— E ora?
— Insieme…
Spinsero insieme la pietra scabra a sinistra della serratura. Pesantemente, ma senza intoppi e con pochissimo rumore, una sezione irregolare della roccia rossa rientrò, mostrando una stretta fenditura. All’interno c’era la tenebra.
Arha si chinò ed entrò.
Kossil, che era pesante e pesantemente vestita, stentò a insinuarsi attraverso quell’apertura. Appena fu entrata si appoggiò con le spalle alla porta e la chiuse, premendola.
Era assolutamente buio. Non c’era neppure un filo di luce. L’oscurità sembrava opprimere gli occhi aperti, come feltro bagnato.
Stavano chine, quasi piegate in due, perché l’andito dove si trovavano era alto poco più di un braccio e così stretto che le mani brancolanti di Arha toccavano la pietra umida a destra e a sinistra.
— Hai portato una lampada?
Bisbigliava, come succede quando si è al buio.
— Non ne ho portate — rispose Kossil, dietro di lei. Anche la voce di Kossil era bassa; ma aveva un suono strano, come se la donna stesse sorridendo. Kossil non sorrideva mai. Il cuore di Arha diede un tuffo: il sangue le pulsò nella gola. Si disse, rabbiosamente: questo è il mio posto, e non avrò paura.
Non disse nulla, a voce alta. Si avviò. C’era una sola direzione possibile: il passaggio si addentrava nella collina, in discesa.
Kossil la seguì, respirando pesantemente, e le sue vesti frusciavano contro la roccia e la terra.
All’improvviso, la volta si alzò; Arha poté raddrizzarsi, e quando tese le mani non sentì più le pareti. L’aria, che prima era viziata e sapeva di terra, adesso le sfiorava il volto con un’umidità più fresca, e il suo lieve movimento dava la sensazione di una grande ampiezza. Arha mosse qualche passo, cautamente, nella tenebra assoluta. Un ciottolo, scivolando sotto il suo sandalo, colpì un altro ciottolo, e quel suono minutissimo destò gli echi, molti echi, remoti, ancora più remoti. La caverna doveva essere immensa, alta e ampia, e tuttavia non vuota: e qualcosa in quella tenebra (superfici di oggetti invisibili, o pareti divisorie) spezzava l’eco in mille frammenti.
— Qui dovremmo essere sotto le Pietre — mormorò la ragazza; e il suo bisbiglio corse nella tenebra cavernosa e si sfilacciò in fili di suono esili come ragnatele, che aderirono all’udito per molto tempo.
— Sì. Questa è la cripta. Va’ avanti. Non posso rimanere qui. Segui il muro a sinistra. Supera tre aperture.
Il respiro di Kossil era sibilante (e sibilavano anche i minuscoli echi). Aveva paura, aveva veramente paura. Non amava essere là, tra i Senza Nome, nelle loro tombe, nelle loro grotte, nella tenebra. Non era il suo posto, quello.
— Verrò qui con una torcia — disse Arha, orientandosi lungo la parete della grotta al tocco delle dita, sorprendendosi delle forme strane della roccia, incavi e protuberanze e curve finissime e spigoli, qua irregolari come un merletto, là levigati come il bronzo: senza dubbio un bassorilievo. Forse l’intera caverna era opera degli scultori di un lontano passato?
— Qui la luce è proibita. — Il sussurro di Kossil era tagliente. E mentre Kossil pronunciava queste parole, Arha comprese che doveva essere così. Quella era la patria della tenebra, il centro della notte.
Per tre volte le sue dita incontrarono una breccia nella complessa oscurità rocciosa. La terza volta cercò di misurare a tastoni l’altezza e l’ampiezza del varco, e vi entrò. Kossil la seguì.
In quella galleria, che adesso saliva lievemente, passarono davanti a un’apertura sulla sinistra, e poi, a una diramazione, svoltarono a destra: sempre a tentoni, brancolando nella tenebra e nel silenzio sotterranei. In un passaggio come quello, era necessario protendere quasi ininterrottamente le mani per toccare le pareti laterali, per non farsi sfuggire una delle aperture che bisognava contare, o la biforcazione che doveva essere seguita. Il tatto era l’unica guida: non era possibile vedere la via, bisognava seguirla con la mano.
— Questo è il labirinto?
— No. Questo è il meandro minore, situato sotto il trono.
— Dov’è l’ingresso del labirinto?
Ad Arha piaceva quel gioco al buio: e adesso aspirava a un enigma più grande.
