Ormai era mezzanotte passata da un pezzo. Diede un’occhiata al collo taurino del suo autista, isolato da lui nel compartimento anteriore, e soffocò uno sbadiglio. Avrebbe viaggiato per tutta la notte. Ad Albuquerque non c’era nulla ad attenderlo, tranne un letto vuoto ed una giornata piena di mozziconi di sigaretta. Sua moglie era in vacanza a Buenos Aires con il suo nuovo marito. Falkner si era ormai abituato a stare solo, ma non gli piaceva molto. C’era chi trovava sfogo nel lavoro, in casi del genere, ma Falkner si diceva sempre che il suo non era un lavoro da adulti.
Alle tre del mattino si trovava proprio sul ciglio delle montagne. C’era una strada che attraversava la foresta nazionale, quella tracciata dai taglialegna, e lui avrebbe potuto prenderla, se lo avesse voluto, ma ordinò al guidatore di voltare. Sarebbe ritornato ad Albuquerque seguendo un lungo tragitto circolare, intorno alla Mesa Prieta, sfiorando il villaggio di Jemez, e poi giù lungo il lato occidentale del Rio Grande fino a casa. A Topeka erano ancora svegli, e forse anche a Washington. Buon per loro, gli eroi.
Il flusso di informazioni sui diversi canali stava diminuendo. Per riempire il tempo, Falkner fece scorrere più volte il nastro registrato con il globo di fuoco. Aveva già raccolto una mezza dozzina di istantanee, prese in diversi punti lungo la traiettoria. Le studiò con attenzione, e dovette ammettere che quell’improvvisa scia ardente doveva aver fatto una certa impressione. Peccato che fosse stato impegnato ad ingozzarsi di liquore e non avesse potuto vederla. Però assomigliava ancora alla scia di una meteora, si disse cocciuto Falkner. Una grossa meteora, ma che c’era di strano? Che dire, allora, di quella che si era andata a schiantare nella foresta siberiana nel 1908, scavando quel po’ po’ di buco? O del gigantesco cratere causato dalla meteora caduta in Arizona? Che cos’erano, se non fenomeni naturali?
E la violenza della radiazione luminosa?
Ne aveva discusso con Bronstein due ore prima.
— Immaginiamo una massa di materia anti-terrena che penetri nella nostra atmosfera — aveva detto Falkner. — Un paio di tonnellate di anti-ferro, diciamo. Un gran turbine di antiprotoni e antineutroni che incontrano e disintegrano la materia terrestre.
— Ma questa è roba vecchia, Tom.
— E allora? È plausibile, no?
— Non abbastanza. Comporta la necessità di postulare una grande massa di antimateria da qualche parte del nostro universo — aveva replicato Bronstein — e non c’è alcuna prova concreta che una massa del genere esista, o addirittura che possa esistere. È un’ipotesi molto più semplice quella di postulare una razza extraterrestre intelligente che abbia inviato qui degli osservatori. Basta che tu applichi il Rasoio di Occam alla tua idea dell’antimateria, e ti renderai conto di quanto sia sballata come teoria.
— Applicati il Rasoio di Occam sulla gola, Bronstein. E spingi forte.
A Falkner piaceva quell’idea, malgrado le obiezioni di Bronstein. Certo, violava la legge dell’ipotesi meno complicata; ma il Rasoio di Occam era uno strumento logico, non una condizione immutabile dell’universo, e non funzionava in ogni condizione. Falkner sbatté più volte gli occhi, desiderando di avere con sé dello scotch. Pallidi segni dell’alba stavano cominciando a rigare il cielo ad oriente. Nella capitale del paese era mattina, e tutti erano già in piedi a creare i consueti ingorghi di traffico. Ora, considerando questo concetto dell’antimateria in modo rigoroso, troviamo…
Qualcosa fece ping su uno dei sistemi di rilevazione esterna del cingolato.
— Ferma il veicolo! — gridò Falkner al guidatore.
Il cingolato si fermò. Il ping no. Con molta circospezione, Falkner esaminò i dati di input e cercò di scoprire che cosa diavolo stesse succedendo. Individuò la causa del disturbo. I rilevatori stavano captando il calore emesso da un essere umano con una massa da quaranta a cinquanta chili, entro un raggio di meno di un chilometro. I rilevatori di metallo confermarono la cosa, fornendo una quantità di dati. Là fuori c’era qualcuno.
