Il mondo di Rocannon - Le guin Ursula Kroeber 3 стр.


— Non è qui.

— Dunque è in un altro luogo.

— Laggiù dove è, tu non potresti raggiungerla. Mai, a meno che tu non abbia il nostro aiuto.

— Allora aiutatemi. Ve lo chiedo come vostra ospite.

— Si dice: Gli Angyar prendono; i Fiia danno; gli Gdemiar danno e prendono. Se faremo questo per te, che cosa ci darai?

— La mia gratitudine, Signore della Notte. Tacque, sorridendo, alta e fulgida in mezzo a loro.

Tutti la fissavano con un rancore, un'ostinazione che erano assai prossimi alla meraviglia, a un oscuro desiderio.

— Ascolta, Angya; ciò che ci chiedi è un favore grandissimo. Tu non puoi sapere quanto sia grande. Appartieni a una razza che non è disposta ad ascoltare, che pensa soltanto a cavalcare sul vento, a coltivare la terra, a combattere a filo di spada, a fare baldoria cantando in compagnia. Ma chi fabbrica le vostre spade di acciaio lucente? Noi, gli Gdemiar! I vostri signori vengono da noi, qui e nei Campi d'Argilla, acquistano le spade e se ne vanno senza guardare, senza capire. Ma tu, ora che sei qui, guarderai, e vedrai una parte delle nostre infinite meraviglie: le luci che rimangono sempre accese, il carro che si traina da solo, le macchine che fabbricano i nostri vestiti, cuociono il nostro cibo, addolciscono la nostra aria e ci servono in ogni nostra necessità.

«Sappi che ciascuna di queste cose è al di là della vostra comprensione. E sappi ancora una cosa: noi, gli Gdemiar, siamo amici di coloro che voi chiamate Signori delle Stelle! Li abbiamo accompagnati a Hallan, a Reohan, a Hul-Orren, in tutti i vostri castelli, per aiutarli a parlare con voi. I signori a cui voi, orgogliosi Angyar, pagate un tributo, sono nostri amici. Ci fanno dei favori, e noi facciamo dei favori a loro! Ora, che significato può avere, per noi, la tua gratitudine?

— Tocca a te rispondere a questa domanda — disse Semley, — non a me. Io ho fatto la mia domanda. Rispondi ad essa, Signore.

Per qualche tempo, i sette confabularono tra loro, a voce e in silenzio. La guardavano e poi distoglievano lo sguardo, mormoravano qualche parola e poi tacevano. Pian piano, intorno a loro, cominciò a raccogliersi una folla, lentamente e silenziosamente richiamata laggiù, un individuo alla volta, e infine Semley si trovò circondata da centinaia di teste nere e scarmigliate, e tutto il pavimento della grande caverna echeggiante si riempì di gente, tranne un breve spazio intorno a lei. Il grifone fremeva di timore e di irritazione repressa, i suoi occhi erano pallidi e spalancati, come quelli di un animale costretto a volare di notte. Semley gli accarezzò il caldo pelo dietro le orecchie, mormorando: — Calmo, calmo, coraggioso, bello, padrone dei venti…

— Angya, ti porteremo nel luogo dove si trova il tesoro. — L'Uomo d'Argilla dalla faccia bianca e dalla coroncina di ferro aveva ripreso a parlare. — Di più non possiamo fare. Devi venire con noi a richiedere la collana, laggiù dove si trova, a coloro che la conservano. La bestia dell'aria non può venire con te. Devi venire da sola.

— Quanto è lungo il viaggio, Signore?

L'Uomo d'Argilla sorrise; il sorriso si allargò ulteriormente. — Un viaggio molto lungo, Signora. Eppure, durerà soltanto una notte.

— Vi ringrazio della vostra cortesia. Avrete cura del mio destriero per questa notte? Non deve succedergli niente di male.

— Dormirà fino al tuo ritorno. E quando rivedrai la tua bestia avrai cavalcato un destriero del vento ben più possente! Non ci chiedi dove ti condurremo?

— Possiamo iniziare presto il viaggio? Non vorrei restare assente da casa troppo tempo.

— Sì. Presto. — Le labbra grige sorrisero nuovamente, mentre l'Uomo d'Argilla sollevava la testa per guardarla.

