La genesi della specie - Sawyer Robert J. 2 стр.


Lasciò andare il braccio dell'uomo e infilò la testa nella botola, che Paul nel frattempo aveva lasciato libera. Respirò a fondo, esausta per lo sforzo, quindi poggiò le mani sul pavimento umido per tirarsi su. Paul si chinò ad aiutarla e una volta fuori si diedero da fare per recuperare il corpo che galleggiava mollemente alla deriva. Dopo qualche tentativo riuscirono a tirarlo su. Aveva una ferita ancora sanguinante su un lato della testa.

Paul si chinò per praticargli la respirazione bocca a bocca, fermandosi di tanto in tanto con le guance arrossate a controllare se l'ampio torace ricominciasse a muoversi. Contemporaneamente, Louise gli tastava il polso, che non dava segni di… un momento! Ecco! C'era stato un battito.

Paul continuò a insufflare aria nel corpo, finché l'uomo cominciò a boccheggiare e a vomitare acqua. Il ragazzo distolse lo sguardo dal liquido che, fuoriuscendo, si mescolava al sangue e lo trascinava via.

Ma lo sconosciuto non aveva ancora ripreso conoscenza. Seminuda, completamente inzuppata e infreddolita, Louise cominciò a sentirsi a disagio. Si infilò a fatica la tuta e chiuse la lampo, sentendosi addosso lo sguardo di Paul.

Il dottor Montego non sarebbe arrivato subito: l'osservatorio si trovava due chilometri al di sotto della superficie, e l'ascensore più vicino era quello del pozzo numero 9, che distava più di un chilometro. Anche nel caso in cui la cabina si fosse trovata in superficie — e poteva non esserlo — sarebbero trascorsi ancora una ventina di minuti.

Pensando di svestire l'uomo per liberarlo dagli abiti bagnati, Louise si chinò su di lui ma… la camicia antracite non aveva bottoni né chiusura lampo. Non sembrava un pullover, anche se non aveva il collo e… ma eccoli, dei bottoncini nascosti sulla sommità delle larghe spalle. Cercò di sganciarli, senza riuscirci. Guardò i pantaloni verde oliva, forse più scuri del loro colore naturale perché impregnati d'acqua, ma di cinture nessuna traccia. C'era solo una fila di bottoncini e piccole pieghe attorno alla vita.

Louise si rese improvvisamente conto che l'uomo poteva aver subito dei danni a causa della pressione dell'acqua. La camera di rilevamento era profonda dieci metri: quanto era andato sotto e quanto velocemente era risalito in superficie? La pressione dell'aria a quella profondità era del 130 per cento in più rispetto alla norma, e la ragazza si chiese se questo modificasse anche la pressione dell'acqua: di certo l'uomo aveva bisogno di una maggiore quantità di ossigeno di quella necessaria in superficie.

Non si poteva far altro che aspettare. Adesso l'uomo respirava, e il polso si era stabilizzato. Per la prima volta osservò con attenzione il viso dello sconosciuto: ampio ma non piatto, con gli zigomi angolosi e il naso gigantesco grande quanto un pugno. Gli occhi larghi erano chiusi; la mandibola era ricoperta da una barba biondo scuro, e lisci capelli biondi nascondevano la fronte. Le caratteristiche fisionomiche ricordavano quelle delle razze dell'Europa orientale, ma con un colorito scandinavo piuttosto che olivastro.

«Come avrà fatto a entrare?» chiese Paul, seduto a gambe incrociate accanto al corpo che giaceva senza conoscenza. «Nessuno avrebbe potuto, e…»

Louise annuì. «E anche se fosse riuscito ad arrivare quaggiù, come ha fatto a entrare nella camera sigillata?» chiese a sua volta, accorgendosi, mentre scostava i capelli dalla fronte, di aver perso la retina. «Lo sai, l'acqua pesante non è più utilizzabile. Se sopravvive saranno cavoli suoi, con la causa che gli intenteranno.»

