Reuben sollevò lentamente la mano destra, le dita leggermente aperte, cercando di rendere il gesto il meno minaccioso possibile. «Posso?» disse avvicinando la mano al volto dello sconosciuto.
L'uomo poteva non aver compreso le parole, ma l'intenzione era evidente. Infatti piegò la testa in avanti come per invitare al tocco. Reuben fece scorrere le dita sull'arcata sopraccigliare, sulla fronte, su tutta la superficie del cranio, percependo al tatto nella parte posteriore il — come lo aveva chiamato Singh? — lo chignon occipitale, una protuberanza ossea sotto la pelle. Non c'era il minimo dubbio: era proprio il cranio della lastra.
«Reuben» si presentò il dottor Montego toccandosi il petto. «Roo-ben.» Quindi, con i palmi delle mani alzati, indicò lo sconosciuto.
«Ponter» disse lo straniero con voce sonora e profonda.
Naturalmente, poteva anche aver capito che la parola 'Reuben' si riferisse alla specie umana cui apparteneva Montego, e di conseguenza la parola 'Ponter' nella sua lingua poteva indicare la specie dei Neandertal.
Singh si avvicinò. «Naonihal» disse, svelando il significato della N che Reuben aveva letto sulla targhetta. «Mi chiamo Naonihal.»
«Ponter» ripeté lo straniero. Erano ancora possibili altre interpretazioni, pensò Reuben, ma probabilmente quello era il suo nome.
Reuben annuì al Sikh. «Grazie per l'aiuto.» Quindi si voltò verso Ponter e gli fece segno di seguirlo. «Andiamo.»
L'uomo fece per dirigersi verso la sedia.
«No» disse Reuben. «No, lei sta bene.»
Gli fece di nuovo segno di seguirlo, e stavolta l'uomo capì. Singh staccò le lastre dal pannello e le infilò in una grossa busta. Aprirono una porta di vetro smerigliato, l'attraversarono, girarono l'angolo di una parete e…
I flash delle macchine fotografiche gli esplosero negli occhi.
«È questo l'uomo che ha fatto saltare in aria l'Osservatorio di Sudbury?» gridò una voce maschile.
«Di che cosa è accusato?» chiese una voce femminile.
«È ferito?» gridò un'altra voce maschile.
Ci volle qualche attimo prima che Reuben si rendesse conto della situazione. Riconobbe il corrispondente della stazione locale della CBC, e il giornalista del Sudbury Star che si occupava della miniera. Non conosceva l'altra dozzina di persone che si agitavano intorno, brandendo i microfoni con le sigle della Global Television, della CTV, di Newsworld e delle radio locali. Reuben lanciò un'occhiata a Singh e sospirò, pensando che tutto quello fosse inevitabile.
«Qual è il suo nome?» gridò un altro giornalista.
«Si tratta di un…?»
I fotografi continuavano a scattare, ma Ponter non cercava di coprirsi il volto. In quel momento arrivarono due agenti della polizia militare in uniforme blu scuro. «È questo il terrorista?»
«Terrorista?» si meravigliò Reuben. «Non c'è nessuna prova che si tratti di un terrorista.»
«Lei è il dottore della miniera, vero?» gli chiese uno dei poliziotti.
Reuben annuì. «Reuben Montego. Non credo che quest'uomo sia un terrorista.»
«Ma ha fatto saltare in aria l'osservatorio dei neutrini!» urlò un giornalista.
«Sì, l'osservatorio è stato danneggiato» rispose Reuben «e lui si trovava lì, ma non credo che lo abbia fatto di proposito. Dopo tutto, stava quasi per annegare.»
«Questo non vuol dire niente,» disse il poliziotto «quell'uomo deve seguirci.»
Montego si sentì impotente. Guardò Ponter, i giornalisti, poi Singh. «Lei sa cosa accade in casi del genere» disse sommessamente al Sikh. «Se lo portano via, nessuno lo vedrà più.»
Singh annuì lentamente. «Immagino sia così.»
Reuben si mordicchiò il labbro inferiore, pensando al da farsi. Quindi tirò un grosso respiro e parlò a voce alta. «Non so da dove venga quest'uomo» dichiarò mettendo un braccio sulle ampie spalle di Ponter «e non so come sia giunto fin qui, ma si chiama Ponter, e…»
Si fermò. Singh lo stava guardando. Reuben sapeva che quello era tutto ciò che poteva dire. Sì, adesso sapevano il nome, ma cos'altro avrebbe potuto aggiungere? Se si fermava lì nessuno lo avrebbe preso per pazzo. Ma se avesse continuato…
Se lo avesse fatto, si sarebbero spalancate le porte dell'inferno.
