Le tombe di Atuan - Le guin Ursula Kroeber 3 стр.


—  No.

—  Ma la maestra tessitrice potrebbe dirlo a Thar. E fra poco sarà l’ora dei Nove Canti.

—  Io rimango qui. E rimani anche tu.

—  Tu non sarai punita, ma io sì — osservò Penthe, in quel suo tono mite. Arha non replicò. Penthe sospirò, e rimase. Il sole scendeva tra la foschia, alta sopra le pianure. Lontano, lontano, sulla lunga pendenza graduale della terra, tintinnavano fievoli le campanelle delle pecore e gli agnelli belavano. Il vento primaverile soffiava a raffiche deboli e asciutte, portando un profumo dolce.

I Nove Canti erano quasi terminati, quando le due fanciulle rientrarono. Mebbeth le aveva viste sedute sul «muro degli uomini» e l’aveva riferito alla sua superiore, Kossil, la somma sacerdotessa del re-dio.

Kossil aveva il passo pesante e il volto pesante. Impassibile nella faccia e nella voce, parlò alle due ragazzine e disse loro di seguirla. Le condusse lungo i corridoi di pietra della Casa Grande, fuori dalla porta, su per il pendio fino al tempio di Atwah e Wuluah. Là parlò con la somma sacerdotessa di quel tempio, Thar, alta e asciutta e scarna come la tibia di un cervo.

Kossil disse a Penthe: — Togliti la veste.

Frustò la ragazzina con un fascio di canne, che tagliavano un po’ la pelle. Penthe subì paziente, con lacrime silenziose. Venne rimandata alla tessitura senza cena, e anche il giorno dopo sarebbe rimasta senza cibo. — Se verrai sorpresa di nuovo ad arrampicarti sul muro degli uomini — disse Kossil, — ti accadrà di peggio. Hai capito, Penthe? — La voce di Kossil era sommessa, ma non gentile. Penthe disse «sì» e sgattaiolò via, tutta china, rabbrividendo quando la pesante stoffa della veste strusciava sulle ferite alla schiena.

Arha era rimasta accanto a Thar, ad assistere alla fustigazione. Ora guardò Kossil che puliva le canne.

Thar le disse: — È disdicevole che tu ti faccia vedere ad arrampicarti sui muri e a correre con le altre ragazzine. Tu sei Arha.

Lei restò chiusa in un cupo silenzio.

—  È meglio che tu faccia soltanto ciò che devi fare. Tu sei Arha.

Per un istante la bambina levò gli occhi verso il volto di Thar e poi verso quello di Kossil, e nel suo sguardo c’era una terribile profondità di rabbia o di odio. Ma la sacerdotessa scarna non si mostrò per nulla sgomenta: si tese un poco in avanti e confermò, quasi bisbigliando: — Tu sei Arha. Non è rimasto nulla. Tutto è stato divorato.

—  Tutto è stato divorato — ripeté Arha, come aveva ripetuto ogni giorno, per tutti i giorni della sua vita, fin da quando aveva sei anni.

Thar piegò leggermente la testa; e anche Kossil fece altrettanto, mentre riponeva la frusta. Arha non si inchinò ma si voltò docile e uscì.

Dopo la cena di patate e di cipolle primaverili, consumata in silenzio nel refettorio stretto e buio, dopo il canto degli inni serali e la chiusura delle porte con le parole sacre, e il breve Rituale dell’Ineffabile, i compiti della giornata si conclusero. Ora le ragazze potevano salire nel dormitorio, e giocare con i dadi e i fuscelli, per tutto il tempo che avrebbe impiegato a consumarsi l’unica torcia di canna, e poi bisbigliare al buio, da letto a letto. Arha si avviò attraverso i cortili e i pendii del Luogo, come faceva ogni sera, verso la Casa Piccola dove dormiva sola.

Il vento della notte era dolce. Le stelle della primavera brillavano fitte, come distese di margheritine nei prati a primavera, come lo scintillio della luce sul mare d’aprile. Ma Arha non ricordava né i prati né il mare. Non alzò lo sguardo.

—  Ehilà, piccola!

—  Manan — disse lei, con indifferenza.

La grossa ombra si avvicinò scalpicciando, e la luce delle stelle brillò sulla testa calva.

—  Ti hanno punita.

—  Non possono punirmi.

—  No… È così…

—  Non possono punirmi. Non osano.

Manan stava lì, con le grosse mani penzolanti, massiccio, indistinto. Aveva l’odore delle cipolle selvatiche, e il sentore di sudore e di salvia delle vecchie vesti nere che erano strappate all’orlo e troppo corte per lui.

