La genesi della specie - Sawyer Robert J. 5 стр.


Le pareti del corridoio erano tappezzate di bacheche che indicavano l'inizio dei corsi, orari e aule delle lezioni, riunioni dei circoli, inviti alla sottoscrizione di riviste, carte di credito convenienti e ogni sorta di articolo che gli studenti potessero vendere, compreso l'annuncio di un burlone che sperava di trovare qualcuno che comprasse la sua vecchia macchina da scrivere elettrica.

Mary proseguì lungo il corridoio deserto, i tacchi che picchiettavano sul pavimento. Passando davanti al bagno degli uomini sentì il rumore dello scarico, attivato forse automaticamente da un timer.

Aprì la porta a vetri antisfondamento che dava sulla tromba delle scale, e si diresse verso le quattro rampe in cemento. Al piano terra imboccò un altro corridoio, in fondo al quale c'era solo un portiere indaffarato. Attraversò il vestibolo d'ingresso, dove erano situate le cassette contenenti il giornale del campus, The Excalibur, e finalmente si lasciò alle spalle l'edificio, immergendosi nella calda aria estiva.

La luna non era ancora sorta. Mary si avviò sul marciapiede, dove incrociò alcuni studenti che non conosceva. Schiacciò un insetto e…

Sentì una mano serrarle la bocca e qualcosa di freddo e appuntito contro la gola. «Non fiatare» le intimò un'aspra voce gutturale, mentre veniva spinta all'indietro.

«Ti prego…» riuscì solo a dire Mary.

«Stai zitta» disse l'uomo continuando a trascinarla all'indietro, il coltello sempre puntato alla gola. Il cuore le martellava con violenza. L'uomo tolse la mano dalla bocca, e cominciò a strizzare il seno sinistro, facendole male.

L'aveva trascinata in una nicchia, due mura di cemento ad angolo retto nascoste dietro un grosso pino. La costrinse a voltarsi, immobilizzandola con le mani contro il muro, la mano sinistra che stringeva il pugnale e le serrava il polso. Adesso lo vedeva. Malgrado indossasse un passamontagna nero, per via del colore della pelle attorno agli occhi azzurri si accorse che era un bianco. Gli sferrò una ginocchiata nell'inguine, ma lo colpì solo di striscio perché l'uomo si inarcò all'indietro.

«Non ci provare» ansimò la voce. Il fiato sapeva di tabacco, le mani che le serravano i polsi erano sudate. Con un braccio la strattonò sbattendola contro il muro e puntandole il coltello al volto, mentre con l'altra mano apriva la lampo dei pantaloni. La donna sentiva un sapore rancido in gola.

«Ho… ho l'AIDS» provò a dire chiudendo gli occhi per non vedere.

L'uomo rise, un suono raschioso come di carta vetrata. «Allora siamo in due» rispose. Il cuore le sobbalzò. Ma forse anche lui mentiva. Quante volte l'aveva già fatto? E quante donne avevano tentato quella mossa disperata?

Adesso sentiva una mano sui fianchi, che spingeva in basso. La lampo si aprì e i pantaloni le scivolarono lungo le gambe, mentre il bacino dell'uomo con l'erezione dura come roccia sfregava contro le sue mutandine. Cacciò un urlo, ma l'implacabile mano le afferrò subito la gola, le unghia affondate nella carne. «Stai zitta, puttana.»

Perché non passava nessuno? Perché non c'era anima viva lì intorno? Dio, perché…

Sentì la mano strapparle le mutandine, poi il pene contro le grandi labbra, che affondò subito nella vagina. Un dolore lancinante, come una lacerazione interna.

Non è un atto di libidine, pensava mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. È una violenza sessuale. La schiena sbatteva contro il muro di cemento, e l'uomo spingeva sempre più forte, penetrandola, ancora, ancora e ancora, il rantolo animalesco che aumentava ad ogni affondo.

Finalmente, si fermò. Lo tirò fuori: sapeva che doveva guardarlo per notare qualche dettaglio utile a identificare il suo aggressore, per esempio se era circonciso, o una qualsiasi cosa che potesse inchiodare quel bastardo, ma fu più forte di lei. Alzò la testa verso il cielo scuro, una macchia annebbiata dalle lacrime che le bruciavano gli occhi.

«Adesso aspetta qui» disse l'aggressore passandole la punta del coltello sulla guancia. «Rimani ferma un quarto d'ora senza fiatare.» Poi sentì il rumore della lampo che si chiudeva e i passi sull'erba che si allontanavano velocemente.

