— Da questa parte, nipote — fu l’unica replica del suo compagno. Svoltarono in un vicolo tra alti muri rossi, senza finestre, che correva lungo il fianco della collina e passava attraverso un arco inghirlandato da striscioni putrefatti, per uscire di nuovo nel sole su una piazza in forte pendenza: un altro mercato, affollato di chioschi e baracchette e brulicante di gente e di mosche.
Intorno alla piazza c’erano uomini e donne in gran numero, seduti o sdraiati, immobili. Le bocche erano stranamente nerastre, come illividite da percosse, e intorno alle labbra le mosche sciamavano come grappoli di ribes secco.
— Quanti sono! — disse la voce di Sparviero, bassa e concitata come se anche lui fosse turbato da quello spettacolo; ma quando Arren lo guardò, vide solo la faccia ottusa e placida del gioviale mercante Falco, per nulla preoccupata.
— Cos’ha quella gente?
— Hazia. Acquieta e intorpidisce, e libera il corpo dalla mente. E la mente vaga, senza intralci. Ma quando ritorna al corpo, ha bisogno di altra hazia… e il bisogno cresce, e la vita si abbrevia, perché quella roba è veleno. Dapprima viene il tremito, e poi la paralisi, e infine sopravviene la morte.
Arren guardò una donna, seduta col dorso appoggiato a un muro caldo di sole: aveva levato la mano come per scacciare le mosche dalla faccia, ma quella mano compiva nell’aria un movimento circolare e sussultante come se lei l’avesse dimenticata e la muovesse solo per slancio della paralisi o del tremito dei muscoli. Il gesto era come un incantesimo svuotato da ogni intenzione, un sortilegio privo di significato.
Falco la stava guardando, impassibile. — Vieni via! — disse.
Attraversò la piazza del mercato, dirigendosi verso un chiosco ombreggiato da un telone. Strisce di luce solare colorate di verde, d’arancione, di limone, di cremisi e di celeste cadevano sulle stoffe e gli scialli e le cinture messi in mostra, e danzavano moltiplicandosi nei minuscoli specchi incastonati nell’alto copricapo impennacchiato della venditrice. Questa era grande e grossa e cantilenava con voce sonora: — Sete, rasi, tele, pellicce, feltri, lane, coperte di Gont, veli di Showl, sete di Lorbanery! Ehi, nordici, toglietevi quelle giubbe: non vedete che splende il sole? questo non vi sembra adatto a portare in dono a una ragazza della lontana Havnor? Guardate: seta del sud, fine come l’ala di una libellula! — Aveva spiegato con mosse esperte una pezza di seta trasparente, rosea e tramata di fili d’argento.
— No, padrona, le nostre mogli non sono regine — disse Falco, e la voce della donna si levò in un barrito: — Allora di cosa vestite le vostre donne? Di tela da sacco o da vela? Avaracci che non volete comprare un po’ di seta per una povera donna gelata e tremante nelle eterni nevi del nord! Allora cosa ne dite di questo: uno scialle di Gont, per tenerla calda nelle notti d’inverno! — Gettò sul banco un grande quadrato bianco e bruno, intessuto del pelame argenteo delle capre delle isole nordorientali. Il finto mercante tese la mano per tastarlo, e sorrise.
— Sei davvero di Gont? — disse la voce squillante: e lo scialle, ondeggiando, lanciò mille punti colorati in un turbinio, sul tendone e sulle stoffe.
— Questo è un lavoro di Andrad, vedi? Ci sono soltanto quattro fili di trama sull’ampiezza di un dito. A Gont ne mettono sei o più. Ma spiegami perché hai abbandonato la magia per metterti a vendere cianfrusaglie. Quando sono venuto qui, anni orsono, ti ho vista estrarre fiamme dagli orecchi degli uomini, e poi trasformare quelle fiamme in uccelli e campanellini dorati: ed era un mestiere certamente migliore di questo.
— Non era un mestiere — ribatté il donnone; e per un momento Arren sentì i suoi occhi, duri e freddi come agate, che fissavano lui e Falco tra l’irrequieto brillio delle piume ondeggianti e degli specchietti.
— Era molto grazioso, quel trucco: estrarre il fuoco dagli orecchi — proseguì Falco, in tono triste ma sincero. — Speravo di poterlo mostrare a mio nipote.
