Gli osservatori - Силверберг Роберт 14 стр.


Glair aggrottò la fronte. — Li amavo entrambi, sì. E potrei ancora amare qualcun altro. Vieni qui, Tom, e smettila di cercare il modo di renderti infelice.

Falkner mosse qualche passo incerto verso Glair, pensando a due uomini e una donna a bordo di un disco volante, e dicendosi che non erano uomini e lei non era una donna. Fu sorpreso di scoprire quanto fosse forte la gelosia che lo attanagliava; poi si domandò a che cosa sarebbe potuto assomigliare un rapporto sessuale con un’aliena. E fu colto dalle vertigini.

Glair sollevò lo sguardo. I suoi occhi erano freschi ed invitanti.

— Toglimi di dosso questo stupido pezzo di stoffa, Tom. Te ne prego.

Le sfilò la giacca del pigiama da sopra la testa, scompigliandole i capelli dorati. I suoi seni erano sodi ed eretti, e bianchissimi; rivelavano un disprezzo quasi totale per la forza di gravità. Era il tipo di seni che si poteva vedere sulle ragazze-calendario, ma mai su una donna in carne ed ossa: misteriosamente sodi, misteriosamente accostati, misteriosamente prominenti, l’immagine che un ragazzo di sedici anni può avere del seno ideale di una donna. Glair scostò le coperte. Falkner abbassò lo sguardo e si ricordò che tutto il suo corpo era un’imitazione, un rivestimento sintetico esteriore per qualcosa di tremendamente strano. Poteva avere i seni di Afrodite e le cosce di Diana, poteva avere qualsiasi perfezione femminile desiderasse, perché si era fatta costruire quel corpo in base ai propri desideri. La sua carne sembrava proprio carne, e dentro c’erano nervi, ossa e condotti per il sangue, ma nervi, ossa e sangue erano soltanto prodotti di laboratorio dotati di vita artificiale.

All’interno di quella stupenda, irreale creatura… chi avrebbe potuto dire quale orrore si annidava là dentro?

Eppure, si disse Falkner, quale donna umana era bella sotto la pelle? La massa fumante di intestini aggrovigliati, i tubi e i bulbi e i noduli tortuosi, il teschio sogghignante sotto il volto bellissimo… tutti abbiamo i nostri incubi sotto la pelle, ed era stupido stare a sottilizzare su quello di Glair.

I suoi abiti caddero a terra, mentre lei lo traeva a sé.

— Le tue gambe… — fece Falkner.

— Stanno benissimo. Non pensarci e fammi vedere come fanno l’amore i terrestri.

La toccò. — Puoi… cioè, tu sai…

— L’anatomia c’è tutta — lo rassicurò Glair. — Non gli organi interni, ma non dovrebbe avere molta importanza. Stringimi, Tom. Insegnami. Amami.

Con facilità, con più facilità di quanto aveva immaginato che potesse accadere, la abbracciò, e sentì la carnagione fredda e morbida di Glair contro la sua pelle sudata, e l’accarezzò proprio come se fosse reale e non un sogno. Disperatamente la possedette, e la trovò pronta, e con un improvviso, selvaggio sollievo si liberò dei legami che si era imposto ed accettò il dono d’amore che lei gli stava offrendo.

CAPITOLO DODICESIMO

— … e posso avere il suo numero di credito centrale? — domandò l’impiegato del motel.

— Io non ho una carta di credito — affermò David Bridger. — Pagherò in contanti per la stanza. — Colse un’espressione di sospetto sul volto dell’impiegato, e tornò a recitare la sua parte di innocuo Babbo Natale. Scoppiò a ridere fragorosamente ed aggiunse: — Scommetto che sono l’unico uomo dell’Emisfero Occidentale a non averne una, eh? È solo che io non credo in certe cose! I contanti andavano bene per mio padre, e vanno bene anche per me! Quant’è?

L’impiegato glielo disse. Bridger estrasse dal portafoglio parecchie banconote spiegazzate che facevano parte del suo corredo di emergenza — ogni agente Kranazoi aveva in dotazione una certa quantità di denaro terrestre, nel caso fosse costretto ad un atterraggio forzato — e le sparpagliò sul bancone. L’impiegato sembrò più sollevato. Uno straniero coperto di polvere, senza bagaglio, senza nemmeno una carta di credito, che arrivava lì a piedi… era una cosa ben strana per un motel. Ma il denaro dello straniero era verde. E chi avrebbe negato una stanza a Babbo Natale quando mancavano tre settimane a Natale?