Scosse la testa senza volerlo. Chi era quell'uomo, ad ogni modo? Un nativo canadese fanatico? Un indiano che pensava che la miniera violasse qualche luogo sacro? Però aveva i capelli biondi, cosa rara per i nativi. E non poteva essere lo scherzo malriuscito di uno sbarbatello, perché quel tipo doveva avere almeno trentacinque anni. Forse era un terrorista, o un dimostrante che si batteva contro il nucleare, ma laggiù non si facevano esperimenti nucleari, anche se la società per l'energia atomica del Canada aveva fornito l'acqua pesante. Chiunque fosse, rifletté Louise, in caso di morte sarebbe stato il candidato favorito per il premio Darwin. Era un classico caso di un processo evolutivo in pieno corso di svolgimento: un tizio che faceva qualcosa di talmente stupido da costargli la vita.

2

Louise Benoit sentì la porta aprirsi; qualcuno stava entrando nella piattaforma situata sulla camera di rilevamento. «Dottore!» gridò per richiamare l'attenzione del dottor Montego. «Siamo qui!»

Reuben Montego, un canadese di origine giamaicana sui trentacinque anni, affrettò il passo. Aveva il cranio completamente rasato — il che significava che era la sola persona dell'osservatorio a non mettere la retina sui capelli — anche se, come tutti, indossava l'elmetto. Il medico si chinò, girò il polso dell'uomo, e…

«Cosa diavolo è?» chiese con forte accento giamaicano.

Anche lei lo vide. All'interno del polso dell'uomo c'era qualcosa, una specie di piccolo schermo rettangolare ad alto contrasto, dalla finitura opaca, grande otto centimetri per due. Mostrava una stringa di simboli, il primo dei quali cambiava all'incirca ogni secondo. Sei perline di colore diverso erano allineate sotto il display, mentre nella parte superiore c'era qualcosa — forse una lente -, come a chiusura del dispositivo.

«Un orologio stravagante?» ipotizzò Louise.

Per il momento Reuben decise di ignorare il mistero. Mise le dita sull'arteria radiale dell'uomo, commentando: «Il battito non è male.» Poi gli diede dei colpetti sulle guance, cercando di fargli riprendere conoscenza. «Forza» disse in tono incoraggiante. «Andiamo, svegliati.»

Finalmente l'uomo si mosse. Tossì con violenza, sputando ancora acqua, e sbatté le palpebre. Aveva l'iride d'un bruno dorato straordinario, un colore che Louise non aveva mai visto. Gli ci volle qualche attimo per mettere a fuoco le immagini, quindi spalancò gli occhi. Lo sconosciuto guardò prima Reuben, completamente stupefatto. Girò il capo e vide Paul e Louise, con lo stesso sguardo sbalordito, come in preda a uno shock. Si mosse appena, dando l'impressione di ritrarsi.

«Chi sei?» gli chiese Louise.

L'uomo la fissò con sguardo inespressivo.

«Chi sei?» ripeté la donna. «Cosa cercavi di fare?»

«Dar» disse l'uomo, con voce profonda, alzando il tono come se stesse ponendo una domanda.

«Bisogna portarlo all'ospedale» decise Reuben. «Ha preso un colpo alla testa, dovremo fargli una Tac.»

L'uomo si guardava intorno come se non credesse ai suoi occhi. «Dar baita dulb tinta?» disse. «Dar hoolb ka tapar?»

«Che lingua è?» domandò Paul a Louise, che scrollò le spalle. «Ojibwa?» ipotizzò la ragazza, dato che nei pressi della miniera c'era una riserva Ojibwa.

«No» disse Reuben scuotendo la testa.

«Monta has palap ko» insisté l'uomo.

«Non capiamo quello che dici» disse Louise. «Parli inglese?» Nessuna risposta. «Parlez-vous français?» Ancora niente.

Paul fece un tentativo: «Nihongo ga dekimasu ka?» che Louise suppose volesse dire 'parli giapponese?'

Lo sconosciuto li osservava a turno, gli occhi sempre spalancati, senza rispondere.

Reuben si alzò e protese la mano verso l'uomo, che lo guardò per un attimo prima di afferrarla e stringerla con la sua, enorme, dalle dita simili a salsicciotti e il pollice straordinariamente lungo. Si lasciò tirare su da Reuben, che subito gli mise un braccio attorno alla vita ampia, aiutandolo a reggersi in piedi. Doveva pesare una trentina di chili più di lui, tutti in muscoli. Anche Paul lo aiutò, sostenendolo dall'altro fianco, mentre Louise li precedette per aprire la porta della sala di controllo, che si era richiusa alle spalle di Reuben.