—  Non possono toccarmi. Io sono Arha — disse lei con voce stridula e rabbiosa, e scoppiò in pianto.

Le grandi mani pazienti si alzarono, l’attirarono, la strinsero dolcemente, le accarezzarono le trecce. — Su, su. Piccolo favo di miele, piccola mia… — Lei udiva il rauco mormorio nella profonda cavità del petto di Manan, e gli stava aggrappata. Le lacrime finirono presto di scorrere, ma Arha restò stretta a lui come se non riuscisse a reggersi in piedi.

—  Povera piccola — disse Manan, e la sollevò e la portò fin sulla soglia della casa dove dormiva sola. La posò.

—  Tutto bene adesso, piccola?

Lei annuì, si voltò, ed entrò nella casa buia.

I PRIGIONIERI

I passi di Kossil risuonarono lungo il corridoio della Casa Piccola, lenti e decisi. L’alta figura pesante riempì il vano della porta: parve rimpicciolire quando la sacerdotessa s’inchinò piegando un ginocchio sul pavimento, crebbe di nuovo quando si rialzò in tutta la sua statura.

—  Padrona.

—  Che c’è, Kossil?

—  Finora mi è stato permesso di occuparmi di certe cose riguardanti il dominio dei Senza Nome. Se così ti piace, è ormai tempo che tu apprenda, e veda, e ti addossi queste cose, che non hai ancora rammentato nella vita attuale.

La ragazza era seduta nella sua stanza priva di finestre, come se meditasse; ma in realtà non faceva nulla, e quasi non pensava. Trascorse qualche momento prima che l’espressione cupa e altezzosa del suo volto cambiasse. Tuttavia cambiò, sebbene lei cercasse di dissimularlo. Disse, con una certa timidezza: — Il labirinto?

—  Non entreremo nel labirinto. Ma sarà necessario attraversare la cripta.

Nella voce di Kossil c’era un tono che poteva essere paura, e poteva essere una finzione di paura, voluta per spaventare Arha. La ragazza si alzò, senza fretta, e disse in tono indifferente: — Sta bene. — Ma in cuor suo, mentre seguiva la pesante figura della sacerdotessa del re-dio, esultava: Finalmente! Finalmente! Vedrò finalmente il mio dominio!

Aveva quindici anni. Da un anno era diventata donna e aveva assunto nel contempo i pieni poteri di Unica Sacerdotessa delle Tombe di Atuan, somma tra le somme sacerdotesse delle Terre di Kargad, colei alla quale neppure il re-dio poteva dare ordini. Adesso tutti piegavano il ginocchio davanti a lei, perfino le austere Thar e Kossil. Tutte le parlavano con elaborata deferenza. Ma non era cambiato nulla. Non accadeva nulla. Dopo le cerimonie della sua consacrazione, i giorni avevano ripreso a scorrere come sempre. C’era la lana da filare, la stoffa nera da tessere, il grano da macinare, i riti da compiere; c’erano i Nove Canti da cantare ogni sera, le porte da benedire, le Pietre da aspergere di sangue di capro due volte l’anno, le danze del novilunio da eseguire davanti al trono vuoto. E così era trascorso l’intero anno, esattamente com’erano trascorsi gli altri anni; e nello stesso modo dovevano forse passare tutti gli anni della sua vita?

Qualche volta la noia era così intensa che lei la sentiva come un terrore: l’afferrava alla gola. Non molto tempo prima, era stata costretta a parlarne. Doveva parlare, si era detta, o sarebbe impazzita. E aveva parlato a Manan. L’orgoglio le impediva di confidarsi con le altre ragazze, e la prudenza la tratteneva dal confessarsi con le donne più anziane: Manan invece non era nulla, un vecchio sciocco fedele, e non aveva importanza ciò che gli diceva. E con suo grande stupore, lui aveva avuto una risposta da darle.

—  Molto tempo fa — le disse, — lo sai, piccola, prima che le nostre quattro terre si unissero in un unico impero, prima che un re-dio regnasse su tutti noi, c’erano moltissimi reucci e principi e capi. Erano sempre in dissidio tra loro. E allora venivano qui per risolvere i loro contrasti. Ecco cosa capitava: giungevano dalla nostra terra, Atuan, e da Karego-At, e da Atnini, e perfino da Hur-at-Hur, tutti i capi e i principi, con i loro servitori e i loro eserciti; e domandavano cosa dovevano fare. E allora la sacerdotessa si recava davanti al trono vuoto, e riferiva loro il giudizio dei Senza Nome. Ebbene, questo avveniva tanto tempo fa. Dopo molti anni, i re-sacerdoti divennero signori di tutto Karego-At, e ben presto s’impadronirono di Atuan; e adesso, da quattro o cinque generazioni, i re-dèi regnano sulle Quattro Terre, e le hanno trasformate in un impero. Perciò le cose sono cambiate. Il re-dio può domare i capi indisciplinati e risolvere da sé i dissidi. E poiché è un dio, capisci, non è necessario che consulti spesso i Senza Nome.

