La genesi della specie - Sawyer Robert J. 3 стр.


Del resto, formavano una coppia affiatata anche per altre ragioni. Adikor era mattiniero; appena alzato andava a correre e amava il nuoto. Lui invece carburava lentamente, e si occupava sempre della cena.

La bombola continuava a pompare acqua. A Ponter piaceva quel suono, un rauco rumore bianco. Sospirò soddisfatto e saltò giù dal letto, sul muschio che gli solleticava i piedi. Andò alla finestra, afferrò le maniglie attaccate al pannello di metallo e sfilò la persiana dal telaio magnetico. Quindi sporse in fuori la testa, e fissò la persiana al pannello di metallo incassato nel soffitto, nella sua posizione diurna.

Un raggio di sole che sorgeva tra gli alberi gli ferì gli occhi. Chinò il capo sino a toccare il petto con il mento, in modo che la fronte schermasse la luce. A poche centinaia di passi un cervo si abbeverava a un ruscello. Saltuariamente Ponter andava a caccia, mai però nelle zone residenziali; i cervi sapevano che lì non avevano nulla da temere dagli umani. In lontananza, scorse il luccichio dei pannelli solari stesi lungo l'erba della casa del vicino.

«Hak,» disse rivolto al Companion impiantato nel suo polso, a cui aveva dato quel nome «che tempo si prevede?»

«Splendido. Temperatura diurna massima, sedici gradi; la minima notturna, nove.» Il Companion aveva risposto con una voce femminile. Non era molto che Ponter lo aveva riprogrammato con la voce di Klast, che aveva preso dal suo archivio degli alibi, ma si era subito reso conto di aver fatto una fesseria: non solo non si sentiva meno solo, ma ogni parola pronunciata da quella voce gli squassava il cuore.

«Non è prevista pioggia» continuò il Companion. «Moti ventosi al venti per cento deasil, a milleottocento passi per un decimo del giorno.»

Ponter annuì. L'impianto era dotato di analizzatori in grado di percepire e decifrare agevolmente ogni suo movimento.

«Il bagno è pronto» lo avvertì Adikor. Ponter si volse e lo vide scivolare nella vasca circolare incassata nel pavimento. Azionò il motore e l'acqua cominciò a mulinare. Anche lui nudo, si avvicinò alla vasca e si calò dentro. Poiché Adikor preferiva l'acqua più calda, erano giunti a un compromesso: trentasette gradi, come la temperatura corporea.

Ponter pulì con le mani e con un pennello golbas la schiena del compagno, che poi gli ricambiò il favore.

L'aria era molto umida. Ponter respirò a fondo, inalando l'umidità nelle cavità sinusali. Pabo, la sua grossa cagna fulva, entrò nel bagno. Non amava l'acqua, quindi rimase a debita distanza dalla vasca. Era lì perché aveva fame.

Ponter guardò il compagno come a dire: 'Che vuoi farci?' e uscì dalla vasca, gocciolante sul manto di muschio. «Okay, bambina, dammi solo il tempo di vestirmi» si rivolse al cane.

Soddisfatta, Pabo uscì dal bagno con passo felpato. Ponter si avvicinò al lavabo e si asciugò. Poi si guardò nello specchio quadrato posto sul lavandino, e con le dita a mo' di pettine si sistemò i capelli con la riga nel mezzo.

Si avvicinò a una pila di panni puliti e scelse alcuni capi. Di solito non poneva molta attenzione al suo vestiario, ma se quel giorno l'esperimento fosse riuscito era probabile che qualcuno degli Esibizionisti si sarebbe fatto vivo. Raccolse una camicia grigio antracite, la indossò abbottonando frettolosamente le fibbie sulle spalle. Era un bel capo, pensò, un regalo di Klast.

Scelse un paio di pantaloni, li infilò facendo scivolare i piedi nelle larghe aperture dei gambali. Fissò i lacci alla caviglia e al collo del piede, provando una gradevole sensazione di calore.

Guardò Adikor uscire dalla vasca, poi il quadrante del suo Companion. Dovevano fare in fretta, l'hover-bus sarebbe arrivato tra breve.