Si appoggiò al muro e si lasciò scivolare sul marciapiede, rannicchiandosi con le ginocchia sotto il mento. Non sopportava l'idea di essersi fatta scappare quegli stupidi singhiozzi.

Dopo un po' si mise una mano tra le gambe, per controllare se stesse sanguinando. No, grazie a Dio.

Temeva di vomitare se si fosse alzata in piedi, quindi aspettò che il respiro tornasse regolare e che la nausea passasse. Poi si rialzò lentamente, sentendo dolore. In lontananza, voci di donne, due studentesse che parlavano allegramente. Avrebbe voluto chiedere aiuto, ma la voce non le uscì.

Aveva freddo, come non ne aveva mai provato, malgrado dovessero esserci almeno venticinque gradi. Si strofinò, per riscaldarsi.

Si riebbe dopo… cinque minuti? Cinque ore? Chi poteva dirlo? Doveva trovare un telefono, comporre il 113 e chiamare la polizia di Toronto… o la polizia del campus, o — lo sapeva, l'aveva letto sul manuale distribuito dall'università — l'ufficio denunce per le violenze sessuali dell'università, ma…

Ma non voleva parlarne con nessuno, non voleva che qualcuno la vedesse… in quelle condizioni.

Si tirò su i pantaloni, fece un grosso respiro e si avviò. Non si accorse subito che invece di andare verso la macchina stava tornando alla facoltà di scienze. Poco dopo era di nuovo lì. Salì le quattro rampe di scale tenendosi saldamente al corrimano, temendo di perdere l'equilibrio e di cadere. Per fortuna, il corridoio era deserto, come l'aveva lasciato. Lo attraversò senza incontrare nessuno, entrò nel laboratorio e accese le luci.

Il problema non era rimanere incinta, dato che prendeva la pillola da quando aveva sposato Colm. Aveva continuato a prenderla anche dopo la separazione, anche se tutto sommato non ce n'era stato motivo. Il problema era l'AIDS: doveva fare il test al più presto.

Decise di non raccontare a nessuno quello che le era accaduto. Eppure, quante volte aveva imprecato contro le donne che non denunciavano gli stupri subiti? Era come un tradimento verso le altre donne, che permetteva a un mostro di farla franca e riprovarci con qualcun'altra, a… a lei, come era successo adesso, ma…

… era facile parlare quando non capitava a te.

Sapeva quello che rischiavano le donne che accusavano gli uomini di stupro, lo aveva visto innumerevoli volte alla TV. Avrebbero fatto di tutto per dimostrare che la colpa era sua, che aveva reso falsa testimonianza, che in una qualche maniera era consenziente, che era una donna di scarsa moralità. 'Allora, lei afferma di essere una buona cattolica, signora O'Casey - ops, mi spiace, lei non porta più questo nome, vero? Da quando ha lasciato suo marito Colm. Bene, adesso il suo nome è Vaughan, vero? Eppure, se non erro, legalmente lei è ancora sposata con il professor O'Casey. Per favore, vuole dire alla corte se da quando ha lasciato suo marito è andata a letto con altri uomini?'

Lo sapeva bene: la giustizia non abita quasi mai le aule di tribunale. L'avrebbero fatta a pezzi e ricostruita in sembianze che lei stessa non avrebbe riconosciuto.

E comunque non sarebbe servito a niente. Il mostro l'avrebbe passata liscia.

Respirò a fondo. Forse era meglio agire diversamente. Ma l'unica cosa che a quel punto importava davvero era la prova fisica della violenza, e lei, la professoressa Mary Vaughan, era competente quanto una poliziotta specializzata nell'accertamento delle violenze sessuali.

Poiché la porta del laboratorio era a vetri, si mise in un angolo dove non era visibile dal corridoio e si abbassò i pantaloni. Al suono della lampo che si apriva il cuore cominciò a battere forte. Prese una provetta di vetro e un tampone di cotone, e soffocando le lacrime raccolse un campione della porcheria che l'uomo le aveva lasciato dentro. Sigillò la provetta, sull'etichetta scrisse con una penna rossa la data, il suo nome e il numero più adatto a indicare un mostro come quello, 'Vaughan 666.' Poi si sfilò le mutandine e le pose in una vaschetta di vetro opaco, su cui scrisse le stesse cose. Quindi mise entrambe le provette nel congelatore dove conservava i campioni, accanto ai DNA di una colomba migratrice, di una mummia egiziana e a un campione di pelo di mammut.