La città più vicina si trovava a trenta chilometri di distanza. E nello spazio di venti chilometri non c’era nemmeno una strada. Era una zona desolata, null’altro se non gruppi di arbusti, qualche ciuffo di iucca e di altre erbe locali, e qua e là alcuni alberi di ginepro o di pino cresciuti per sbaglio lì invece che nelle regioni montuose. Niente ruscelli, né stagni, né case. Nulla. E nessuno viveva in quella zona. Quella terra non era buona per nulla. Falkner si disse che il suo rilevatore stava captando qualche campo notturno di boy-scouts, o qualcosa di ugualmente innocente. Nondimeno, doveva controllare. Lasciando il guidatore a bordo del cingolato, Falkner uscì all’esterno.
Da quale parte?
Un migliaio di metri da coprire… era un bel po’, se si riferiva il raggio alla circonferenza e si cominciava a ragionare in termini di superficie. Accese il faro al mercurio che portava sul fianco, ma non gli fu di molto aiuto; in quella luce grigiastra che precedeva l’alba, l’illuminazione artificiale era pressoché inutile. Decise di dare un’occhiata in giro per quindici minuti e poi di chiamare un elicottero per far venire una squadra di ricerca. Il guaio con quei complicati congegni di rilevazione era che in un raggio più ristretto non funzionavano affatto bene.
Scelse una direzione a casaccio e si incamminò sul terreno sabbioso e irregolare. Quando ebbe percorso cinquanta passi, vide, in mezzo ad un gruppetto di alberi di salvia, qualcosa che sembrava un mucchio di vecchi abiti, e vi si diresse correndo, in preda ad una specie di frenetico, terribile eccitamento che non riusciva a capire.
Quando raggiunse il mucchio di abiti, si accorse che si trattava di una donna, bionda, giovane, con un bel viso, a parte le macchie di sangue sulle labbra e sul mento. Era viva, ma sembrava priva di conoscenza. Indossava una specie di tuta spaziale di un modello che Falkner non aveva mai visto prima, con un elaborato sistema di propulsione a razzi, una levigata visiera, ed un tessuto scintillante di una strana bellezza. Sospettò subito che quella ragazza fosse un’osservatrice russa o cinese, costretta a lanciarsi col paracadute in seguito a chissà quale imprevisto nel volo. I lineamenti, naturalmente, erano tutt’altro che cinesi, ma non c’era motivo perché Pechino, in caso di necessità, non assoldasse come spia una bionda di Brooklyn. Se in quei tempi una tuta spaziale cinese aveva quell’aspetto, bisognava levarsi tanto di cappello.
Evidentemente lei aveva avuto, però, un brutto atterraggio. Falkner non era in grado di vedere il suo corpo per intero, ma dal modo in cui se ne stava rannicchiata, sospettò che si fosse spezzata come minimo entrambe le gambe, e magari che avesse delle lesioni interne. Be’, nel cingolato c’era una barella ad energia; l’avrebbe caricata, ricondotta sana e salva in città, e consegnata ai medici. Almeno non proveniva da qualche altra galassia, a meno che non ce ne fosse una lassù che produceva magnifiche bionde.
La visiera si era aperta nella caduta. Falkner vide che la ragazza si stava muovendo, e che sembrava sussurrare qualcosa, ed allora le scostò la visiera trasparente dalle labbra, e si chinò su di lei per ascoltare.
Non parlava in russo: le parole erano troppo liquide. Non parlava cinese: l’inflessione era monotona. Non parlava alcuna lingua che Falkner avesse mai sentito. La cosa lo fece sentire un poco a disagio. Rifiutò di lasciarsi convincere che parlava la lingua di un altro pianeta. Ciò che ascoltava era frutto del delirio. Semplici vaneggiamenti.
Stava dicendo qualcosa in inglese, adesso?
— Se ci aiuteranno… che cosa parlano qui? Inglese. Sì… inglese…
Falkner tornò ad osservare la tuta, si accorse di quanto fosse aliena, e sentì la pelle che gli si accaponava.
Gli occhi della ragazza si aprirono. Occhi bellissimi. Occhi spaventati. Occhi velati dal dolore.