Appena entrò in cucina, l'ambiente più grande della casa, Pabo gli si avvicinò saltellando. Si chinò ad accarezzarle la testa, rassicurandola: «Non preoccuparti bambina, non mi sono dimenticato di te.» Aprì il congelatore e tirò fuori un grosso osso di bisonte pieno di carne, avanzo della cena. Lo buttò a terra — in cucina il muschio era coperto da una lastra di vetro per rendere più agevoli le pulizie — e il cane si mise a rosicchiarlo. Adikor entrò e cominciò a preparare la colazione. Prese due grosse bistecche di alce dal congelatore e le mise nella pentola a laser, che riempì di vapore per reidratare la carne. Ponter gettò uno sguardo fugace al vetro della pentola, dove raggi rubino si intrecciavano in disegni complicati, cuocendo le bistecche alla perfezione. Adikor riempì una scodella di pinoli e due boccali di sciroppo d'acero diluito, quindi tirò fuori le bistecche dalla pentola.

Ponter azionò il Voyeur, il pannello quadrato fissato al muro che si accese all'istante. Lo schermo era diviso in quattro quadrati: uno trasmetteva immagini riprese dai Companion potenziato di Hawst, l'altro quelle di Talok, il quadrato in basso a sinistra le immagini di Gawlt e l'ultimo quelle di Lulasm. Sapeva che Adikor preferiva le trasmissioni di Hawst, quindi ordinò al Voyeur di ingrandirne l'immagine a tutto schermo. In effetti quell'Esibizionista trasmetteva sempre programmi interessanti; quella mattina si erano tutti recati nella periferia di Saldak, dove cinque persone erano rimaste sepolte vive sotto una frana. Tuttavia, se quel giorno si fosse fatto vivo uno degli Esibizionisti, sperava che fosse quella donna che faceva le domande più intelligenti, Lulasm.

Si sedettero a tavola e infilarono i guanti. Adikor prese una manciata di pinoli, li mise sulla bistecca e li sbriciolò con i palmi delle mani guantate. La cosa lo fece sorridere; non conosceva nessuno che facesse così: era una delle accattivanti eccentricità del suo amico.

Prese la bistecca ancora sfrigolante e ne staccò un pezzo. Aveva il sapore aspro della carne fresca; come aveva fatto la sua specie a sopravvivere prima dell'invenzione del congelatore?

Poco dopo notò l'hover-bus posarsi sullo spazio davanti casa. Si sfilarono i guanti, che gettarono nel pulitore sonico. Ordinò al Voyeur di spegnersi, diede una carezza al cane, quindi uscirono, lasciando la porta aperta in modo che l'animale potesse entrare e uscire a suo piacimento. Sull'hover-bus salutarono gli altri sette passeggeri e si recarono al lavoro come se fosse un giorno qualsiasi.

4

Ponter Boddit era cresciuto in quella parte del mondo, e conosceva da sempre la miniera di nichel. Eppure non aveva mai incontrato nessuno che si fosse spinto nei suoi recessi, dato che laggiù i lavori erano condotti da robot. Quando Klast aveva scoperto di essere affetta da leucemia, lei e Ponter avevano cominciato a frequentare altre persone malate di cancro, un po' per sostegno e solidarietà reciproci, un po' per scambiarsi informazioni. Si incontravano nei locali kobalant, che la sera erano liberi.

Ponter supponeva che molti dei malati fossero scesi nella miniera. Dopo tutto, a quelle profondità si era senza dubbio esposti a livelli di radioattività più alti del normale. Invece nessuno del gruppo che frequentava lo aveva fatto. Aveva cominciato a indagare, e aveva scoperto che quella era una miniera fuori dal comune, per il fatto che i livelli di radiazioni delle antiche rocce di granito erano eccezionalmente bassi.

Allora aveva elaborato una tesi. Era uno scienziato, e stava lavorando con Adikor Huld alla costruzione di computer quantistici. Ma i registri quantistici erano sensibilissimi alle perturbazioni esterne: avevano problemi con i raggi cosmici che provocavano delle decoerenze.

Per questo gli parve che la soluzione fosse proprio lì, sotto i loro piedi. Con un migliaio di passi di roccia sulla testa, i raggi cosmici non avrebbero più rappresentato un problema. A quelle profondità, i neutrini non avrebbero falsato gli esperimenti che lui e Adikor avevano in mente di tentare.

