— Temere, sulla costa meridionale? I suoi abitanti commerciano in tutti gli stretti.
L’arcimago annuì.
— Ma — disse cautamente Arren, — tu non hai l’accento di Enlad.
— Lo so. Ho l’accento di Gont — replicò il suo compagno; e rise, alzando gli occhi verso l’oriente che si rischiarava. — Ma credo di poter prendere a prestito da te ciò che mi serve. Dunque, noi veniamo da Temere, con la nostra barca, Delfino, e io non sono un signore né un mago né Sparviero, ma… come mi chiamo?
— Falco, mio signore.
Poi Arren si morse la lingua.
— Pratica, nipote — disse l’arcimago. — Ci vuole pratica. Tu non sei mai stato altro che un principe. Io, invece, sono stato molte cose, e per ultima, forse la meno importante, anche arcimago… Andiamo a sud, a cercare pietre emmel, quelle cose azzurre da cui si ricavano amuleti. So che in Enlad le pagano bene. Ne ricavano talismani contro i reumatismi, le slogature, i torcicollo e gli inceppamenti della lingua.
Dopo un istante Arren rise; e quando alzò la testa, la barca si sollevò su un’onda lunga e lui vide l’orlo del sole contro l’orlo dell’oceano: un bagliore dorato e improvviso, davanti a loro.
Sparviero stava ritto, con una mano sull’albero, perché la piccola barca balzava sulle onde convulse, e salmodiò rivolgendosi all’aurora dell’equinozio di primavera. Arren non conosceva la Vecchia Lingua, la lingua dei maghi e dei draghi: ma udiva lodi ed esultanza in quelle parole, che avevano un ritmo grandioso come quello delle maree o dell’equilibrio dei giorni e delle notti in eterna successione. I gabbiani gridavano nel vento, e le spiagge della baia di Thwil scivolavano via a destra e a sinistra: si addentrarono sulle lunghe onde luminose del mare Interno.
Da Roke a Città Hort non è un gran tragitto; ma trascorsero tre notti in mare. L’arcimago aveva dimostrato una gran fretta di partire, ma adesso era più che paziente. I venti divennero contrari appena loro si allontanarono dalla cerchia di clima incantato che attorniava Roke; ma lui non evocò un vento magico nella loro vela, come avrebbe fatto qualunque incantatore; invece, per ore e ore, insegnò ad Arren come guidare la barca in un vento avverso e costante, nel mare irto di scogli a est di Issel. La seconda notte cadde la fredda e sferzante pioggia di marzo, ma lui non recitò incantesimi per tenerla lontana. La notte seguente, mentre stavano all’esterno dell’entrata di Porto Hort, in una calma oscurità fredda e nebbiosa, Arren rifletté e notò che l’arcimago, nel breve tempo trascorso da quando l’aveva incontrato, non aveva compiuto nessuna magia.
Tuttavia era un marinaio impareggiabile. In quei tre giorni di navigazione insieme a lui, Arren aveva imparato di più che nei dieci anni di gare e di svaghi sulla baia di Berila. E mago e marinaio, in fondo, non sono poi tanto diversi: entrambi operano con i poteri del cielo e del mare, e usano i grandi venti per avvicinare ciò che è remoto. Arcimago, o Falco il mercante del mare: era più o meno la stessa cosa.
Era un uomo piuttosto taciturno, sebbene si mostrasse sempre cordiale e bonario. Le goffaggini di Arren non l’irritavano; era cameratesco, e sarebbe stato impossibile immaginare un compagno migliore, pensava Arren. Ma l’arcimago sprofondava nei suoi pensieri, e taceva per ore e ore, e poi, quando parlava, aveva una certa asprezza nella voce e guardava Arren come se non lo vedesse. Questo non smorzava l’affetto che il ragazzo provava per lui, ma forse ne sminuiva un po’ la simpatia: gli incuteva un certo timore. Forse anche Sparviero se ne rendeva conto, perché in quella notte di nebbia, al largo delle rive di Wathort, cominciò a parlare con Arren di se stesso, a frasi spezzate. — Non voglio andare tra gli uomini, domani — disse. — Ho finto di essere libero… Ho finto di credere che nel mondo non ci sia nulla d’insolito; che io non sono l’arcimago, e neppure un incantatore. Che sono Falco di Temere, senza responsabilità né privilegi, e che non devo niente a nessuno… — S’interruppe; dopo una lunga pausa, continuò: — Cerca di scegliere con cura, Arren, quando è necessario compiere le grandi scelte. Quando ero giovane, dovetti scegliere tra la vita dell’essere e la vita del fare. E mi avventai su quest’ultima, come una trota su una mosca. Ma ogni azione che compi, ogni atto, ti lega a sé e alle sue conseguenze, e ti costringe ad agire e ad agire ancora. E allora, solo raramente incontri la paura, un tempo come questo, tra un’azione e l’altra, quando puoi fermarti e limitarti a essere. O a domandarti chi sei, dopotutto.