7

«Dove mi trovo?» chiese Ponter con voce tremante, che malgrado ogni sforzo non riusciva a controllare. Era ancora seduto su una strana sedia che si muoveva su delle piccole ruote; meglio così, non era sicuro di riuscire a stare in piedi.

«Calmati, Ponter» disse il Companion «la frequenza cardiaca è…»

«Calmarmi!» scattò, come se Hak avesse detto un'assurdità. «Ti ho chiesto: dove mi trovo?»

«Non lo so. Non riesco a intercettare il segnale dalla torre di controllo. E per di più non riesco a connettermi con la nostra rete di informazioni planetarie, e dall'archivio centrale non risponde nessuno.»

«Sei danneggiato?»

«No.»

«Allora… non siamo sulla Terra, vero? Altrimenti capteresti dei segnali e…»

«Sono sicuro che questa è la Terra» disse Hak. «Hai fatto caso al sole mentre ti trasportavano su quel veicolo bianco?»

«Cosa?»

«Ha la stessa temperatura e posizione astronomica di Sol, rispetto all'orbita terrestre. E poi ho riconosciuto quasi tutte le piante e gli alberi che ho visto sinora. No, questa è proprio la Terra.»

«Ma questa puzza! L'aria è schifosa.»

«Be', per questo mi devo fidare della tua parola.»

«È possibile che… abbiamo viaggiato nel tempo?»

«Mi sembra improbabile» rispose Hak. «Ma se stanotte riuscirò a vedere le costellazioni ti saprò dire se abbiamo viaggiato avanti o indietro nel tempo per un periodo apprezzabile, e se individuo gli altri pianeti e la fase lunare sarò in grado di calcolare la data esatta…»

«Ma come facciamo a tornare a casa? Come…»

«Ponter, devo nuovamente raccomandarti di mantenere la calma. Stai quasi per iperventilare. Inspira profondamente. Così. Adesso espira lentamente. Bene, così. Rilassati. Adesso un altro respiro…»

«Che creature sono quelle?» disse Ponter puntando il dito verso la figura ossuta scura di pelle e senza capelli, e l'altra dalla pelle più chiara e con un pezzo di stoffa arrotolato sulla testa.

«Tiro a indovinare: sono Gliksins.»

«Gliksins!» esclamò Ponter, così forte che i due esseri si voltarono a guardarlo. E in tono più basso aggiunse: «Gliksins? Oh, andiamo…»

«Guarda laggiù quelle radiografie di cranii.» Hak comunicava con Ponter attraverso un paio di impianti cocleari, ma direzionando la voce a destra o a sinistra era in grado di indicare una posizione come se l'avesse puntata con un dito. Ponter si mise in piedi, malfermo sulle gambe, e attraversò la stanza nella direzione opposta a dove si trovavano quegli strani esseri, avvicinandosi a un pannello illuminato simile a quello che i due stavano esaminando, con sopra attaccate le radiografie di alcuni cranii.

«Guarda!» esclamò indicando le figure di quelle ossa sconosciute. «Sembrano proprio Gliksins, no?»

«Direi di si. Nessun altro primate ha l'osso frontale così poco prominente, o quella sporgenza tra la fronte e la mandibola.»

«Gliksins! Ma saranno estinti da… be', da quanto?»

«Almeno da quattrocentomila mesi» rispose Hak.

«Ma questa non può essere la Terra di quel periodo» rifletté Ponter. «Voglio dire, è impossibile che la civiltà che abbiamo visto venendo qui non abbia lasciato tracce fino a noi. I Gliksins al massimo facevano armi rudimentali scheggiando la pietra, vero?»

«Sì.»

Ponter si sforzò di non lasciar trasparire la vena isterica nella sua voce: «E allora te lo chiedo di nuovo: Dove ci troviamo?»

Reuben Montego stentava a credere alle parole del medico del pronto soccorso. «Cosa intende con 'Sembra proprio un Neandertal'?»

«Le caratteristiche anatomiche del cranio sono inequivocabili» rispose Singh. «Mi creda, sono specializzato in craniologia.»

«Ma come è possibile, dottor Singh? La specie dei Neandertal è estinta da milioni di anni.»

«Per la verità solo da ventisettemila anni o giù di lì.»