Quel che accadde nelle ore successive, Semley non fu mai in grado di narrarlo: ricordava soltanto la fretta, il movimento caotico, il rumore, la stranezza delle esperienze. Lei che teneva ferma la testa del grifone, mentre uno degli Uomini d'Argilla gli cacciava nel fianco striato d'oro un lunghissimo ago. Per poco, a quella vista, Semley non si lasciò scappare un grido, ma la bestia si limitò a fremere un momento, e poi, facendo le fusa, cadde nel sonno. Venne portata via da un gruppo di Uomini d'Argilla che dovettero chiamare a raccolta tutto il loro coraggio per toccare il suo caldo pelame.

Più tardi dovette farsi piantare anche lei un ago nel braccio: forse, pensò, intendevano soltanto mettere alla prova il suo coraggio, perché l'ago non la fece addormentare (anche se, a questo proposito, qualche dubbio le rimase sempre). Talvolta dovette viaggiare sui carri, superando centinaia e centinaia di porte di ferro e di caverne; una volta il carro attraversò una caverna che si stendeva per una distanza incommensurabile, nel buio, da entrambi i lati, e tutta quella tenebra era piena di immensi branchi di helidor. Udì i loro richiami gutturali e scorse la forma dei branchi quando le luci di testa del carro li illuminarono; infine ne poté vedere alcuni più da vicino, e si accorse che erano privi di ali, e ciechi. Di fronte a quella vista, chiuse gli occhi. Ma c'erano sempre nuove gallerie da percorrere, e nuove caverne, nuove figure grige e tozze, facce feroci e voci echeggianti; infine, all'improvviso, la condussero all'aria aperta. Si era nel pieno della notte; Semley alzò gli occhi, gioiosamente, verso le stelle e l'unica luna che ancora brillava, la piccola Heliki che rischiarava l'occidente. Ma gli Uomini d'Argilla ripresero subito a occuparsi di lei, facendole salire alcuni scalini per entrare in un nuovo tipo di carro (o di grotta? Semley non avrebbe saputo dirlo). Era piccolo, pieno di luci che si accendevano e si spegnevano, simili alle bocce luminose che aveva visto al suo ingresso nel regno sotterraneo, ma assai più piccole; l'intero ambiente era molto stretto ed era tutto lucido, assai diverso sia dalle grandi caverne umide, sia dalla notte stellata. Un altro ago la punse, e le fu detto che l'avrebbero legata su una specie di sedia piatta: mani, piedi e testa.

— No — protestò.

Ma quando vide che i quattro Uomini d'Argilla che dovevano farle da guida si facevano legare prima di lei, si arrese. Gli altri li lasciarono soli. Ci fu un grande ruggito, e poi un lungo silenzio; Semley si sentì schiacciare da un grande peso invisibile. Poi non ci furono più né pesi né suoni. Nulla.

— Sono morta? — domandò Semley.

— Oh no, Signora — disse una voce che non le piacque affatto.

Aperti gli occhi, vide la faccia pallida china su di lei, le grosse labbra arricciate in un sorriso, gli occhi simili a piccoli sassi. I legami che l'avevano tenuta ferma non c'erano più, e Semley si rizzò a sedere. Scoprì di essere priva di peso e priva di corpo; le parve di essere soltanto un soffio di terrore nel vento.

— Non ti faremo del male — disse la voce cupa (o erano più voci?). — Permettici soltanto di toccarti, Signora. Ci piacerebbe toccarti i capelli. Lasciati toccare i capelli…

Il carro a forma di boccia che li trasportava ebbe un leggero fremito. Al di là dell'unica finestra si stendeva una notte senza stelle, o la nebbia, o il nulla. Una sola, lunga notte, avevano detto. Fu molto lunga. Semley continuò a sedere immobile e sopportò il tocco delle mani grige e pesanti che le sfioravano i capelli. Più tardi le chiesero di toccarle le mani e i piedi, e le braccia; quando uno le toccò la gola, lei strinse i denti e si alzò in piedi. Quelli indietreggiarono.

— Non ti abbiamo fatto male, Signora — protestarono. Lei scosse il capo.

Quando la invitarono a farlo, Semley si sdraiò di nuovo sulla sedia che le impediva di muoversi; e quando giunse dalla finestra un lampo di luce dorata, lei avrebbe voluto piangere di gioia, ma svenne prima.

— Bene — disse Rocannon, — adesso almeno sappiamo cos'è.

— Certo, e mi auguro che possiamo anche sapere chi è — mormorò Ketho. — Vuole qualcosa che abbiamo qui al museo; è questo, ciò che hanno detto i trog?