Come poteva un uomo come quello, si chiese Arren, avere dubbi su chi era e cos’era? Aveva pensato che dubbi simili fossero riservati ai giovani che ancora non avevano fatto nulla.
La barca ondeggiava nella grande oscurità fresca.
— Per questo mi piace il mare — disse nel buio la voce di Sparviero.
Arren lo comprendeva; ma i suoi pensieri correvano lontano, com’era sempre avvenuto in quei tre giorni e in quelle tre notti, verso la loro ricerca, lo scopo del loro viaggio. E poiché, finalmente, il suo compagno sembrava disposto a parlare, chiese: — Credi che a Città Hort troveremo ciò che cerchiamo?
Sparviero scrollò la testa, forse per rispondere di no o forse per indicare che non lo sapeva.
— Non potrebbe essere una specie di pestilenza, un’epidemia, che passa di terra in terra devastando le messi e gli armenti e gli spiriti degli uomini?
— Una pestilenza è un movimento del grande equilibrio: questo è diverso. Ha in sé il lezzo del male. Forse ne soffriremo, quando l’equilibrio delle cose si ristabilirà; ma non perdiamo la speranza, non rinunciamo all’arte e non dimentichiamo le parole della Creazione. La natura non è innaturale. Questo non è un assestamento dell’equilibrio, bensì una perturbazione. C’è una sola specie di esseri che può farlo.
— Un uomo? — chiese incerto Arren.
— Noi uomini.
— In che modo?
— Con uno smisurato desiderio di vita.
— Di vita? Ma cosa c’è di male nel desiderio di vivere?
— Nulla. Ma quando aspiriamo al potere sulla vita, a ricchezze infinite, sicurezza inattaccabile, immortalità… allora il desiderio diventa avidità. E se la conoscenza si allea alla cupidigia, sopravviene il male. Allora l’equilibrio del mondo è turbato, e la rovina piomba sui piatti della bilancia.
Arren rifletté per qualche istante, e poi chiese: — Allora tu credi che sia un uomo, quello che cerchiamo?
— Un uomo e un mago. Sì.
— Ma avevo pensato, in base a quanto mi avevano insegnato mio padre e i miei maestri, che le grandi arti della magia dipendessero dall’Equilibrio delle cose e perciò non si potessero usare per scopi malefici.
— Questa — disse Sparviero, in tono piuttosto ironico, — è un’affermazione discutibile. Infinite sono le discussioni dei maghi… Ogni isola di Earthsea conosce streghe che gettano sortilegi immondi, incantatori che usano la loro arte per ottenere ricchezze. Ma c’è di più. Il Signore del Fuoco, che cercò di sconfiggere la tenebra e di arrestare il sole al meriggio, era un grande mago; perfino Erreth-Akbe avrebbe incontrato difficoltà a sconfiggerlo. Anche il Nemico di Morred era così. Dovunque andasse, intere città si prosternavano davanti a lui; per lui combattevano gli eserciti. L’incantesimo che intessé contro Morred era così potente che non fu possibile arrestarlo neppure quando lui venne ucciso e l’isola di Soléa fu sopraffatta dal mare e tutto ciò che vi si trovava perì. Quelli furono uomini in cui la grande forza e la grande sapienza servivano il male e se ne alimentavano. Non sappiamo se la magia al servizio del bene possa sempre rivelarsi più forte. Ci limitiamo a sperarlo.
È piuttosto avvilente trovare la speranza quando ci si attende la certezza. Arren non era disposto a rimanere a lungo su quelle vette gelide. Dopo un po’ disse: — Capisco perché tu affermi che solo gli uomini operano il male. Perfino gli squali sono innocenti: uccidono perché devono farlo.