— Aiuto — disse.
CAPITOLO QUARTO
Mentre precipitava verso la Terra, Mirtin sapeva che stava andando incontro a delle brutte lesioni. La prese con calma, come faceva sempre. Del resto la questione non era in mano sua. Ciò che gli dispiaceva era la fama che la sua involontaria impresa gli avrebbe guadagnato in patria, non il dolore che il suo corpo avrebbe sofferto in Un futuro molto prossimo. Prima o poi una nave osservatrice doveva per forza avere un guasto, costringendo così il suo equipaggio ad un imprevisto atterraggio sulla Terra, ma Mirtin non aveva mai pensato che sarebbe toccato proprio alla sua nave.
Esistevano delle tecniche per calmare lo spirito in casi di tensione particolare. Se ne servì, mentre piombava verso l’oscuro mondo sottostante.
La perdita della nave era per lui una questione di scarsa importanza, come lo era l’imbarazzo per l’incidente. I pericoli cui sarebbe andato incontro sulla Terra erano un po’ meno irrilevanti, ma non costituivano fonte di reale dolore; sarebbe sopravvissuto, oppure no, e dunque perché piagnucolare? Né lo preoccupavano eccessivamente le lesioni organiche che di sicuro l’impatto con il terreno gli avrebbe causato. Era una cosa a cui si poteva porre rimedio. No, ciò che angosciava Mirtin era lo smembramento del suo gruppo sessuale. Essendo il più anziano ed il più stabile, sentiva la responsabilità nei confronti degli altri due, ed ora essi erano al di là delle sue possibilità di aiuto.
Probabilmente Glair era morta. Era un duro colpo. Mirtin l’aveva osservata lanciarsi in quel modo goffo, l’aveva vista precipitare roteando nel vuoto, dopo aver effettuato il peggiore di tutti i balzi possibili. Forse era riuscita a cavarsela, ma era assai più probabile che fosse piombata giù come una pietra, verso una morte rapida ed orribile. Mirtin aveva già perso dei compagni di gruppo in precedenza, molto tempo prima, e sapeva quale trauma comportasse quella perdita. E Glair era speciale, straordinariamente sensibile alle necessità del gruppo, il perfetto legame femminile tra i due maschi. Non era un elemento facile da rimpiazzare.
Vorneen aveva compiuto un balzo migliore, ed in ogni caso Vorneen era in grado di badare a se stesso. Ma sarebbe atterrato a molti chilometri di distanza dal luogo di impatto di Mirtin, e forse non si sarebbero ritrovati mai più. E anche se ci fossero riusciti, la loro non sarebbe stata una situazione facile… soprattutto senza Glair.
Mirtin si impose la calma.
L’impatto non doveva essere lontano, ormai.
Si diceva che un balzo del genere procurasse un impatto analogo a quello ottenuto saltando senza sistemi frenanti dall’altezza di trenta metri. Una caduta simile non era sufficiente per uccidere un Dirnano, ma si trattava pur sempre di un bel salto. Poiché avevano abbandonato la nave ad una quota assai superiore a quella consigliata per un balzo, era ragionevole attendersi gravi danni organici. Mirtin fece quello che poté, raccogliendo la sua anima Dirnana all’interno del suo guscio corporeo esterno, il camuffamento da terrestre. Era tutto ciò che poteva fare. Le ossa che sorreggevano il suo guscio si sarebbero probabilmente spezzate; il tessuto cartilaginoso Dirnano in esso racchiuso si sarebbe salvato. Ma rompersi le ossa gli avrebbe pur sempre causato dolore e scomodità. Quella struttura che lo ricopriva era ora il suo corpo, anche se lui non ci era nato dentro.
Giù.
La coscienza minacciava di abbandonarlo proprio negli ultimi istanti. Con un disperato sforzo di volontà, Mirtin riuscì a conservarsi lucido. Vide che stava per toccare terra lontano da grosse città. Verso est scorse gli edifici rettangolari di fango di un villaggio indiano, uno di quegli anacronismi viventi che i terrestri preservavano con tanta cura in quella parte del mondo. Verso ovest, più lontana, c’era l’enorme spaccatura di un canyon. Nel mezzo c’era la zona in cui sarebbe atterrato, una landa solcata da profonde gole, terrazze corrose e «mesas» che si ergevano ripide. Ad una quota così bassa, era preda delle correnti atmosferiche; Mirtin sentì che lo sollevavano dolcemente, deviando il suo volo di due o tre chilometri in direzione del villaggio indiano. Cercò di equilibrare la caduta servendosi del sistema stabilizzatore a propulsione, e chiuse lo schermo frenante per evitare gli effetti peggiori dell’impatto.