«Può sillabare il nome?» gridò un giornalista. Reuben chiuse gli occhi, cercando di farsi forza. «Solo foneticamente» disse guardando il reporter. «P-O-N-T-E-R. E sono sicuro che chi di voi l'ha scritto per primo è stato anche il primo a rendere questo nome con l'alfabeto inglese.» Si fermò di nuovo, lanciò un'altra occhiata a Singh cercando il suo sostegno, e proseguì: «Sospettiamo che il signore qui presente non appartenga alla specie Homo sapiens sapiens. Potrebbe trattarsi di… be', credo che gli antropologi stiano ancora dibattendo sulla corretta designazione di questo tipo di ominidi, no? Sembra trattarsi del cosiddetto Homo neanderthalensis oppure Homo sapiens neanderthalensis. In ogni caso, sembra proprio un Neandertal.»
«Cosa?» disse uno dei giornalisti.
Un secondo si limitò ad uno sbuffo beffardo.
E un terzo — il giornalista del Sudbury Star che sì occupava della miniera — fece una smorfia. Reuben sapeva che era laureato in geologia; quindi, durante gli studi, aveva certamente seguito un corso o due di paleontologia. «Su quali basi può fare un'affermazione del genere?» gli chiese con voce scettica.
«Ho visto le lastre del suo cranio. Il qui presente dottor Singh ne è sicurissimo.»
«E cosa avrebbe a che fare un Neandertal con la distruzione dell'Osservatorio di neutrini di Sudbury?» domandò un altro giornalista.
Reuben scrollò le spalle, riconoscendo la pertinenza della domanda. «Non lo sappiamo.»
«È uno scherzo» disse l'inviato del Sudbury Star. «Non può essere altrimenti.»
«Se è così, il dottor Singh e io siamo stati tratti in inganno.»
«Dottor Singh,» gridò un reporter «si tratta di… Questa persona qui è un uomo delle caverne?»
«Spiacente, ma posso discutere di un paziente solo con altri medici» rispose Singh.
Reuben lo guardò, smanioso. «Dottor Singh, la prego…»
«No» disse Singh. «È la regola…»
Reuben abbassò un attimo lo sguardo, pensieroso, poi si girò verso Ponter, supplichevole. «Adesso sta a te» gli disse.
Certamente l'uomo non comprese le parole, ma sembrò afferrare la situazione. Per la verità, Reuben pensò anche che Ponter avrebbe avuto buone possibilità di scappare, se avesse voluto. Non particolarmente alto, era però di gran lunga più robusto dei due poliziotti. Ma gli occhi di Ponter ruotarono subito verso Singh, e Reuben, che lo seguiva con lo sguardo, si accorse che stava guardando la busta di manila che Singh stringeva a sé.
Ponter si avvicinò a Singh a grandi passi. Reuben vide uno dei poliziotti mettere la mano sulla fondina; evidentemente pensava che stesse per assalire il dottore. Ma Ponter si fermò subito, proprio di fronte a Singh, tendendogli la mano robusta, i palmi in alto, con un gesto universale.
Singh sembrò esitare, poi cedette la busta. Nella stanza non c'erano pannelli luminosi, ed era quasi buio, ma da una grossa finestra filtrava la luce di un lampione. Ponter si avvicinò alla finestra; forse aveva capito che i poliziotti avrebbero cercato di fermarlo se si fosse diretto verso la porta a vetri dell'ingresso. Prese una lastra — la sezione laterale — e la poggiò sul vetro in modo che fosse visibile a tutti. Le telecamere ripresero la scena, e ci fu un nuovo balenare di flash. Ponter fece segno a Singh di avvicinarsi, e il Sikh obbedì, seguito da Reuben. Poi batté il dito sulla lastra, quindi indicò Singh con la mano. Ripeté la sequenza due o tre volte, aprì e chiuse la mano sinistra con le dita tese, invitando il dottore a 'parlare' con quel gesto inequivocabile.
Il dottor Singh si schiarì la gola, si guardò intorno a esaminare i volti che affollavano la sala, scrollò appena le spalle e attaccò: «Ehm, sembra che il paziente mi abbia autorizzato a parlare delle sue lastre.» Tirò fuori dal taschino del camice una penna e la usò come bacchetta. «Vedete tutti questa protrusione nella parte posteriore del cranio? I paleantropologi la chiamano chignon occipitale…»
8
Mary Vaughan guidò lentamente fino al suo appartamento a Richmond Hill, a dieci chilometri dall'università. Abitava nella Observatory Lane, nei pressi dell'Osservatorio David Dunlap, che un tempo — per un breve periodo e parecchi anni prima — aveva ospitato il più grande telescopio ottico del mondo, oramai ridotto a poco più di un centro studi a causa del continuo sviluppo di Toronto, le cui luci ne pregiudicavano il funzionamento.