— La seconda apertura che abbiamo superato nella cripta. Adesso cerca una porta sulla destra, una porta di legno. Forse l’abbiamo già passata…
Arha udì le mani di Kossil che brancolavano inquiete lungo la parete, strusciando contro la roccia scabra. Lei continuava a tenere i polpastrelli posati leggermente sulla pietra, e dopo un istante sentì la liscia grana del legno. Spinse, e la porta si aprì cigolando, senza difficoltà. Lei rimase immobile per un momento, abbacinata dalla luce.
Entrarono in una grande camera bassa, dalle pareti di pietra intagliata, illuminata da un’unica torcia fumigante appesa a una catena. L’aria era ammorbata dal fumo della torcia, che non aveva sfogo. Gli occhi di Arha presero a bruciare e lacrimare.
— Dove sono i prigionieri?
— Là.
Infine lei si accorse che i tre mucchi informi, in fondo alla camera, erano uomini.
— La porta non è chiusa a chiave. Non ci sono guardie?
— Non è necessario.
Lei avanzò un poco di più nella camera, esitante, scrutando nella fumosa foschia. I prigionieri erano assicurati per le caviglie e per un polso a grandi anelli fissati nella roccia della parete. Se uno di loro voleva distendersi, il braccio vincolato rimaneva appeso alla catena. I capelli e la barba avevano formato un groviglio che congiurava con le ombre per nascondere i loro volti. Uno era semisdraiato, gli altri due stavano accovacciati. Erano nudi. L’odore che esalavano era ancora più forte del fetore del fumo.
Uno dei tre sembrava intento a scrutare Arha; le parve di scorgere lo scintillio degli occhi, ma non ne era sicura. Gli altri non si erano mossi, non avevano alzato la testa.
Arha si distolse. — Non sono più uomini — disse.
— Non lo sono mai stati. Erano demoni, spiriti di belve, che complottavano contro la sacra vita del re-dio! — Gli occhi di Kossil brillavano nella luce rossastra della torcia.
Arha guardò di nuovo i prigionieri, turbata e incuriosita. — Com’è possibile che un uomo aggredisca un dio? Come è avvenuto? Tu: come hai osato attaccare un dio vivente?
L’uomo la fissò attraverso il nero cespuglio dei capelli, ma non disse nulla.
— Hanno tagliato loro la lingua prima che li mandassero qui da Awabath — disse Kossil. — Non parlare con loro, padrona. Sono immondi. Sono tuoi, ma non perché tu parli con loro o li guardi o pensi a loro. Sono tuoi perché tu li dia ai Senza Nome.
— Come devono essere sacrificati?
Arha non guardava i prigionieri. Era girata verso Kossil, traendo forza da quel corpo massiccio e da quella voce fredda. Si sentiva stordita, e il fetore del fumo e del sudiciume le dava la nausea; eppure sembrava che pensasse e parlasse con calma perfetta. Non l’aveva già fatto molte altre volte, in passato?
— La Sacerdotessa delle Tombe sa meglio di chiunque altro quale morte piacerà ai suoi Padroni, e spetta a lei scegliere. Ci sono moltissimi modi.
— Che Gobar, il capitano delle guardie, tagli loro la testa. E il sangue verrà versato davanti al trono.
— Come se fosse un sacrificio di capri? — Kossil pareva deridere la sua scarsa immaginazione. Arha restò muta. Kossil proseguì: — Inoltre, Gobar è un uomo. Nessun uomo può entrare nei luoghi tenebrosi delle tombe, e sicuramente la mia padrona lo ricorda. Se entrerà, non potrà uscire…
— Chi li ha portati qui? Chi dà loro da mangiare?
— I guardiani che servono il mio tempio, Duby e Uahto; sono eunuchi, e possono entrare qui al servizio dei Senza Nome, come posso farlo io. I soldati del re-dio hanno lasciato i prigionieri legati all’esterno del muro, e io e i guardiani li abbiamo portati qui attraverso la Porta dei Prigionieri, la porta nelle rocce rosse. È sempre stato cosi. Il cibo e l’acqua vengono calati da una botola, in una delle stanze dietro il trono.
Arha alzò la testa e vide, accanto alla catena cui era appesa la torcia, un riquadro di legno incastonato nella volta di pietra. Era troppo piccolo perché un uomo potesse passare: ma una corda poteva calare esattamente alla portata del prigioniero centrale. Lei si affrettò a distogliere lo sguardo.
— E allora, che non gli si portino più né cibo né acqua. Che la torcia si spenga.