— Stanza duecentosedici — disse l’impiegato. — Secondo piano, sulla sinistra.

La stanza era un cuneo triangolare con un ingresso ridotto ai minimi termini, che si apriva ad un arco di circa trenta gradi lungo il perimetro esterno dell’edificio circolare. Bridger si infilò dentro, chiuse a chiave la porta, sigillandola con l’impronta del pollice, e si sdraiò pesantemente sul letto. Quei pochi chilometri di cammino avevano lasciato esausto il suo corpo terrestre. Era fuori esercizio, si disse, anche se a bordo avevano l’accortezza di mantenere la gravità totale per tenere in tono la muscolatura.

Si tolse i vestiti e gettò tutto nella lavatrice ultrasonica a gettone che si trovava addosso alla parete di destra. Poi si infilò sotto la doccia. In teoria sapeva come funzionava una doccia, ma il suo condizionamento Kranazoi gli creò qualche problema nell’attivarla. Kranaz era un mondo arido, dove l’acqua era vita ed energia, e lo spaventava pensare che anche lì, in quella parte così arida dell’America Settentrionale, gli bastava solo toccare qualche levetta per avere acqua in abbondanza. Vergognandosi del suo gesto, fece scorrere l’acqua. Bridger desiderò potersi strappare di dosso quel suo corpo da terrestre, farlo a brandelli, ed esporre la sua vera pelle all’acqua. Rimase sotto la doccia per mezz’ora, traendone un piacere notevole.

Si asciugò, si vestì e si guardò allo specchio. Aveva un aspetto abbastanza presentabile. Un uomo grasso non ha bisogno di sembrare pulitissimo. I chirurghi plastici che avevano progettato la sua pelle avevano fatto in modo che la sua faccia avesse sempre l’aria di una faccia rasata da tre ore, così da non avere la necessità di radersi nuovamente prima di un’altra mezza giornata. Non avevano ancora risolto il problema della crescita, nel senso che la sua barba non cresceva, ma Bridger non se ne preoccupò.

Ed ora, all’inseguimento di quei tre Dirnani…

Uscì dalla stanza e si recò al pianterreno. Il motel aveva una sala cocktail annessa, proprio sotto la strada; un locale fantasioso con una cascata che cadeva scrosciando sopra una barriera di vetro. Ancora acqua! Bridger entrò nella sala. Vide gruppetti di uomini, tre o quattro per volta, intenti a bere le loro bevande. Erano vestiti in modo molto formale: capì che erano uomini d’affari. Prese posto al bar, ed una ragazza si diresse verso di lui per prendere la sua ordinazione. Il suo ridottissimo costume metteva in mostra un bel po’ di carne, e Bridger osservò con un certo fascino che i suoi seni pressoché nudi erano rivestiti da una strana sostanza fluorescente. Nella fioca luce del locale, il bagliore verde-azzurro del suo petto creava un effetto vistoso. Un nuovo stile, eh? Non era di suo gusto, ma in fondo i Kranazoi non erano mammiferi, e lui non riusciva ad apprezzare affatto il significato erotico di quei seni.

La ragazza protese le sue mammelle luminose verso di lui e gli chiese: — Desidera?

— Sherry con ghiaccio — rispose Bridger.

Ne ricavò un’occhiata perplessa. Evidentemente nessun vero uomo avrebbe bevuto qualcosa di così leggero. Bridger si limitò a fare una smorfia. Sapeva che lo sherry era soltanto un vino rafforzato, con un contenuto alcolico inferiore al dieci per cento. Bene. Per il suo metabolismo l’alcool era un veleno, e meno ne consumava meglio era. Aveva bisogno di bere qualcosa, per inserirsi in qualche modo nelle conversazioni della sala cocktail, ma era bene che fosse il più leggero possibile.

La ragazza gli porse il suo sherry. Lui la pagò, e lei si diresse ancheggiando verso il prossimo cliente. Bridger sorseggiò lentamente la sua bevanda.

Poi si mise ad ascoltare. Il suo sistema auditivo era molto sensibile.