Una volta entrati, Paul e Louise indossarono il casco e gli stivali d'ordinanza. Il casco era dotato di lampadine e di cuffie, che all'occorrenza si potevano utilizzare come paraorecchi; quindi inforcarono gli occhiali. Reuben il casco lo aveva ancora indosso, e su un armadietto di metallo Paul ne trovò un altro, che offrì al ferito, ma il dottore lo allontanò: «Non deve mettere nessun peso sulla testa prima della Tac. Adesso portiamolo su. Ho già chiamato un'ambulanza.»

Uscirono dalla sala di controllo e imboccarono un corridoio che portava all'ingresso dell'osservatorio, dove erano sistemati gli impianti e i servizi. Tutti gli ambienti erano tenuti puliti, anche se adesso non ce ne sarebbe stato più bisogno, pensò Louise con una vena di malinconia. Oltrepassarono la sala di aspirazione, una sorta di doccia-cabina che aspirava polvere e sporcizia da chi entrava nell'osservatorio, quindi una serie di veri e propri vani doccia: era obbligatorio fare la doccia prima di entrare, ma non per uscire. C'era anche una saletta di pronto soccorso: Louise vide Reuben lanciare una rapida occhiata all'armadietto con la scritta 'Barella,' ma, poiché il ferito non sembrava avere particolari problemi deambulatori, il dottore fece loro segno di proseguire.

Accesero le luci dei caschi e si addentrarono nella lunga galleria buia, procedendo a fatica sul pavimento sporco. Le pareti grezze erano ricoperte di reti metalliche e barre di acciaio, perché a quella profondità, con sopra il peso di due chilometri di roccia, senza quel rinforzo la volta non avrebbe retto.

Lungo il percorso, avanzando tra detriti e pozzanghere di fango, l'uomo diede segni di ripresa, reggendosi sempre più sulle proprie gambe.

Mentre Louise continuava a pensare ai danni irreparabili subiti dalla camera di rivelazione dei neutrini e alla probabile perdita della sua borsa di studio, il dottor Montego e Paul discutevano animatamente su come quell'uomo avesse potuto entrare nella camera sigillata. Enormi ventole pompavano in continuazione aria proveniente dalla superficie, e le zaffate colpivano i loro volti.

Infine giunsero alla cabina dell'ascensore, che Reuben aveva fatto bloccare laggiù, a 6.800 piedi — diceva il segnale, che evidentemente era stato apposto prima dell'introduzione del sistema decimale. E infatti la cabina era lì ad attenderli, senza dubbio con disappunto dei minatori che aspettavano di salire o di scendere.

Entrarono, e Reuben premette ripetutamente il pulsante del segnale acustico che avvertiva l'operatore in superficie. La cabina, sprovvista di luce, vibrò e cominciò a salire. Reuben, Louise e Paul rimasero al buio, dato che avevano preferito spegnere le lampadine dei caschi per non accecarsi l'un l'altro. Durante tutta la risalita, le uniche luci visibili dalla cabina, aperta sul davanti, erano quelle degli impianti delle gallerie, ogni settanta metri. In quella bizzarra luce intermittente, Louise intravide in rapide successioni i lineamenti spigolosi dello sconosciuto, e i suoi occhi incavati.

Louise sentiva un ronzio nelle orecchie. Risalirono rapidamente al livello dei 4.660 piedi, il suo preferito. La società Inco, che gestiva la miniera, aveva piantato degli alberi per il progetto di rimboschimento della zona circostante Sudbury. Lì la temperatura era mantenuta a venti gradi, e le luci artificiali la facevano apparire come una serra straordinaria.

Pensieri stravaganti le passarono per la mente, come ricordi perturbanti di argomentazioni fantascientifiche alla X-Files per spiegare come aveva fatto quell'uomo a entrare nella sfera con la porta sigillata, ma li tenne per sé: se anche Paul e Reuben stavano pensando a simili fantasticherie, erano certo troppo imbarazzati per parlarne. Ci doveva essere una spiegazione razionale, si disse. C'era senz'altro.

Mentre la cabina continuava la sua lunga ascesa, sembrava che l'uomo stesse riflettendo sulla propria situazione. Gli strani vestiti che aveva indosso erano ancora umidi, malgrado l'aria pompata nelle gallerie li avesse in parte asciugati. Strizzò la camicia, e alcune gocce caddero sul pavimento di metallo giallo dell'ascensore. Poi sollevò la grossa mano e rimosse le ciocche dei capelli dalla fronte. La sorpresa di Louise — che emise una specie di rantolo, non percepito dagli altri a causa del rumore dell'ascensore — fu grande: apparve una enorme fronte sporgente, arcuata sugli occhi, simile alla versione schiacciata del marchio di McDonald's.