Kossil s’inchinò. — E i cadaveri, quando saranno morti?
— Dubi e Uahto li seppelliranno nella grande caverna che abbiamo attraversato, la cripta — disse la ragazza, e la sua voce divenne acuta e concitata. — Dovranno farlo al buio. I miei Padroni divoreranno i corpi.
— Sarà fatto.
— Così va bene, Kossil?
— Così va bene, padrona.
— Allora andiamo — disse Arha, in toni striduli. Si voltò e si affrettò a raggiungere la porta lignea e a uscire dalla Camera delle Catene, nell’oscurità della galleria. Le parve dolce e pacifica come una notte senza stelle, silente, senza luce né vita. Si immerse in quella tenebra pulita e l’attraversò, come un nuotatore che si muove nell’acqua. Kossil si affrettò a seguirla, ma rimase indietro, ansimante, muovendosi pesantemente. Senza esitare, Arha seguì le svolte omesse e scelte all’andata, costeggiò l’immensa cripta echeggiante, e procedette, china, nell’ultimo lungo corridoio fino alla porta chiusa di pietra. Si acquattò e cercò a tentoni la lunga chiave appesa all’anello che portava alla cintura. La trovò, ma non riuscì a rintracciare la serratura. Non c’era un solo puntolino di luce nella parete invisibile che le stava davanti. Le sue dita brancolarono, cercando una serratura o un chiavistello o una maniglia, e non trovarono nulla. Dove andava inserita la chiave? Come poteva uscire?
— Padrona!
La voce di Kossil, ingigantita dagli echi, sibilò e tuonò lontano, dietro di lei.
— Padrona, la porta non si aprirà dall’interno. Non si può uscire. Non si può tornare.
Arha si rannicchinò contro la roccia. Non disse nulla.
— Arha!
— Sono qui.
— Vieni!
Lei andò, trascinandosi carponi lungo il corridoio, come un cane, fino alle gonne di Kossil.
— Sulla destra. Affrettati! Io non devo indugiare qui. Non è il mio posto. Seguimi.
Arha si alzò in piedi e si aggrappò alle vesti di Kossil. Avanzarono, seguendo per un lungo tratto sulla destra la parete stranamente scolpita della caverna, e poi entrarono in una breccia nera nell’oscurità. Adesso salivano, lungo le gallerie, su per le scale. La ragazza si teneva ancora aggrappata alle vesti della donna. Aveva gli occhi chiusi.
C’era una luce, rossa attraverso le sue palpebre. Pensò che fosse ancora la camera piena di fumo e rischiarata dalla torcia, e non riaprì gli occhi. Ma l’aria aveva un odore dolciastro, asciutto e muffito, un odore familiare; e i suoi piedi erano su una scala ripida, quasi una scala a pioli. Lasciò la veste di Kossil e guardò. Sopra la sua testa c’era una botola aperta. La varcò, seguendo Kossil. Si trovò in una stanza che conosceva, una piccola cella di pietra che conteneva un paio di scrigni e di casse di ferro, nel dedalo delle camere dietro la sala del trono. La luce del giorno brillava grigia e fioca nel corridoio oltre la soglia.
— L’altra, la Porta dei Prigionieri, conduce soltanto nelle gallerie. Non conduce fuori. Questa è l’unica via d’uscita. Se ce n’è un’altra, io non la conosco, e non la conosce neppure Thar. Tu dovresti ricordarla, se c!è. Ma non credo che esista. — Kossil parlava ancora a bassa voce, e con una sfumatura sprezzante. Il suo volto pesante, entro il cappuccio nero, era pallido e madido di sudore.
— Non ricordo le svolte per trovare questa via d’uscita.
— Te le dirò io. Una volta sola. Devi ricordarle. La prossima volta non verrò con te. Questo non è il mio posto. Dovrai andare sola.
La ragazza annuì. Levò gli occhi verso il volto della donna e pensò che era strano: pallido per la paura dominata a stento e tuttavia trionfante, come se Kossil si compiacesse della propria debolezza.
— Dopo questa volta, andrò da sola — disse; e poi, mentre cercava di voltarsi per allontanarsi da Kossil, sentì che le gambe cedevano, e vide la stanza roteare. Cadde svenuta, in un mucchietto nero, ai piedi della sacerdotessa.
— Imparerai — disse Kossil, immobile, respirando ancora pesantemente. — Imparerai.