— È per questo che null’altro può resisterci. Una sola cosa al mondo può opporsi a un uomo dal cuore malvagio: ed è un altro uomo. Nella nostra vergogna sta la nostra gloria. Solo il nostro spirito, che è capace di creare il male, è capace di sconfiggerlo.
— Ma i draghi — disse Arren, — non operano grandi mali. Anche loro sono innocenti?
— I draghi! I draghi sono avidi, insaziabili, infidi, spietati, privi di scrupoli. Ma sono malvagi? Chi sono, io, per poter giudicare le azioni dei draghi?… Sono più sapienti degli uomini. In un certo senso sono come i sogni, Arren. Noi uomini facciamo sogni, operiamo la magia, compiamo il bene, compiamo il male. I draghi non sognano. Sono sogni loro stessi. Non operano la magia: è la loro sostanza, la loro essenza. I draghi non fanno: sono.
— A Serilune — disse Arren, — c’è la pelle di Bar Oth, ucciso da Keor, principe di Enlad, trecento anni orsono. Da quel giorno, nessun drago si è più avventurato fino a Enlad. Ho visto la pelle di Bar Oth. È pesante come ferro, e così grande che, spiegata, coprirebbe l’intera piazza del mercato di Serilune, a quanto dicono. I denti sono lunghi quanto il mio avambraccio. Eppure dicono che Bar Oth era un drago giovane e non aveva ancora finito di crescere.
— Tu desideri vedere i draghi.
— Sì.
— Hanno il sangue freddo e velenoso. Non devi guardarli negli occhi. Sono più antichi dell’umanità… — Sparviero rimase in silenzio per lunghi istanti, e poi proseguì: — E anche se giungessi a dimenticare tutto ciò che ho fatto, o a pentirmene, ricorderei comunque che una volta ho visto i draghi in volo nel vento, al tramonto, sopra le isole occidentali, e ne sarei contento.
Tacquero, e non ci fu altro suono che il mormorio dell’acqua contro la chiglia della barca; e non c’era luce. E così finalmente, là sulle acque profonde, dormirono.
Nella luminosa foschia del mattino entrarono in Porto Hort, dove cento imbarcazioni stavano ammarrate o si accingevano a partire: pescherecci, barche per la raccolta dei granchi o la pesca a strascico, mercantili, due galee a venti remi, una grande galea a sessanta remi in pessime condizioni, e alcune agili e lunghe navi dalle alte vele triangolari, ideate per cogliere il vento nelle afose bonacce dello Stretto Meridionale: — Quella è una nave da guerra? — chiese Arren mentre incrociavano una delle galee a venti remi, e il suo compagno rispose: — Una nave di mercanti di schiavi, a giudicare dalle catene nella stiva. Vendono uomini nello Stretto Meridionale.
Arren rifletté un attimo, poi andò alla cassa degli attrezzi e ne estrasse la spada, che la mattina della partenza aveva riposto dopo averla avviluppata con cura. La scoprì; poi rimase indeciso, con la lama inguainata nelle mani e la cintura penzoloni.
— Non è una spada da mercante — disse. — Il fodero è troppo lussuoso.
Sparviero, occupato a governare il timone, gli lanciò un’occhiata. — Portala, se vuoi.
— Pensavo che fosse più saggio.
— Anche quella spada è saggia — disse l’arcimago, con gli occhi fissi sui varchi che si aprivano nella baia affollata. — Non è forse vero che non ama essere usata?
Arren annuì. — Così dicono. Eppure ha ucciso. Ha ucciso uomini. — Abbassò lo sguardo sull’elsa sottile e un po’ consunta. — Ma io no. Mi fa sentire molto sciocco. È troppo più vecchia di me… Prenderò il mio coltello — concluse. Avvolse di nuovo la spada e la ripose nella cassa. Aveva un’espressione perplessa e irata. Sparviero non disse nulla, per qualche istante, poi chiese: — Adesso vuoi prendere i remi, ragazzo? Siamo diretti verso il pontile, là vicino alla scala.
Città Hort, uno dei sette grandi porti dell’arcipelago, saliva dai moli rumorosi su per le pendici di tre ripide colline, in un groviglio di colori. Le case erano d’argilla e intonacate di rosso, arancione, giallo e bianco; i tetti erano di tegole purpuree; gli alberi di pendick in fiore formavano masse rossoscure lungo le strade più alte. Tendoni a strisce vivaci si stendevano da un tetto all’altro, ombreggiando le strette piazze del mercato. I moli erano illuminati dal sole; le vie che si allontanavano dal porto erano fenditure buie, piene di ombre e di gente e di chiasso.