Finalmente, con un ultimo sussulto l'ascensore si fermò. Smontarono dalla cabina, davanti a un gruppo di minatori irritati che stavano aspettando di poter scendere. I quattro imboccarono la rampa che partiva dall'ampia sala dove i minatori si cambiavano per indossare le tute da lavoro. Fuori trovarono due medici ad aspettarli. «Sono il dottor Montego,» si presentò Reuben «il medico del distretto minerario. Quest'uomo ha rischiato di annegare e ha subito un trauma cranico.» I tre continuarono a parlare delle condizioni del ferito, mentre procedevano rapidamente fuori dall'edificio, nell'aria calda dell'estate.

Paul e Louise li seguivano da vicino; videro il ferito e i tre medici salire sull'ambulanza, che si allontanò a tutta velocità sulla strada sbrecciata.

«E adesso che facciamo?» si chiese Paul.

Louise aggrottò la fronte. «Io devo avvertire la dottoressa Mah.» Bonnie Jean Mah era la direttrice dell'osservatorio. Lavorava alla Carleton University di Ottawa, a cinquecento chilometri da lì. Le incombenze quotidiane le lasciava ai ricercatori e ai dottorandi come Louise e Paul, e all'osservatorio non andava quasi mai.

«Cosa le dirai?»

Louise guardò nella direzione presa dall'ambulanza, con il suo incredibile passeggero. «Je ne sais pas» rispose scuotendo lentamente il capo.

3

Tutto era cominciato molto più serenamente. 'Buongiorno' l'aveva salutato con l'usuale dolcezza Ponter Boddit, il mento poggiato sul braccio piegato. Lui, Adikor Huld, era in piedi accanto al lavandino.

«Ehi, dormiglione» gli aveva risposto girandosi e cominciando a sfregarsi la schiena contro il palo per grattarsi. Si dimenò per un po', prima di rispondere al saluto: «Buongiorno.»

Ponter gli restituì il sorriso. Gli piaceva vedere Adikor muoversi in quel modo, osservarne i muscoli del petto in azione. Senza di lui non ce l'avrebbe mai fatta a superare la perdita di Klast, la sua compagna. Ma alle volte rimaneva solo, come durante il periodo in cui Due diventano Uno — che era appena terminato -, quando Adikor era andato a trovare la sua compagna e il bambino che avevano. Le figlie di Ponter crescevano in fretta, e l'ultima volta che era andato a trovarle non le aveva quasi viste. Ovviamente la città era piena di donne adulte che avevano perso i propri compagni, ma donne di tale esperienza e saggezza — donne grandi abbastanza da aver maturato il diritto di voto! — non avrebbero saputo che farsene di un giovanotto come Ponter, che aveva visto soltanto quattrocentoquarantasette lune.

Comunque, anche se gli avevano dedicato poco tempo, Ponter era stato contento di rivedere le proprie figlie, anche se…

Dipendeva dalla luce. Certe volte, quando piegava la testa in quel modo, incorniciata dal sole, Jasmel era il ritratto perfetto della madre. Restava lì ad ammirarla, stupito da tanta somiglianza, e Klast gli mancava più che mai.

Dall'altra parte della stanza, Adikor stava riempiendo la vasca. Gli dava le spalle, chino mentre armeggiava con la bombola. Ponter abbassò il capo sul cuscino a forma di disco e lo osservò.

Alcuni conoscenti gli avevano sconsigliato di andare a vivere con lui, e, ne era sicuro, anche gli amici di Adikor avevano espresso la stessa opinione. Questo non aveva niente a che fare con quello che era successo all'Accademia; semplicemente, si trattava del fatto che lavorare e vivere insieme poteva essere imbarazzante. Anche se Saldak era una grande città (con più di venticinquemila abitanti dintorni compresi), vi abitavano solo sei scienziati, tre dei quali femmine. Era bello parlare con Adikor dei loro esperimenti e delle nuove teorie che avevano elaborato, ed entrambi si illuminavano se incontravano qualcuno che potesse realmente capire il loro lavoro.

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