All’ultimo momento, malgrado il suo impegno, perse lo stesso conoscenza. Non fece molta differenza, poiché, quando si riebbe, capì di essere gravemente ferito.
La cosa più urgente era calmare il dolore; perciò allungò la mano verso le file di gangli, disattivandoli. Naturalmente alcuni dovevano rimanere attivi… quelli che presiedevano al funzionamento del suo sistema nervoso autonomo. Ed aveva bisogno del riflesso per respirare, e del fascio di nervi che trasmettevano energia al sistema digestivo/respiratorio/circolatorio. Ma staccò i collegamenti di tutto ciò che non serviva, almeno per il momento. Senza quella febbrile cortina di dolore, era in grado di valutare assai più chiaramente la sua situazione e di stabilire che cosa dovesse fare.
Trascorse più di un’ora prima che Mirtin riuscisse a disconnettere il sistema nervoso di quel tanto che bastava a rendere tollerabile il dolore. Un’altra mezz’ora gli ci volle per rimuovere dal suo corpo l’avvelenamento accumulatosi col dolore. A questo punto cominciò a guardarsi intorno.
Giaceva sulla schiena, sulla punta orientale di un cuneo di terreno leggermente rialzato rispetto alla zona circostante. Sulla sua sinistra scorreva l’alveo asciutto di quello che doveva essere un torrentello primaverile. Sulla sua destra c’era un irto costone, e, alla debole luce del mattino imminente, vide che la pietra era sabbiosa e friabile, costellata da innumerevoli piccole fenditure. A non più di una ventina di metri da lui si apriva la nera imboccatura di una caverna. Se fosse riuscito a strisciare in qualche modo fin lì, avrebbe trovato la protezione di cui aveva bisogno mentre il suo corpo era impegnato nel processo di risanamento.
Ma non poteva strisciare.
Non poteva muoversi affatto.
Era difficile valutare l’entità del danno fisico con il suo sistema nervoso in larga parte disinserito, ma Mirtin ipotizzò una frattura perpendicolare della spina dorsale. Braccia e gambe sembravano a posto, ma non reagivano agli stimoli motori, il che implicava una lesione alla spina dorsale. Con un po’ di tempo a disposizione, avrebbe potuto ripararla. Per prima cosa si sarebbe dovuto saldare l’osso, poi lui avrebbe dovuto rigenerare i fasci nervosi. Ci sarebbero voluti, ad occhio, un paio di mesi, tempo locale. Il suo corpo interiore, quello Dirnano, era fondamentalmente sano, perciò non doveva far altro che ricreare il guscio.
Sdraiato sulla schiena, lì all’aperto, però? In inverno? Senza cibo?
Il suo corpo aveva molte capacità particolari sconosciute sulla Terra, ma non poteva sopravvivere per un tempo indefinito senza cibo. Mirtin calcolò che sarebbe morto di fame molto prima di essersi ripreso al punto da potersi alzare e procurarsi da mangiare. Quello era comunque un discorso accademico; una settimana senz’acqua lo avrebbe spacciato prima. Aveva bisogno di un riparo, di cibo e di acqua, e nelle sue condizioni non era in grado di ottenere nessuna di quelle cose senza l’aiuto di qualcuno, il che significava che aveva bisogno di qualcuno che venisse in suo soccorso.
Vorneen? Glair? Se anche erano vivi, dovevano avere i loro problemi. Mirtin non era in grado di attivare il suo comunicatore, installato di lato proprio sopra l’anca, e non c’era alcun modo di trasmettere loro dei segnali. La sua unica speranza consisteva nell’arrivo di qualche terrestre dalle intenzioni amichevoli. E, in quel deserto, Mirtin non la riteneva una eventualità troppo probabile.
Si rese conto di essere destinato a morire.