Ciò che noi siamo, essi non sono. Pensa al sole e all'erba e agli alberi da frutto, Semley; e pensa anche a questo: non tutte le strade che portano in basso sono poi capaci di riportarti in alto.
— La mia strada non va né in alto né in basso, caro ospite mio. Va soltanto verso la mia eredità. Sono decisa a raggiungerla dovunque si trovi, e a riportarmela a casa.
Il Fian le rivolse un inchino, ridendo piano.
Uscita dal villaggio, Semley rimontò sul destriero striato, e gridando addii in risposta agli auguri dei Fiia, s'innalzò nel vento del pomeriggio e volò in direzione sudovest, diretta alle grotte che costellavano le rive del Mare di Kirien, ai piedi delle pendici rocciose.
Pensava di doversi addentrare per una lunga distanza in quelle gallerie fra la roccia, prima di incontrare la razza da lei cercata, poiché correva voce che il Popolo d'Argilla non uscisse mai alla luce del sole, e che temesse anche Grandestella e le lune. Il volo fu lungo: prese terra una volta soltanto, per permettere al suo destriero di andare a caccia di ratti arboricoli, mentre ella consumava un po' del pane che si era portata con sé, nella tasca della sella. Il pane era ormai duro e secco, e sapeva di cuoio, ma conservava ancora una traccia del suo profumo di forno; per un momento, mentre lo mangiava da sola, in una radura delle foreste meridionali, Semley udì il suono di una voce tranquilla e scorse la faccia di Durhal girata verso di lei, alla luce delle candele di Hallan… Per qualche tempo rimase immobile, sognando a occhi aperti quel volto giovane e austero, fantasticando di ciò che gli avrebbe detto, quando fosse tornata a casa portando al collo un tesoro talmente prezioso che, con esso, si sarebbe potuto riscattare un intero regno: «Desideravo un dono che fosse degno del mio consorte, Signore…».
Poi proseguì il viaggio: quando raggiunse la costa, il sole era già tramontato, e dietro di esso stava declinando anche Grandestella. Da occidente s'era levato un vento cattivo, che spirava a raffiche e che cambiava direzione, e il grifone procedeva a fatica. Semley lo fece scendere planando sulla sabbia. Subito l'animale chiuse le ali e raccolse le zampe grosse e leggere, soddisfatto. Con una mano, Semley si strinse il mantello alla gola e con l'altra accarezzò il collo del grifone, che prese a fare le fusa. Il calore della pelliccia le riscaldava la mano, ma al suo sguardo si offrivano solo il cielo livido e pieno di nembi, il mare grigio e la rena scura. E poi scorse una creatura bassa e bruna, che si spostava rapidamente sulla sabbia… un'altra… un intero gruppo di esseri, che correvano, si fermavano ad accovacciarsi dietro qualche masso, riprendevano a correre.
Semley li chiamò a gran voce. E se quelli, prima, non avevano dato segno di vederla, adesso, in un attimo, le furono tutti intorno. Si tennero a una certa distanza dal suo destriero del vento, che aveva smesso di fare le fusa e aveva rizzato un po' il pelo sotto la mano di Semley. Lei afferrò ben strette le redini, lieta della protezione che la bestia poteva offrirle, ma timorosa di qualche suo scatto feroce, frutto del nervosismo. Gli esseri sconosciuti rimasero immobili a guardarla, senza parlare, con i piedi massicci e scalzi ben piantati nella sabbia. Era impossibile sbagliare: erano alti come i Fiia, e in ogni altra cosa erano l'ombra, l'immagine in nero di quegli esseri ridenti. Nudi, tozzi, impassibili, con i capelli neri e lisci, con la pelle grigiastra e umidiccia come quella delle larve; occhi come pietre.
— Siete voi, il Popolo d'Argilla?
— Siamo Gdemiar, il popolo dei Signori dei Regni della Notte. — Era una voce inaspettatamente sonora e profonda, che echeggiò pomposa nel crepuscolo salmastro e battuto dal vento; ma anche ora, come in precedenza le era avvenuto con i Fiia, Semley non poté capire quale dei presenti avesse parlato.