— Be’, vedi — disse la donna, in tono meno aspro, appoggiando sul banco le grosse braccia brune e l’ingombrante seno. — Sono trucchi che non facciamo più. La gente non vuole saperne. Ha capito come facciamo. Questi specchi… ecco, vedo che ti ricordi dei miei specchi. — Scosse la testa, e i punti riflessi di luce colorata turbinarono intorno a loro, vertiginosamente. — Bene, si può stordire un uomo col lampeggiare degli specchietti e con le parole e altri trucchi che non ti spiegherò, finché quello crede di vedere ciò che non vede, cose che non ci sono. Come le fiamme e i campanellini d’oro, o le vesti con cui bardavo i marinai, tessuto d’oro con diamanti grossi come albicocche, e quelli se ne andavano pavoneggiandosi come il Re di Tutte le Isole… Ma erano soltanto trucchi. È facile ingannare gli uomini. Sono come i polli affascinati da un serpente, o da un dito tenuto fisso davanti a loro. Gli uomini sono come polli. Ma alla fine capiscono di essere stati raggirati e ingannati: allora si arrabbiano, e non trovano più piacere in queste cose. Perciò mi sono data a questo commercio, e forse non tutte le sete sono sete e non tutte le lane sono di Gont, ma ad ogni modo si consumeranno: si consumeranno! Sono vere, non menzogne e aria come gli abiti di stoffa d’oro.
— Bene, bene — replicò Falco, — allora in tutta Città Hort non è rimasto nessuno che tragga fiamme dagli orecchi o compia magie come facevano un tempo?
A queste ultime parole, la donna aggrottò la fronte; poi si raddrizzò e incominciò a ripiegare con cura la coperta. — Quelli che vogliono menzogne e visioni masticano hazia — disse. — Va’ a parlare con loro, se vui! — e indicò con un cenno del capo le figure immobili tutt’intorno alla piazza.
— Ma c’erano i maghi, quelli che incantavano i venti per i marinai e gettavano sortilegi della buona fortuna sui loro carichi. Anche loro si sono dati ad altri mestieri?
Ma la donna, in preda a una furia improvvisa, si mise a barrire più forte di Falco. — C’è un incantatore, se è quello che cerchi: un grande mago col bastone e tutto il resto. Lo vedi, laggiù? Ha navigato con Egre, creando i venti e scoprendo ricche galee, così dice lui; ma erano tutte menzogne, e alla fine il capitano Egre l’ha ricompensato come meritava: gli ha mozzato la mano destra. E adesso se ne sta là, come vedi, con la bocca piena di hazia e il ventre pieno d’aria. Aria e menzogne! Aria e menzogne! Non c’è nient’altro nella sua magia, capitan Caprone!
— Bene, bene, padrona — disse Falco, con insistente mitezza. — Volevo solo sapere. — Lei gli voltò l’ampia schiena in un grande vortice di specchietti abbaglianti, e Falco si allontanò con Arren al fianco.
Ma quella sua camminata aveva uno scopo preciso: li portò nei pressi dell’uomo indicato dalla mercantessa. Sedeva appoggiato a un muro, e guardava nel vuoto: il volto scuro e barbuto era stato molto bello, un tempo. Il raggrinzito moncherino del polso giaceva sulle pietre del lastricato, nella calda luce del sole: una vista orribile.
Ci fu un certo movimento tra i chioschetti, dietro di loro, ma Arren non riuscì a distogliere gli occhi da quell’uomo: era prigioniero di un fascino inorridito. — Era davvero un mago? — domandò, a voce molto bassa.
— Forse è quello che veniva chiamato Lepre e che dominava il maltempo per conto del pirata Egre. Erano predoni famosi… Scostati! — Per poco un uomo che veniva correndo a precipizio dai chioschetti non li investì entrambi. Un altro arrivò al trotto, curvo sotto il peso di un grande banchetto pieghevole carico di galloni e di pizzi. Un baracchino cadde con uno schianto rumoroso; i tendoni venivano spinti da parte o smontati in tutta fretta; gruppi di persone si spingevano o lottavano attraverso la piazza del mercato, le voci si levavano in grida e urla. Più forte di tutto echeggiava il barrito della donna dal copricapo di specchietti. Arren l’intravide mentre brandiva una specie di bastone o di pertica contro un gruppo di uomini, scacciandoli a grandi fendenti, come uno schermitore. Era impossibile capire se si trattava di una rissa generalizzata o dell’assalto di una banda di ladri o di una zuffa tra due fazioni rivali di venditori ambulanti. Molti passavano di corsa, con le braccia cariche di merci che potevano essere bottino oppure la loro legittima proprietà salvata dai saccheggiatori. C’erano lotte a coltellate e a pugni, e risse in tutta la piazza. — Da quella parte — disse Arren, indicando una strada secondaria lì vicino. Si avviò in quella direzione, poiché era evidente che dovevano andarsene al più presto; ma il suo compagno l’afferrò per il braccio. Si voltò indietro e vide che l’uomo chiamato Lepre si stava alzando faticosamente. Quando fu in piedi, barcollò per un istante e poi, senza guardarsi intorno, s’incamminò al limitare della piazza, sfiorando con l’unica mano i muri delle case come per guidarsi o sostenersi. — Non perderlo di vista — disse Sparviero, e presero a seguirlo. Nessuno li molestò, né loro due né l’uomo che pedinavano; e in pochi istanti lasciarono la piazza del mercato e iniziarono a scendere la collina nel silenzio di una viuzza tortuosa.