— … aumentato il dividendo per quattro anni di fila, ed ho la loro parola che in aprile triplicheranno i profitti…

— … e così l’ha portata nella stanza, capisci, ma quando le ha tolto i vestiti si è accorto che…

— … i Braves non hanno la minima possibilità, se Pasquarelli parteciperà alla Tournee in Giappone…

— … qualsiasi cosa dicano a proposito di quella dannata palla di fuoco, io mi rifiuto di credere che fosse solo…

— … in quella sottodivisione sono rimasti sette lotti, ma tre di loro sono già mezzi venduti a…

— … come si fa a discutere di guadagni di sei bigliettoni per azione?…

— … quarantuno fuori campo con un polso slogato…

— … e allora lei ha detto, dammi cinquanta testoni, o chiamo un poliziotto, e allora lui…

— … disco volante…

— … aumentare gli utili azionari, quelle sì che sono spese extra…

— … sottobanco adesso, ma verranno ammesse alle contrattazioni tra…

— … certo che credo a quella storia! Stammi a sentire, amico, si trovano dappertutto, ora…

— … hanno preso questo giocatore messicano, no, cubano…

— … le ha dato un bel calcio nel sedere…

— … quando la banca interverrà, potremo…

Bridger bevve con cautela un altro sorsetto del suo sherry. Poi scese pesantemente dallo sgabello ed attraversò la sala, facendo del suo meglio per darsi un contegno amichevole e gioviale. Si soffermò un attimo accanto ad un capannello di quattro persone, che non gli fecero molto caso. Una cameriera con le cosce color porpora gli passò vicino. Gli uomini erano giovani, giudicò Bridger, ma non troppo. Quando due di loro alzarono gli occhi verso di lui, l’agente Kranazoi fece un ampio sorriso e disse, con la voce più affabile che gli riuscì di tirar fuori: — Scusatemi l’intrusione, amici, ma non ho potuto fare a meno di sentire i vostri discorsi su quel disco volante…

CAPITOLO TREDICESIMO

Mirtin sapeva che stava violando le regole, per il modo in cui aveva stretto amicizia con il ragazzo indiano. Un Dirnano costretto ad atterrare sulla Terra avrebbe dovuto, in generale, evitare qualsiasi contatto con i terrestri; erano consentite alcune eccezioni per proteggere la propria vita, ma lui aveva abbondantemente oltrepassato i limiti. Tra le cose che non avrebbe dovuto fare c’era il rivelare gli scopi della missione Dirnana, parlare dell’ubicazione e della civiltà di Dirna, o consentire a qualsiasi terrestre di accedere all’attrezzatura in dotazione all’osservatore che era atterrato. Mirtin aveva fatto tutte queste cose.

Eppure non si sentiva molto in colpa. Aveva servito il pianeta madre con efficienza e fedeltà per lungo tempo. Per un periodo che, in base al conteggio usato dalla razza di Charley Estancia, corrispondeva a centinaia di anni, Mirtin aveva rispettato tutte le regole. Adesso che era vecchio gli si poteva consentire qualche piccola distrazione.

Inoltre c’era da considerare Charley. Mirtin vedeva il ragazzo crescere e maturare da una sera all’altra. La materia prima era buona: una mente sveglia e curiosa, una natura assetata di conoscenza e di esperienza. L’ambiente aveva ostacolato Charley collocandolo in un «enclave» dove venivano conservate delle caratteristiche volutamente primitive. Mirtin aveva l’impressione che l’universo dovesse a Charley Estancia qualcosa di un pochino più grande del suo villaggio di fango. Se, come era accaduto, l’universo aveva scelto Mirtin di Dirna come strumento di riscatto del ragazzo, Mirtin non poteva che accettare quel fatto, senza preoccuparsi troppo dei regolamenti di sicurezza. A volte il mero patriottismo doveva cedere il passo di fronte a necessità più elevate.

Charley se ne stava accucciato accanto a lui, e giocherellava con gli strumenti rilucenti che Mirtin gli aveva permesso di estrarre dalla tuta.

— A che serve questo? — domandò il ragazzo.

— Quello è… be’, noi lo usiamo come generatore portatile. Produce elettricità.

— Ma io posso tenerlo in mano. C’è dentro un piccolo magnete, da qualche parte? Come funziona?

— Attinge al campo magnetico del pianeta — spiegò Mirtin. — Tu sai che ogni pianeta è come una grande calamita?