Arha tacque, riflettendo. Il tempo non significava molto, lì nel deserto, sotto le Pietre immutabili, quando si conduceva un’esistenza che era sempre stata vissuta nello stesso modo fin dall’inizio del mondo. Lei non era abituata a pensare ai mutamenti, alle cose vecchie che morivano, alle nuove cose che si affermavano. La turbava, vedere la realtà in quella prospettiva. — I poteri del re-dio sono molto inferiori ai poteri di Coloro che io servo — disse, aggrottando la fronte.

—  Senza dubbio… Senza dubbio… Ma questo non puoi andare a dirlo a un dio, mio piccolo favo di miele. E neppure alla sua sacerdotessa.

E Arha, vedendo lo scintillio di quegli occhietti bruni, pensò a Kossil, somma sacerdotessa del re-dio, che lei aveva temuto fin dal giorno in cui era giunta nel Luogo: e comprese ciò che intendeva dire Manan.

—  Ma il re-dio, e la sua gente, stanno trascurando il culto delle Tombe. Non viene mai nessuno.

—  Be’, il re-dio invia qui i prigionieri per i sacrifici. Questo non lo trascura. E non dimentica neppure i doni dovuti ai Senza Nome.

—  I doni! Il suo tempio viene ridipinto ogni anno, ci sono più di cento libbre d’oro sull’altare, e nelle lampade brucia l’essenza di rosa! E guarda il palazzo del trono: falle nel tetto, crepe nella cupola, muri pieni di topi e di gufi e di pipistrelli… Eppure durerà più del re-dio e di tutti i suoi templi e di tutti i re che verranno dopo di lui. Esisteva prima di lui, e quando quelli saranno tutti scomparsi sarà ancora qui. È il centro delle cose.

—  È il centro delle cose.

—  Ci sono grandi ricchezze: Thar me ne parla, qualche volta. Abbastanza per riempire dieci volte il tempio del re-dio. Oro e trofei donati secoli fa, cento generazioni addietro, chissà quando. Sono tutti rinchiusi nelle fosse e nelle copte, sottoterra. Non vogliono ancora condurmi là, mi fanno aspettare e aspettare. Ma io so com’è. Ci sono camere sotto la sala, sotto l’intero Luogo, sotto il punto dove stiamo adesso. C’è un grande meandro di gallerie, un labirinto. È come una grande città buia, sotto la collina. Piena d’oro, e di spade di antichi eroi, e di vecchie corone, e di ossa e di anni e di silenzio.

Arha aveva parlato come in estasi, rapita. Manan la scrutava. La sua faccia pesante non esprimeva mai altro che una solida e prudente mestizia, e adesso era più triste che mai. — Bene, e tu sei la padrona di tutto questo — disse. — Il silenzio e la tenebra.

—  Sì. Ma loro non vogliono mostrarmi nulla: soltanto le camere al pianterreno, dietro il trono. Non mi hanno neppure mostrato gli ingressi dei sotterranei: si limitano a parlottarne, qualche volta. Mi negano il mio dominio! Perché continuano a farmi aspettare?

—  Tu sei giovane. E forse — disse Manan con quella sua roca voce di contralto — forse loro hanno paura, piccola. Non è il loro dominio, dopotutto: è il tuo. Loro sono in pericolo, quando vi penetrano. Non c’è mortale che non tema i Senza Nome.

Arha non disse nulla, ma i suoi occhi lampeggiarono. Ancora una volta, Manan le aveva mostrato un modo nuovo di vedere le cose. Thar e Kossil le erano sempre apparse così formidabili, così fredde, così forti, che non aveva mai immaginato che potessero avere paura. Eppure Manan aveva ragione. Temevano certi luoghi, i poteri di cui lei era parte, i poteri cui apparteneva. Avevano paura di addentrarsi nei luoghi tenebrosi, paura di essere divorate.

E ora, mentre scendevano insieme a Kossil la scalinata della Casa Piccola e il ripido sentiero gradinato verso il palazzo del trono, ricordò quel colloquio con Manan, ed esultò di nuovo. Dovunque la conducessero, qualunque cosa le mostrassero, lei non avrebbe avuto paura. Avrebbe saputo cosa fare.