In alto, le soffitte delle case quasi s’incontravano, bloccando la luce; i ciottoli del selciato erano viscidi per l’acqua e i rifiuti. Lepre procedeva a passo svelto, sebbene continuasse a strascicare la mano lungo i muri come un cieco. Dovevano stargli molto vicino, per non perderlo di vista a un crocicchio. All’improvviso, Arren si sentì invadere dall’eccitazione della caccia: tutti i suoi sensi erano all’erta, come durante una caccia al cervo nelle foreste di Enlad: vedeva nitidamente ogni faccia che incontrava, e aspirava il lezzo dolciastro della città, un odore misto di spazzatura, d’incenso, di carogne e di fiori. Mentre attraversavano un’ampia strada affollata, udì rullare un tamburo e vide una fila di donne e di uomini nudi, incatenati l’uno all’altro ai polsi e alla cintura, con i capelli arruffati che ricadevano sui volti: solo un’occhiata e poi scomparvero, mentre lui seguiva Lepre giù per una scalinata e in una stretta piazza, dove c’erano soltanto alcune donne che spettegolavano accanto alla fontana.
Sparviero raggiunse Lepre e gli posò una mano sulla spalla; e Lepre si scostò, come se l’avesse scottato, si ritrasse rabbrividendo e arretrò entro un portone massiccio. Poi si fermò, tremando, e li guardò con gli occhi ciechi di un animale braccato.
— Sei tu, l’uomo che chiamano Lepre? — chiese Sparviero; parlava con la sua vera voce, che era aspra ma aveva un’intonazione gentile. L’uomo non disse nulla: sembrava che non ascoltasse. — Voglio qualcosa da te — proseguì Sparviero. Neppure questa volta ottenne una risposta. — Sono disposto a pagare.
Una lenta reazione: — Avorio o oro?
— Oro.
— Quanto?
— Il mago conosce il valore dell’incantesimo.
La faccia di Lepre fremette e cambiò: si animò per un istante, così fuggevolmente che parve illuminarsi di un guizzo, e poi si rannuvolò di nuovo nell’apatia. — È tutto finito — disse. — Tutto finito. — Un attacco di tosse lo fece piegare su se stesso; sputò saliva nera. Quando si raddrizzò rimase passivo, tremante, come se avesse dimenticato ciò di cui stavano parlando.
Ancora una volta Arren lo scrutò, affascinato. L’angolo in cui si era incuneato era formato da due statue gigantesche che fiancheggiavano un portone, telamoni col collo piegato sotto il peso dell’architrave, col corpo muscoloso che emergeva solo in parte dal muro, come se avessero tentato di liberarsi dalla pietra per prendere vita e avessero fallito a metà del tentativo. La porta che sorvegliavano era imputridita sui cardini; l’edificio, che un tempo era stato un palazzo, era semidiroccato. Le facce, tetre e gonfie, erano scheggiate e incrostate di licheni. In mezzo a quelle figure poderose l’uomo chiamato Lepre stava inerte e fragile, con gli occhi bui come le finestre di una casa abbandonata. Alzò il braccio mutilato, parandolo tra sé e Sparviero, e piagnucolò: — Padrone, fa’ la carità a un povero invalido…
Il mago fece una smorfia di sofferenza o di vergogna; Arren intuì che l’uomo aveva intravisto il suo vero volto per un attimo, nonostante il camuffamento. Sparviero posò di nuovo la mano sulla spalla di Lepre e disse alcune parole, sottovoce, nella lingua dei maghi che Arren non comprendeva.
Ma Lepre comprese. Si aggrappò a Sparviero con l’unica mano e balbettò: — Tu puoi ancora parlare… parlare… Vieni con me, vieni…
Il mago rivolse una rapida occhiata ad Arren, poi annuì.
Scesero per le ripide viuzze in una delle valli, al di là dei tre colli di Città Hort. Le strade divennero più strette e buie e silenziose, via via che scendevano. Il cielo era una striscia pallida tra le gronde sporgenti, e i muri delle case che le fiancheggiavano erano umidi. In fondo alla gola scorreva un fiumiciattolo che puzzava come una fogna scoperta; tra le arcate dei ponti, le case si affollavano lungo le rive. Lepre svoltò nel buio androne di una di quelle case, e svanì come la fiamma di una candela. Lo seguirono.