«Ma allora…»

«Non so cosa dirle.» Singh indicò con la mano le lastre fissate sul pannello illuminato. «Quello che so è che l'insieme delle caratteristiche del cranio che abbiamo davanti ai nostri occhi sono inequivocabili. Una o due di esse potrebbero comparire nel cranio dell'Homo sapiens dei nostri giorni, ma tutte insieme è impossibile.»

«Quali caratteristiche?» chiese Reuben.

«L'osso frontale, ovviamente» rispose Singh. «Faccia caso a come è diverso da quello degli altri primati: ha una doppia arcata, con un solco al centro. Siamo in presenza di un caso di cospicuo prognatismo facciale: osservi la prominenza delle mandibole, l'assenza del mento, la cavità retromolare» aggiunse indicando il rispettivo spazio. «Vede quelle protuberanze triangolari nella cavità nasale? Non si trovano in nessun altro mammifero, tanto meno negli altri primati.» Quindi, tamburellando con le dita sulla parte posteriore del cranio, continuò: «Vede questa sporgenza qui dietro? Si chiama chignon occipitale, ed è un altro tratto distintivo dei Neandertaloidi.»

«Mi sta prendendo in giro?»

«Non mi permetterei mai.»

Reuben si voltò a guardare lo sconosciuto, che nel frattempo si era alzato dalla sedia a rotelle e fissava con aria stupita le lastre di un paio di cranii fissate a un pannello sul muro. Quando il radiologo aveva portato le lastre, lui e Singh non si trovavano nella stanza, quindi qualcuno, per chissà quale motivo, poteva averle sostituite, anche se…

No, quelle erano lastre autentiche, di un essere vivente e non di un fossile: si vedeva chiaramente la cartilagine nasale e il contorno della carne attorno alle ossa. Eppure nella mandibola c'era qualcosa di strano. Alcune parti erano di un grigio più chiaro, levigate e regolari come fossero formate da una materia meno compatta e apparentemente uniforme.

«Si tratta di un'imitazione» disse Reuben indicando la parte anomala della mascella. «Secondo me è un impostore. Si è fatto fare una plastica per sembrare un Neandertal.»

Singh sbirciò appena la lastra. «È vero, questa parte sembra ricostruita, ma solo qui, sotto la mandibola. Il resto del cranio apparentemente è naturale.»

Reuben lanciò un'occhiata allo sconosciuto, che stava ancora osservando le lastre e borbottando qualcosa tra sé. Cercò di immaginarne il cranio: era proprio quello che Singh gli stava mostrando?

«Ha parecchi denti artificiali,» continuò Singh che stava ancora studiando la lastra «tutti fissati alla sezione mandibolare ricostruita. Gli altri sembrano naturali, anche se hanno le radici taurodonti, altro tratto caratteristico dei Neandertaloidi.»

Reuben tornò a osservare la lastra. «Senza cavità» commentò tra sé, distrattamente.

«Giusto» confermò Singh, che esaminò l'immagine ancora per qualche secondo prima di formulare la diagnosi: «Ad ogni modo, la lastra non evidenzia alcuna frattura, né ematomi subdurali. Non vedo nessuna ragione per trattenerlo in ospedale.»

Ancora una volta Reuben studiò lo sconosciuto. Chi diavolo poteva essere? Tutto quel che sapevano era che aveva subito un intervento chirurgico piuttosto serio di ricostruzione mandibolare, e che parlava una lingua ignota. Era forse membro di qualche setta bizzarra? Era quella la ragione per cui aveva fatto irruzione nell'osservatorio? Poteva anche essere, ma…

Ma Singh aveva ragione. Eccezion fatta per la ricostruzione mandibolare, quello era un cranio naturale. Reuben Montego attraversò a passi lenti la stanza, come se fosse molto stanco, come se… Improvvisamente si rese conto che si stava avvicinando allo sconosciuto non come a un essere umano, ma come ci si avvicinerebbe a un animale selvaggio. Eppure, fino a quel momento, i suoi comportamenti erano stati perfettamente civili.

L'uomo sentì arrivare Reuben. Distolse lo sguardo dalle lastre e si voltò a fronteggiarlo.

Il dottore fissò lo sconosciuto. Ne aveva già notato la stranezza del viso. La fronte sfuggente e le orbite ampie e tondeggianti erano la prima cosa che saltava alla vista. I capelli erano divisi esattamente nel mezzo da una riga, cosa che sembrava più una caratteristica naturale che non un'acconciatura. Il naso, diverso da qualsiasi altro avesse mai visto, era enorme ma per niente aquilino, e non aveva ponte.

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