A capo dell'amministrazione di Saldak era stato nominato Delag Bowst, carica imposta dal Consiglio dei Grigi. Con gli amministratori andava sempre così: nessuno scelto per quel ruolo era adatto.

Ponter aveva presentato a Bowst la propria proposta: costruire all'interno della miniera un laboratorio dotato di un computer quantistico, e a sua volta Bowst aveva convinto i Grigi ad accogliere la richiesta. Dopo tutto, una civiltà tecnologica non poteva fare a meno dei metalli, e dato che la miniera non sempre era compatibile con la sicurezza ambientale, ogni proposta che potesse migliorarne la situazione era ben accetta.

Così fu costruito il laboratorio. Ponter e Adikor, però, avevano ancora problemi con la decoerenza, a causa delle scariche piezoelettriche dovute alla pressione delle rocce a quelle profondità. Ma Adikor pensava di aver risolto il problema, e quel giorno avevano intenzione di riprovare l'esperimento, puntando al numero più elevato mai usato fino ad allora.

L'hover-bus con i cuscini ad aria lasciò Ponter e Adikor all'ingresso della miniera. Era una magnifica giornata estiva, il cielo un immenso manto azzurro, proprio come aveva previsto il Companion di Ponter. L'aria era impregnata di polline, e dal lago giungevano i richiami lamentosi delle strolaghe. Ponter raccolse un casco dal magazzino e lo indossò. I due scienziati entrarono nell'ascensore cilindrico posto all'ingresso della miniera, Ponter azionò l'interruttore con il piede e la cabina cominciò la sua lunga discesa.

Giunti a destinazione, si diressero verso il lungo budello colmo di detriti che conduceva al laboratorio dei computer quantistici. Naturalmente, il laboratorio era sorto in una zona della miniera priva di minerali estraibili. Camminavano senza parlare, nel silenzio naturale e complice esistente tra due uomini che si conoscono da sempre.

Infine giunsero al laboratorio, una struttura composta da quattro sale, la prima delle quali era un cubicolo minuscolo adibito a cucina, dato che non valeva la pena di risalire in superficie per mangiare. La seconda era un gabinetto chimico, senza scarico, che bisognava svuotare ogni giorno. La terza era la sala di controllo, piena di strumenti e di ripiani da lavoro, mentre l'ultima era la sala computer, che aveva una superficie maggiore della casa dove abitavano.

La logica che governava la costruzione dei computer era legata a questioni di spazio: bisognava costruirli più piccoli possibile per ridurre al minimo i ritardi causati dalla velocità della luce. Ma il computer quantistico di Ponter e Adikor era basato sull'uso di protoni quantisticamente intrappolati in un registro, in maniera tale da poter distinguere tra reazioni che avevano luogo simultaneamente, proprio a causa di quel confinamento forzato, e reazioni dovute alla normale comunicazione tra due protoni che avveniva alla velocità della luce. Il modo più semplice per ottenere questo risultato era quello di lasciare uno spazio tra i registri, in maniera da poter misurare facilmente la velocità che la luce impiegava per passare da un registro all'altro. Per questa ragione, i protoni erano contenuti all'interno di colonnine magnetizzate sparse per tutta la sala.

I due scienziati si tolsero i caschi ed entrarono nella sala di controllo. Adikor curava la parte operativa del progetto, e aveva trovato il modo di concretizzare l'idea di Ponter con l'ausilio di software e di hardware. Si sedette alla consolle e cominciò a lanciare le routine che inizializzavano la rete del computer quantistico. «Tra quanto saremo pronti?» chiese Ponter.

«Ancora un quinto» rispose Adikor. «Non riesco a stabilizzare il registro 69.»

«Pensi che funzionerà?»

«Eh? Certamente» rispose Adikor con un sorriso. «Naturalmente ne ero certo anche ieri e ieri l'altro.»

«L'eterno ottimista» commentò Ponter.

«Ehi,» gli rispose Adikor «quando hai toccato il fondo non puoi far altro che risalire.»