Quando ebbero ammarrato la barca, Sparviero si chinò a fianco di Arren, come per controllare il nodo, e disse: — Arren, a Wathort c’è gente che mi conosce piuttosto bene; perciò guardami, in modo da potermi riconoscere. — Quando si raddrizzò, la sua guancia non era più sfigurata dalla cicatrice. Aveva i capelli grigi, il naso grosso e piuttosto rincagnato; e invece di un bastone di tasso alto quanto lui, portava una bacchetta d’avorio, che nascose dentro la camicia. — Mi riconosci? — chiese ad Arren con un ampio sorriso, parlando con l’accento di Enlad. — Avevi mai visto tuo zio così?
Arren aveva visto molti incantatori, alla corte di Berila, mutare volto quando mimavano le Gesta di Morred, e sapeva che era soltanto illusione; non perse la calma e riuscì a rispondere: — Oh, sì, zio Falco!
Ma mentre il mago contrattava con un guardiano del porto la tariffa per l’attracco e la custodia della barca, Arren continuava a guardarlo per essere sicuro di riconoscerlo. E mentre lo guardava, la metamorfosi lo turbava di più, non di meno. Era troppo completa: quello non era l’arcimago, non era un capo, una saggia guida… La tariffa pretesa dal guardiano era alta, e Sparviero pagò borbottando e si allontanò con Arren continuando a borbottare. — Una dura prova per la mia pazienza — disse. — Pagare quel ladro per custodire la mia barca quando mezzo incantesimo avrebbe fatto molto meglio! Bene, questo è il prezzo del travestimento… E ho dimenticato il dovuto linguaggio, non è vero, nipote?
Stavano camminando per un’affollata via colorata e puzzolente, fiancheggiata da botteghe poco più grandi di chioschetti; i proprietari stavano sulle soglie tra mucchi e festoni di mercanzie, proclamando a gran voce la bellezza e la convenienza di pentole, calze, cappelli, badili, spilloni, borse, bricchi, canestri, attizzatoi, coltelli, corde, catenacci, lenzuola, e ogni altro tipo di merce.
— È una fiera?
— Eh? — chiese l’uomo dal naso rincagnato, piegando la grigia testa.
— È una fiera, zio?
— Una fiera? No, no. C’è mercato tutto l’anno, qui. Tieniti pure le focacce di pesce, padrona, ho già fatto colazione! — E Arren cercò di togliersi di torno un uomo con un vassoio carico di vasetti d’ottone che lo seguiva piagnucolando: — Compra, prova, bel padroncino, non ti deluderanno, un alito dolce come le rose di Numima, attirerà le donne, prova, giovane signore del mare, giovane principe…
Subito Sparviero si mise di mezzo fra Arren e il venditore ambulante, chiedendo: — Che amuleti sono?
— Non sono amuleti! — gemette l’uomo, arretrando. — Io non vendo amuleti, signore del mare! Soltanto sciroppi che addolciscono l’alito dopo le bevande e le racidi di hazia… soltanto sciroppi, grande principe! — Si rannicchiò sul lastricato, e il vassoio con i vasetti tintinnò, e alcuni dei minuscoli recipienti s’inclinarono facendo traboccare dall’orlo un po’ del contenuto: una sostanza viscosa, rosea o purpurea.
Sparviero gli voltò le spalle senza pronunciare una parola e proseguì insieme ad Arren. Ben presto la folla si diradò e le bottegucce divennero sempre più povere e squallide, simili a canili: si esibivano come mercanzie una manciata di chiodi storti, un pestello rotto, un vecchio pettine da cardatore. Quella miseria infastidiva Arren assai meno del resto; all’estremità più ricca della strada si era sentito soffocato e nauseato dalla pressione degli oggetti in vendita e dalle voci che gli gridavano di comprare. E l’abiezione del venditore ambulante l’aveva sconvolto. Pensò alle strade fresche e luminose della sua città nordica. A Berila, pensò, nessuno si sarebbe umiliato in quel modo davanti a uno straniero. — È un popolo immondo! — disse.