— Vi saluto, Signori della Notte. Sono Semley di Kirien, moglie di Durhal di Hallan. Vengo tra voi per cercare ciò che è mio per diritto d'eredità, la collana chiamata Occhio del Mare, che fu persa molto tempo fa.
— Perche la cerchi qui, Angya? Qui ci sono solo la sabbia, l'acqua salata e la notte.
— Perché nei luoghi profondi si conoscono le cose smarrite — ribatte Semley, pronta a cimentarsi in quella che si mostrava fin dall'inizio come una lotta d'astuzia, — e perché l'oro che viene dalla terra tende a ritornare alla terra. Inoltre, come dice il proverbio, talvolta il manufatto ritorna a chi l'ha fabbricato. — Pronunciando quest'ultima frase, Semley aveva tirato a indovinare; l'allusione colpì nel segno.
— È vero, la collana Occhio del Mare ci è nota di fama. Venne fatta nelle nostre caverne molto tempo fa, e da noi venduta agli Angyar. La sua pietra azzurra proveniva dai Campi d'Argilla dei nostri cugini dell'Est. Ma si tratta di storie molto antiche, Angya.
— Vorrei ascoltarle nei luoghi dove sono narrate.
Le tozze creature rimasero in silenzio per qualche tempo, come se fossero in dubbio. Il vento che soffiava sulla sabbia era carico di foschia grigia ed era sempre più scuro con il tramontare di Grandestella; il rombo del mare cresceva e diminuiva. La voce profonda riprese a parlare: — Sì, Signora degli Angyar. Puoi entrare nelle Sale Sotterranee. Adesso accompagnaci. — La sua voce aveva un timbro diverso, più dolce. Semley non vi fece caso. Seguì gli Uomini d'Argilla lungo la sabbia, conducendo a briglia corta il destriero dagli artigli aguzzi.
All'imboccatura della grotta (una grande bocca aperta in uno sbadiglio, sdentata, da cui usciva con un sospiro un fetido calore), uno degli Uomini d'Argilla disse: — La bestia volante non può entrare.
— Entrerà — disse Semley.
— No — ribatterono i tozzi esseri.
— Entrerà: non intendo lasciarla qui fuori. Non è mia, e non posso abbandonarla. Non vi farà alcun male, finché la terrò per la briglia.
— No — ripeterono le voci profonde; ma altre intervennero: — Come tu vuoi — e dopo qualche istante d'esitazione l'intero gruppo si rimise in cammino. La bocca della caverna parve chiudersi di scatto alle loro spalle, tanto era buio all'interno della montagna. Procedevano in fila indiana, e Semley veniva per ultima.
L'oscurità della galleria si diradò: erano giunti sotto una boccia di pallido fuoco bianco, appesa al soffitto. Più avanti se ne scorgeva una seconda, e più avanti ancora una terza: tra l'una e l'altra, lunghi vermi nen pendevano a festoni dalla roccia. Via via che procedevano, la distanza tra una boccia e l'altra si accorciava, e infine l'intero tunnel fu rischiarato da una luce fredda e intensa.
Le guide di Semley si fermarono davanti a tre grandi porte che sembravano di ferro e che chiudevano l'imboccatura di tre nuove gallerie. — Qui dobbiamo aspettare, Angya — dissero, e otto rimasero con lei, mentre altri tre aprivano una delle porte ed entravano. La porta si richiuse dietro di loro con un tonfo sordo.
Immobile ed eretta attese la figlia degli Angyar nella bianca e cruda luce delle lampade; il destriero del vento, accovacciato al suo fianco, agitava la punta della coda striata, mentre le grandi ali ripiegate fremevano di tanto in tanto per il desiderio di volare, ormai trattenuto da troppo tempo. Nella galleria, dietro Semley, c'erano gli otto Uomini d'Argilla: sedevano a terra accosciati, e si scambiavano qualche parola con le loro voci profonde, nella loro lingua.
Con un rumore di ferraglia, infine la porta centrale si spalancò. — Fate entrare l'Angya nel Regno della Notte! — esclamò una nuova voce, tonante e orgogliosa. Sulla soglia comparve un Uomo d'Argilla che portava un indumento sul tozzo corpo grigio: le rivolse un cenno, invitandola a entrare. — Vieni ad ammirare i prodigi della nostra terra, le meraviglie create dalle nostre mani, l'opera dei Signori della Notte!