— Su, non chiamarli «trog» — disse Rocannon, coscienziosamente (nella sua qualità di etnologo specializzato in forme di vita a intelligenza elevata, era tenuto a scoraggiare certi nomignoli). — Non sono belli, ma sono alleati di grado C… Mi domando perché la Commissione abbia scelto proprio loro per farli progredire, prima ancora di entrare in contatto con le altre specie intelligenti. Scommetto che la missione esplorativa veniva dal Centauro: i centauriani danno sempre la preferenza alle specie notturne e cavernicole. Fosse dipeso da me, avrei scelto la specie numero 2, laggiù.

— Sembra che i trogloditi abbiano una profonda soggezione di quella donna.

— Perché, tu no?

Ketho guardò nuovamente la donna alta, poi arrossì e rise.

— Be', in un certo senso, sì. Non ho mai visto un tipo alieno così affascinante, nei diciotto anni che ho passato qui sulla Nuova Georgia del Sud. Anzi, confesso di non avere mai visto una donna così incantevole, su nessun pianeta. Sembra una dea. — Il rossore era dilagato fino alla sommità della sua testa calva: Ketho era timido, poco portato alle esagerazioni. Rocannon gli rivolse un breve cenno d'assenso, con la testa.

— Vorrei parlarle senza trog… senza Gdemiar come interpreti. Ma è impossibile. — Rocannon si diresse verso la visitatrice, e quando lei girò nella sua direzione lo splendido viso, egli si inchinò profondamente, fino ad appoggiare al pavimento un ginocchio, con la testa piegata e gli occhi bassi. Era il suo «Inchino Inter-culturale Tuttofare», ed egli lo eseguiva con una certa eleganza. Quando si raddrizzò, la bellissima donna sorrise e parlò.

— Lei dice: «Salve, Signore delle Stelle» — borbottò in un Galattico approssimativo uno degli Gdemiar che la scortavano.

— Salve, Signora degli Angyar — rispose Rocannon. — In che cosa possiamo servire la Signora, noi del museo?

In mezzo ai borbottii dei trogloditi, la voce della donna fu come una breve ventata argentina.

— Lei dice: «Prego ridare collana che tesoro di antenati di suo clan tanto tanto tempo fa.»

— Quale collana? — domandò Rocannon, e la donna, che aveva compreso il senso delle sue parole, indicò il pezzo principale esposto nella vetrina accanto a loro: un oggetto magnifico, una catena d'oro giallo, massiccia, ma lavorata con grande delicatezza, in cui era incastonato un grande zaffiro di un caldo colore azzurro. Rocannon inarcò le sopracciglia per la sorpresa, e Ketho, dietro di lui, mormorò: — Ha buon gusto, la nostra amica. È la Collana di Fomalhaut, un famoso capolavoro.

Lei sorrise ai due uomini, e di nuovo parlò loro direttamente, senza rivolgersi ai trogloditi.

— Lei dice: «Signori delle Stelle, Vecchio e Giovane Abitanti della Casa dei Tesori, questo tesoro è suo. Tanto tanto tempo. Grazie.»

— Come ci è pervenuta la collana, Ketho?

— Aspetta un momento, guardo sul catalogo. Ce l'ho qui. Ecco. Ce l'hanno data questi trog… questi nani… questi quel-che-sono: Gdemiar. Hanno il culto degli scambi, dice qui: hanno voluto, a tutti i costi, pagare l'astronave usata per venire qui, una PA-4. La collana faceva parte del pagamento. È opera loro.

— E scommetto che non sono più in grado di fare lavori analoghi, da quando li abbiamo portati al livello industriale.

— Comunque, sembrano convinti che la collana sia della donna, e non nostra, o loro. Deve trattarsi di qualcosa d'importante, Rocannon, altrimenti non avrebbero sacrificato tanto tempo-oggettivo per accontentarla. Il divario tra qui e Fomalhaut deve essere piuttosto notevole!

— Vari anni, senza dubbio — disse l'etnologo, che era abituato ai viaggi tra le stelle. — Ma, tutto sommato, non molto distante. Comunque, né il Manuale né la Guida mi forniscono dati sufficienti per formulare un'ipotesi attendibile. È chiara una cosa: che queste specie non sono state studiate a sufficienza. Forse i piccoletti si limitano a farle un favore. O quel maledetto zaffiro potrebbe far scoppiare una guerra tra le due specie. Forse i desideri della donna sono legge per loro, perche si considerano totalmente inferiori a lei. Oppure, nonostante le apparenze, lei è loro prigioniera, una sorta di specchio per le allodole. Come saperlo?… Tu potresti cedere la collana, Ketho?