Le scale, prive d’illuminazione, scricchiolavano e cedevano sotto i loro piedi. Arrivato in cima, Lepre spalancò una porta, e allora poterono vedere dov’erano: una stanza vuota, con un pagliericcio in un angolo e una finestra senza vetri dalle cui imposte filtrava un po’ di luce polverosa.
Lepre si girò verso Sparviero e gli afferrò di nuovo il braccio. Mosse le labbra. Infine disse, balbettando: — Drago… drago…
Sparviero ricambiò con fermezza il suo sguardo, senza dir nulla.
— Non posso parlare — aggiunse Lepre; lasciò il braccio di Sparviero e si accovacciò sul nudo pavimento, piangendo.
Il mago s’inginocchiò accanto a lui e gli parlò sottovoce nella Vecchia Lingua. Arren era rimasto in piedi accanto alla porta chiusa, con la mano sull’impugnatura del coltello. La luce grigia e la stanza polverosa, quelle due figure inginocchiate, lo strano suono sommesso della voce del mago che parlava nella lingua dei draghi: tutto si fondeva come in un sogno che non ha rapporti con quanto accade nella realtà e col trascorrere del tempo.
Lentamente, Lepre si rialzò. Si spolverò le ginocchia con l’unica mano, e nascose dietro la schiena il braccio mutilato. Si guardò intorno, guardò Arren: adesso i suoi occhi vedevano. Quasi subito distolse lo sguardo e si sedette sul pagliericcio. Arren rimase in piedi, di guardia; invece Sparviero, con la semplicità di coloro che hanno vissuto l’infanzia in una casa priva di mobili, si sedette a gambe incrociate sul nudo pavimento. — Dimmi come hai perso la tua arte e il linguaggio della tua arte.
Per lunghi istanti, Lepre non gli rispose. Cominciò a battersi il braccio mutilato sulla coscia, con un movimento inquieto e convulso, e infine disse, a raffiche di parole: — Mi hanno tagliato la mano. Non posso intessere incantesimi. Mi hanno tagliato la mano. Il sangue è sgorgato, si è coagulato.
— Ma questo è avvenuto dopo che avevi perso il potere, altrimenti non avrebbero potuto farlo.
— Il potere…
— Il potere sui venti e sulle onde e sugli uomini. Tu li chiamavi con i loro nomi e loro ti ubbidivano.
— Sì, ricordo che ero vivo — replicò Lepre, con voce bassa e rauca. — E conoscevo le parole e i nomi.
— E ora sei morto?
— No. Vivo. Vivo. Ma un tempo ero un drago… Non sono morto. Talvolta dormo. Il sonno è molto simile alla morte, tutti lo sanno. I morti camminano nei sogni, tutti lo sanno. Vengono da te vivi, e ti dicono tante cose. Escono dalla morte, nei sogni. C’è un modo. E se ti spingi abbastanza lontano, c’è sempre una via per ritornare. Puoi trovarla, se sai dove cercare. E se sei disposto a pagarne il prezzo.
— Qual è il prezzo? — La voce di Sparviero fluttuò nell’aria semibuia come l’ombra di una foglia cadente.
— La vita… Cos’altro, se no? Con cosa puoi comprare la vita, se non con la vita? — Lepre si dondolava avanti e indietro sul pagliericcio, con uno strano brillio astuto negli occhi. — Vedi — disse, — loro possono tagliarmi la mano. Possono tagliarmi la testa. Non ha importanza. Io so trovare la via del ritorno. So dove cercare. Là possono andare solo gli uomini del potere.
— I maghi, vuoi dire?
— Sì. — Lepre esitò: sembrò che tentasse di pronunciare la parola ma non ci riuscisse. — Uomini del potere — ripeté. — E devono… e devono rinunciare. Pagare.
Poi ammutolì, incupendosi, come se la parola «pagare» avesse finalmente suscitato in lui un’associazione di idee e si fosse accorto che stava regalando informazioni invece di venderle. Non sarebbe stato possibile ottenere altro da lui, neppure i balbettii e gli accenni alla «strada del ritorno», che Sparviero sembrava giudicare significativi; e poco dopo, il mago si alzò. — Ebbene, una mezza risposta non è migliore di una risposta completa — disse. — E lo stesso vale per il pagamento. — Con la sveltezza di un prestigiatore, gettò un pezzo d’oro sul pagliericcio, davanti a Lepre.
Lepre lo prese. Guardò l’oro, e Sparviero, e Arren, muovendo la testa a scatti. — Aspetta — balbettò. Appena la situazione cambiava, ne perdeva il controllo; e adesso brancolava disperato, alla ricerca di quanto avrebbe voluto dire. — Aspetta. Questa notte. Ho l’hazia.