Kossil, che era un poco più indietro di lei sul sentiero, parlò: — Uno dei doveri della mia padrona, come lei ben sa, è di sacrificare certi prigionieri, criminali di nobile nascita, che col sacrilegio o il tradimento hanno peccato contro il nostro signore il re-dio.

—  O contro i Senza Nome — disse Arha.

—  In verità è così. Ora, non è giusto che la divorata debba compiere tale dovere finché è ancora bambina. Ma la mia padrona non è più una bambina. Nella stanza delle catene ci sono i prigionieri, inviati un mese fa, per grazia del nostro signore il re-dio, dalla sua città di Awabath.

—  Non sapevo che fossero arrivati i prigionieri. Perché non sono stata informata?

—  I prigionieri vengono portati di notte, e in segreto, per la via prescritta anticamente dai rituali delle tombe. È la via segreta che la mia padrona seguirà se prenderà il sentiero che conduce lungo il muro.

Arha si allontanò dal sentiero per seguire il grande muro di pietra che cingeva le tombe, dietro il palazzo a cupola. I massi che lo formavano erano enormi: il più piccolo pesava più di un uomo, e i più grandi avevano le dimensioni di carri. Sebbene non fossero stati levigati, erano adattati e congiunti con estrema cura. In certi tratti, tuttavia, la sommità del muro era crollata, e i massi giacevano in mucchi informi. Solo un tempo lunghissimo poteva riuscire a tanto: i giorni roventi e le gelide notti dei secoli nel deserto, i millenari e impercettibili movimenti delle stesse colline.

—  È facilissimo scalare il muro delle tombe — disse Arha, mentre lo costeggiavano.

—  Non abbiamo abbastanza uomini per ricostruirlo.

—  Abbiamo pure abbastanza uomini per custodirlo.

—  Soltanto schiavi. Non possiamo fidarci, di loro.

—  Possiamo fidarci, se hanno paura. Si stabilisca che la punizione sia per loro la stessa comminata all’estraneo cui permettessero di porre piede sul sacro suolo all’interno del muro.

—  Qual è la punizione? — Kossil non lo chiese per conoscere la risposta. Era stata lei stessa a insegnarla ad Arha, molto tempo addietro.

—  Essere decapitato davanti al trono.

—  È la volontà della mia padrona che venga posta una guardia al muro delle tombe?

—  Sì — rispose la ragazza. Nelle lunghe maniche nere, le sue dita si contrassero euforicamente. Sapeva che Kossil non avrebbe desiderato assegnare neppure uno schiavo al compito di sorvegliare il muro, e per la verità era un dovere inutile: quando mai veniva lì qualche estraneo? Non era probabile che qualcuno capitasse a meno di un miglio dal Luogo, per caso o volutamente, senza essere avvistato; e di certo non sarebbe riuscito ad avvicinarsi alle tombe. Ma una guardia era un onore dovuto, e Kossil non poteva opporsi. Doveva ubbidire ad Arha.

—  Qui — disse la sua fredda voce.

Arha si fermò. Aveva percorso spesso quel sentiero, intorno al muro delle tombe, e lo conosceva come conosceva ogni spanna del Luogo, ogni sasso e ogni roveto e ogni cardo. Il grande muro di roccia si innalzava alla sua sinistra, tre volte più alto di lei; sulla destra la collina digradava in una valle arida e poco profonda, che presto risaliva verso la catena occidentale. Girò lo sguardo sul terreno, tutt’intorno, e non vide nulla che non avesse già visto.

—  Sotto le rocce rosse, padrona.

Poche braccia più in basso, sul pendio, uno spuntone di lava rossa formava una scala o un piccolo strapiombo nella collina. Quando Arha scese e si fermò davanti alle rocce, si accorse che sembravano una porta rudimentale, alta poco più di un braccio.

—  Cosa devo fare?

Aveva imparato ormai da molto tempo che nei luoghi sacri è inutile cercare di aprire una porta se non si sa come si fa ad aprirla.

—  La mia padrona ha tutte le chiavi dei luoghi tenebrosi.

Fin dai riti per la sua maggiore età, Arha portava alla cintura un anello di ferro cui erano appesi un pugnaletto e tredici chiavi, alcune lunghe e pesanti e altre minuscole come ami da pesca. Alzò l’anello e allargò le chiavi. — Quella — disse Kossil, indicandola, e poi posò il tozzo indice su una crepa tra due rosse superfici di pietra corrosa.

La chiave, una lunga asta di ferro con due guardie ornate, si inserì nella crepa. Arha la girò verso sinistra, usando entrambe le mani perché era rigida: tuttavia girò senza difficoltà.

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