— Oh, certo. Tutti gli «oggetti esotici» sono formalmente in prestito, e non ci appartengono, poiché di tanto in tanto riceviamo qualche richiesta di restituzione. Di solito non abbiamo obiezioni. La pace va mantenuta a tutti i costi, finché non verrà la Guerra…

— Allora, direi di dargliela.

Ketho sorrise. — È un onore — disse. Aprì con la chiave la vetrinetta e prese in mano la pesante catena d'oro; poi, timidamente, la porse a Rocannon, dicendo: — Dagliela tu.

E fu così che la gemma azzurra, all'inizio di tutto, rimase per qualche istante in mano a Rocannon.

Ma egli non pensava al gioiello. Si rivolse alla bellissima donna di un altro pianeta, stringendo nella mano quella manciata di fuoco azzurro e d'oro. Lei non tese la mano per prenderla, ma piegò la testa, e Rocannon gliela fece scivolare sopra i capelli. Il monile le cinse la gola bruna e dorata, come una miccia accesa. La donna alzò lo sguardo con tanto orgoglio, con tanta gioia e gratitudine, che Rocannon rimase senza parole, e il piccolo curatore mormorò nella propria lingua: — Prego, prego… — Lei chinò la testa clorata verso Ketho e verso Rocannon. Poi, voltandosi, rivolse un cenno alle tozze guardie (o erano carcerieri?) e stringendosi nel mantello azzurro e liso, si avviò per la lunga sala e subito scomparve. Ketho e Rocannon la seguirono con lo sguardo.

— Ho l'impressione… — cominciò Rocannon.

— Sì? — fece Ketho, con la voce spessa, dopo una lunga pausa.

— Ho l'impressione, talvolta, che io… incontrando persone di pianeti che conosciamo così male… ho l'impressione di entrare, per così dire, in qualche leggenda, o in qualche tragedia, forse, che non capisco.

— Già — disse il curatore, schiarendosi la gola. — Mi piacerebbe sapere il suo nome.

Semley la Bella, Semley la Dorata, Semley dalla Collana. Il Popolo d'Argilla si era piegato al suo volere, e così si erano piegati gli stessi Signori delle Stelle, nel luogo terribile dove l'avevano condotta gli Uomini d'Argilla, nella città al confine della notte. Si erano inchinati davanti a lei, le avevano dato lietamente il suo tesoro, che già era loro.

Ma non riusciva ancora a liberarsi dalle sensazioni che aveva provato nelle caverne dove la roccia pendeva sulla sua testa, dove non si capiva chi parlasse, o cosa facessero tutti quanti, dove le voci rimbombavano e le grige mani si tendevano… Basta. Aveva pagato, per avere la collana; benissimo. Adesso la collana era sua. Il prezzo era stato corrisposto, il passato era morto.

Il suo destriero del vento era uscito faticosamente da una sorta di cassa, con gli occhi velati e il pelo bordato di ghiaccio, e dapprima, dopo che ebbero lasciato le grotte degli Gdemiar, si rifiutò di volare. Ormai però sembrava che si fosse ripreso del tutto, e volava trasportato da un dolce vento che spirava dal sud, nel ciclo luminoso, in direzione di Hallan. — Presto, presto! — lo incitava, riprendendo a ridere, ora che il vento le aveva spazzato via dalla mente il ricordo dell'oscurità. — Voglio rivedere Durhal presto, presto…

E volarono veloci, giungendo a Hallan la sera del secondo giorno. Ormai le grotte del Popolo d'Argilla sembravano soltanto un brutto sogno, mentre il destriero veleggiava sui mille gradini di Hallan e sul Ponte sull'Abisso, dove la foresta scendeva a precipizio per trecento braccia. Nella luce dorata della sera, nella corte del volo, Semley smontò di sella e salì a piedi gli ultimi gradini, passando in mezzo alle rigide figure scolpite degli eroi del passato. I due guardiani della porta si inchinarono davanti a lei, fissando a occhi aperti la bellissima gemma lucente che portava al collo.

Nella Prima Sala fermò una ragazza che passava: una giovane molto graziosa, che dall'aspetto sembrava una parente di Durhal, anche se Semley non l'aveva mai vista. — Mi riconosci, ragazza? Sono Semley, moglie di Durhal. Puoi andare dalla nobile Durossa, avvertendola del mio ritorno?

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