Ponter rise. Passò sotto l'arco del cucinino e prese una lattina di acqua. Sperava davvero che quella fosse la volta buona. Il Consiglio dei Grigi si sarebbe riunito presto, e lui e Adikor avrebbero dovuto dimostrare il contributo alla comunità fornito dal loro progetto. Di solito le proposte fatte dagli scienziati venivano approvate — il fatto che la scienza avesse migliorato la qualità della vita era sotto gli occhi di tutti — ma era sempre meglio tirare fuori dei risultati concreti.

Ponter rimosse la linguetta della lattina con i denti e mandò giù alcuni sorsi di acqua fresca. Quindi tornò nella sala di controllo, sedette al suo tavolo e cominciò a esaminare un mazzo di fogli quadrati verde chiaro, ricontrollando i dati relativi al loro ultimo tentativo, tirando di tanto in tanto sorsate d'acqua. Dava la schiena ad Adikor, che stava verificando le procedure dall'altra parte della piccola sala. La parete principale della stanza era quasi tutta in vetro, una grande finestra che dava sull'ampio locale dov'era alloggiato il computer, che aveva un soffitto più alto e un pavimento più basso rispetto alle altre sale.

In realtà avevano già ottenuto dei successi importanti con il computer quantistico da loro ideato. Negli ultimi giorni avevano fattorizzato un numero che richiedeva 1073 atomi di idrogeno come registri: una quantità enormemente maggiore di tutto l'idrogeno contenuto nelle stelle dell'intera galassia, e un ordine di grandezza superiore alla potenzialità della sala dei registri, anche se questa era stata completamente riempita d'idrogeno. L'unica possibilità che l'esperimento riuscisse era quella di riuscire ad ottenere degli effettivi risultati di calcolo quantistico sovrapponendo uno sull'altro in stati multipli il limitato numero di registri fisici che avevano a disposizione.

In un certo senso, l'esperimento era semplicemente incrementale: un tentativo di fattorizzare un numero sempre più grande. Ma il numero in questione era solo uno tra i numeri praticamente infiniti che il teorema di Digandal considerava fondamentali. Non esisteva alcun computer tradizionale in grado di tentare quell'esperimento, per questo avevano ideato un computer quantistico.

Ponter analizzò alcune pagine della stampa, poi cambiò postazione e rettificò alcuni elementi del sistema di registrazione. Voleva assicurarsi che venisse registrata ogni fase dell'esecuzione, per non lasciare dubbi sui risultati. Se solo fossero riusciti…

«Pronto» disse Adikor.

Ponter sentì il cuore accelerare. Desiderava ardentemente che l'esperimento riuscisse, per lui e per Adikor. Agli inizi della carriera aveva avuto fortuna, e si era fatto un nome tra gli scienziati. Se anche fosse morto in quell'esperimento, sarebbe stato ricordato a lungo. Adikor meritava lo stesso successo, anche se era stato meno fortunato. Che cosa fantastica se fossero riusciti a dimostrare — o a confutare: sarebbe stato comunque un successo — il teorema di Digandal.

Nella saletta c'erano due terminali, posti alle estremità. Ponter stava lavorando a quello vicino l'arco che dava nel cucinino, Adikor si diresse verso il terminale libero, entrambi montati sulle pareti. Il controllo dei dati andava fatto su un'unica postazione, ma l'assetto che avevano messo a punto aveva fatto risparmiare il corrispettivo di quasi trenta metri di cavo quantisticamente transduttivo che collegava i vari registri. Adikor, in piedi, operava al suo terminale, mentre Ponter, seduto nell'altra postazione, continuava ad effettuare i controlli di routine.

«Fatto?» gli chiese Adikor.

Ponter guardò la serie di indicatori luminosi sul pannello di controllo, rosso sangue, il colore della salute. «Sì.»

Adikor annuì. «Dieci» disse cominciando il conto alla rovescia. «Nove. Otto. Sette. Sei. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Zero.»

Diversi indicatori luminosi lampeggiarono sul pannello di controllo, indicando che i registri erano attivati. In teoria, bastava una frazione di secondo per processare tutti i possibili fattori, e i risultati erano visualizzati come una serie di figure d'interferenza su una pellicola fotografica: per decodificarli e ordinarli in una lista di fattori bastava un computer tradizionale, e se Digandal era in errore e quello fattorizzato non era un numero primo la lista sarebbe stata lunghissima.

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