— Già, sì, certo che lo so.

— Questo strumento crea linee di forza che si dirigono in senso contrario al campo magnetico del pianeta. Tu spingi quella leva ed esso attraversa le linee magnetiche, inducendo una corrente. Noi lo chiamiamo il «borsaiolo», Charley, perché sembra rubare energia dall’aria rarefatta. Naturalmente non la ruba, la prende solo in prestito.

— Posso provarlo?

— Fai pure. Ma in che modo?

Il ragazzo indicò la borraccia. — Hai lasciato un po’ d’acqua. Se davvero questo strumento crea corrente, dovrei riuscire a scinderla, no? In idrogeno e ossigeno. Com’è il termine? Elettro… elettri…

— Elettrolisi — concluse Mirtin. — Sì, funzionerà. Ma sii prudente.

— Ci puoi scommettere.

Mirtin mostrò al ragazzo come si estraevano gli elettrodi. Con grande precisione Charley preparò lo strumento per l’uso ed infilò gli elettrodi nell’acqua. Poi attivò il generatore. Entrambi osservarono divertiti la corrente che frantumava le molecole d’acqua secondo le previsioni.

— Ehi, funziona! — esclamò Charley. — Senti, posso aprirlo? Voglio vedere che cosa c’è lì dentro che crea la corrente.

— No — rispose deciso Mirtin.

— Non vuoi proprio? Lo rimetterò a posto subito, così come è adesso. Non farò nessun danno.

— Ti prego, Charley. Non cercare di aprirlo. Tu… tu lo romperesti. È predisposto per bruciarsi nel momento in cui qualcuno toglie il sigillo.

Era una menzogna, e Mirtin non era bravo a raccontare bugie a Charley. Cercò di non incontrare gli occhi neri e scintillanti del ragazzo.

— Così — disse Charley — se un terrestre dovesse casualmente impossessarsene, non riuscirebbe ad aprirlo e ad imparare come funziona per costruirne un altro?

— S… sì.

— Non ce n’è un altro nella mia attrezzatura — rispose Mirtin. — E anche se ci fosse, non te lo farei aprire.

— Forse ne hai un altro? Potrei aprire l’altro e dare almeno un’occhiata prima che si bruci.

— Hai paura che apprenda troppe cose? Che venga a conoscenza di qualcosa che il popolo della Terra non dovrebbe conoscere?

— Già — ammise Mirtin. — Non dovrei nemmeno fartele vedere, queste cose. Sto infrangendo una regola, comportandomi così. Ma proprio non posso permetterti di guardare dentro. Non capisci, Charley, non serve a niente che noi veniamo semplicemente qui, vi diamo questi strumenti e lasciamo che voi li studiate e li imitiate. Ci sono delle cose che un pianeta deve scoprire da solo. Se la scoperta non viene dal di dentro, non serve a nulla. Ho visto delle civiltà andare in rovina per non aver sviluppato una propria tecnologia. Non qui, su altri pianeti. Prendevano a prestito, rubavano… e ciò ha significato la loro distruzione.

— Allora non posso guardare dentro?

— No. Cercare di immaginare che cosa c’è, sì, ma guardare, no.

— Tu non puoi muovere né le braccia né le gambe — disse Charley. — Non potresti fermarmi se lo aprissi.

— Giusto — replicò con calma Mirtin. — Non potrei fermarti affatto. L’unico che potrebbe fermarti saresti tu stesso, Charley.

Tutto ad un tratto nella caverna si era creato un grande silenzio. Charley fece scorrere la mano sull’impugnatura levigata del generatore, e rivolse due o tre occhiate fugaci in direzione di Mirtin. Poi, con riluttanza, posò lo strumento accanto agli altri.

— Vuoi una tortilla?

— Sì, grazie.

Charley scartò il pacchetto e ne tirò fuori un’altra tortilla. Come al solito, la tenne davanti alla bocca di Mirtin mentre il Dirnano, sdraiato sulla schiena, la mangiava a grosse boccate. Ad un certo punto Mirtin diede un morso ma il pezzo di tortilla gli sfuggì e scivolò dal mento verso terra. Automaticamente cercò di sollevare la mano destra per afferrare il pezzetto di tortilla mentre cadeva. Non riuscì ad afferrarlo, ma aveva mosso il braccio.

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