In silenzio, tirando la briglia dell'animale, Semley chinò la testa e lo seguì sotto la bassa arcata, costruita per il popolo nano. Davanti a lei si stendeva un altro tunnel illuminato, le cui pareti umide scintillavano nella luce bianca; sul pavimento, invece di un marciapiede, c'erano due sbarre di ferro lucido, poste a fianco a fianco, che si stendevano a perdita d'occhio. Sulle sbarre era ferma una specie di carro dalle ruote metalliche. Obbedendo ai gesti della sua nuova guida. Semley salì sul carro e fece accovacciare il grifone accanto a sé, senza esitazioni e senza ombra di meraviglia sul viso. L'Uomo d'Argilla salì a sua volta e, sedutosi davanti a lei, prese ad armeggiare con leve e rotelle. Si alzò un forte rumore di macina, si udì il gemito del metallo che striscia sul metallo, e le pareti del tunnel cominciarono a scorrere attorno a loro, sussultando. Le pareti corsero sempre più veloci; i globi di fiamma appesi al soffitto parvero diventare una sola fila confusa; l'aria calda e viziata divenne un fetido vento che le sfilò dai capelli il cappuccio.
Il carro si arrestò. Semley, seguendo la guida, salì alcuni scalini di basalto ed entrò in una vasta anticamera, e poi in una sala ancora più vasta, scavata nella viva roccia da antichi corsi d'acqua o dal lavoro da talpe degli Uomini d'Argilla: le sue tenebre, che non avevano mai conosciuto la luce del sole, erano rischiarate dal misterioso splendore freddo dei globi. Dietro certe grate fissate alle pareti, pale enormi giravano in continuazione, per cambiare l'aria. Nel grande spazio chiuso ronzavano e rimbombavano le voci sonore degli Uomini d'Argilla, il cigolio, il ronzio acuto e le vibrazioni delle pale e delle ruote in movimento, e gli echi e i riverberi di tutti questi suoni sulla roccia. Nell'enorme sala, i tozzi Uomini d'Argilla indossavano vestiti che imitavano quelli dei Signori delle Stelle: calzoni, stivali flosci e tuniche con cappuccio; solo le poche donne visibili, frettolose e servili nanerottole, erano nude. Molti degli uomini dovevano essere soldati, poiché portavano al fianco anni simili ai tenibili lanciafiamme dei Signori delle Stelle, ma la stessa Semley poté accorgersi senza fatica che erano soltanto bastoni di ferro modellato. Semley notò tutti questi particolari con la coda dell'occhio, senza mai posare lo sguardo su uno qualsiasi di essi: si limitò a seguire la guida, senza voltare la testa. Quando giunsero davanti a un gruppo di Uomini d'Argilla che portavano coroncine di ferro sui neri capelli, la sua guida si fermò, s'inchinò profondamente e disse con voce tonante: — I Supremi Signori degli Gdemiar!
Erano in sette, e tutti alzavano gli occhi verso di lei con tanta arroganza sulle facce pallide e sgraziate che Semley dovette fare un notevole sforzo per non scoppiare a ridere.
— Vengo tra voi alla ricerca del tesoro perduto della mia famiglia, o Signori del Regno delle Tenebre — disse loro, in tono grave. — Cerco il bottino di Leynen, l'Occhio del Mare. — Nel frastuono dell'immane cripta, la sua voce pareva perdersi.
— Così ci hanno riferito i nostri messaggeri, nobile Semley. — Questa volta riuscì a individuare l'individuo che parlava: uno che, anche se la cosa pareva impossibile, era ancora più basso di statura degli altri, poiché le arrivava a malapena all'altezza del petto; una faccia bianca, orgogliosa e feroce. — Non abbiamo ciò che tu cerchi.
— Ma l'avevate un tempo, a quanto si dice.
— Si dicono tante cose, lassù dove brilla il sole.
— E le parole le porta via il vento, là dove il vento spira. Non chiedo come la collana sia stata sottratta a noi, né come sia ritornata a voi, suoi antichi creatori. Sono storie vecchie, vecchi rancori. Desidero solamente riaverla, e riaverla adesso. Voi non l'avete; ma forse sapete dove si trova.