SOGNI E LEGGENDE
Per diversi giorni, Arha non si sentì bene. La curarono come se avesse la febbre. Lei restava a letto, o sedeva nella mite luce autunnale sotto il portico della Casa Piccola, e guardava le colline a occidente. Si sentiva debole e sciocca. Le tornavano sempre alla mente le stesse idee. Si vergognava di essere svenuta. Non era stata messa una guardia al muro delle tombe, ma ormai lei non avrebbe più osato chiederlo a Kossil. Non voleva vedere Kossil: mai più. Perché si vergognava di essere svenuta.
Spesso, mentre se ne stava al sole, pensava come si sarebbe comportata la prossima volta che si fosse addentrata nei luoghi tenebrosi sotto la collina. Pensò molte volte alla morte che avrebbe dovuto comandare per i prigionieri successivi: più elaborata, più adeguata ai rituali del trono vuoto.
Ogni notte, al buio, si svegliava urlando: — Non sono ancora morti! Stanno ancora morendo!
Sognava molto. Sognava di cucinare, grandi paioli colmi di saporita pappa di cereali, e di versare tutto in una buca nel terreno. Sognava di dover portare un bacile pieno d’acqua, un bacile fondo, attraverso l’oscurità, a qualcuno che aveva sete. Non riusciva mai a raggiungerlo. Si svegliava, e anche lei aveva sete, ma non si alzava per andare a bere. Giaceva sveglia, con gli occhi spalancati, nella stanza senza finestre.
Una mattina, Penthe venne a trovarla. Dal portico, Arha la vide avvicinarsi alla Casa Piccola con un’aria disinvolta e sfaccendata, come se fosse capitata da quelle parti per puro caso. Se Arha non avesse parlato, non avrebbe salito i gradini. Ma Arha si sentiva sola, e le parlò.
Penthe le fece il profondo inchino di prammatica per tutti coloro che si avvicinavano alla Sacerdotessa delle Tombe, e poi si lasciò cadere sui gradini, ai piedi di Arha, ed emise un suono come fiúuh! Era diventava molto alta e grassoccia; bastava un nulla per farla diventare rossa come una ciliegia, e adesso era rossa per la camminata.
— Ho sentito che eri malata. Ti ho portato qualche mela. — Dalle pieghe della voluminosa veste nera estrasse all’improvviso una rete di giunco che conteneva sette o otto mele gialle e perfette. Adesso era consacrata al servizio del re-dio, e serviva nel suo tempio agli ordini di Kossil; ma non era ancora sacerdotessa, e studiava ancora ed eseguiva i lavori insieme alle novizie. — Quest’anno io e Poppe abbiamo diviso le mele, e io ho conservato le migliori. Quelle davvero buone le fanno sempre seccare. Naturalmente così si conservano di più, ma mi sembra uno spreco. Non sono belle?
Arha toccò la buccia di raso d’oro pallido delle mele, guardò i ramoscelli da cui pendevano ancora le delicate foglie brune. — Sono belle.
— Prendine una — disse Penthe.
— Adesso no. Prendila tu.
Penthe scelse la più piccola, per deferenza, e la mangiò in dieci abili morsi succosi e interessati.
— Mangerei tutto il giorno — disse. — Non mi sento mai sazia. Vorrei diventare cuoca, invece che sacerdotessa. Saprei cucinare meglio di quella vecchia spilorcia di Nathabba, e poi potrei leccare le pentole… Oh, hai saputo di Munith? Doveva lucidare quei vasi di bronzo dove tengono l’olio di rose: sai, quelle anfore alte e sottili col tappo. E lei ha pensato di dover pulire anche l’interno, e così ha infilato dentro la mano, avvolta in uno straccio, sai, e poi non è riuscita a tirarla fuori. Si è sforzata tanto che la mano si è tutta gonfiata al polso, sai, e così è rimasta davvero bloccata. E si è messa a galoppare per i dormitori, urlando: «Non riesco a tirarla fuori! Non riesco a tirarla fuori!». E ormai Punti è diventato così sordo che ha creduto che fosse scoppiato un incendio, e si è messo a strillare perché gli altri custodi venissero a portare in salvo le novizie. E Uahto stava mungendo ed è uscito di corsa dal recinto per vedere cos’era successo, e ha lasciato il cancelletto aperto, e tutte le capre sono scappate e si sono precipitate nel cortile e si sono imbattute in Punti e nei guardiani e nelle bambine, e Munith era lì che agitava l’anfora in preda all’isterismo, e tutti correvano di qua e di là. Poi Kossil è scesa dal tempio e ha detto: «Cosa succede? Cosa succede?».