Aveva scelto di vivere lì anche per la sicurezza che quel posto offriva. Mentre risaliva il vialetto, dalla guardiola il custode la salutò con la mano, ma la donna evitò il suo sguardo. Continuò a guidare costeggiando i prati ben curati e i grossi pini, fino al garage sotterraneo. Il suo posto auto era piuttosto lontano dagli ascensori; prima di allora non aveva mai avuto paura a percorrere quel tragitto, a qualsiasi ora. Quella sera, invece, tremava a ogni passo, pregando di non incontrare nessuno in quella notte diabolica.
Il modo di camminare tradiva forse qualcosa? Aveva il passo troppo affrettato? La testa esageratamente incurvata? E dal modo in cui serrava la giacca, non sembrava che i bottoni non riuscissero a chiuderla completamente e a proteggerla?
Entrò nel corridoio che conduceva all'ascensore, oltrepassando due porte, e prenotò la salita, aspettando l'arrivo di una delle tre cabine. Di solito ingannava l'attesa leggendo gli avvisi affissi nella bacheca dall'amministratore e dagli altri inquilini. Ma quella notte teneva gli occhi bassi, sulle lise mattonelle punteggiate del pavimento. L'ascensore non aveva l'indicatore luminoso dei piani ma solo il pulsante della prenotazione, che si sarebbe spento alcuni secondi prima dell'apertura delle porte. Dio, non vedeva l'ora di arrivare a casa. Lanciò un'occhiata di straforo al pulsante, ma non riuscì a mantenere lo sguardo sulla freccia illuminata puntata verso l'alto…
Finalmente, la porta dell'ascensore più lontano da dove si trovava si aprì. Entrò e spinse il pulsante del quattordicesimo piano. In realtà abitava al tredicesimo, ma avevano saltato quel numero perché portava male. In alto, sulla pulsantiera, c'era una targhetta di vetro con dei caratteri stampati a laser: 'Il Consiglio di Amministrazione vi augura una buona giornata.'
L'ascensore cominciò a salire. Giunto al piano si fermò, e le porte si aprirono con un sussulto. Attraversò il corridoio, appena ritappezzato per decisione del Consiglio di Amministrazione in un orribile rosso scuro, fino alla porta del suo appartamento. Affondò la mano nella borsa, trovò le chiavi, le tirò fuori e…
… e rimase a fissarle, con gli occhi pieni di lacrime, la vista annebbiata e il cuore di nuovo in tumulto.
Il piccolo portachiavi aveva un fischietto di plastica giallo, un regalo fattole dalla praticissima suocera una dozzina di anni prima. Non si era mai presentata l'occasione di usarlo, finché… non era stato troppo tardi. Oh, avrebbe potuto farlo dopo la violenza subita, ma…
… ma lo stupro era un reato di violenza, e lei era sopravvissuta. Le aveva piazzato un coltello alla gola, la punta premuta contro la carne, eppure non l'aveva ferita né sfigurata. Se avesse dato l'allarme, forse l'uomo sarebbe tornato e l'avrebbe uccisa.
Dal corridoio si udì un suono lieve: un altro ascensore era giunto al piano, e tra pochi secondi sarebbe comparso un vicino. Armeggiò con la chiave nella serratura, il fischietto che pendeva, la aprì e si precipitò dentro.
Accese le luci e chiuse la porta. Si tolse le scarpe, attraversò il soggiorno dalle pareti color pesca, notando senza curarsene che la lucetta rossa della segreteria telefonica le faceva l'occhiolino. Entrò nella stanza da letto e si spogliò, pensando che quei vestiti non li avrebbe indossati mai più, li avrebbe gettati via perché per quante volte li avesse lavati non sarebbero mai più tornati puliti. Andò nel bagno, senza accendere la luce, sfruttando quella della lampada Tiffany posta sul comodino. Si infilò nella doccia, e nella semioscurità cominciò a strofinarsi, a sfregarsi, a scrostarsi fino a spellarsi. Poi si asciugò, tirò fuori un pigiama di flanella pesante che la vestiva completamente, che usava per gli inverni più rigidi, lo indossò e camminando carponi sul letto si infilò sotto le lenzuola. Si abbracciò, cominciò a tremare e a piangere, finché, dopo ore di inutili tentativi, cadde in un sonno intermittente, costellato da incubi in cui era inseguita, percossa e sfregiata da coltelli.
Reuben Montego non aveva mai incontrato il grande capo, il presidente della Inco. Quando gli dissero che voleva parlargli fu non poco sorpreso, e la cosa lo mise in trepidazione.
Reuben era orgoglioso del suo principale. Come molte società canadesi, la Inco era nata come un'azienda affiliata a una compagnia americana; nel 1916 era divenuta il braccio canadese della Compagnia Internazionale del Nichel, che operava nel campo minerario e che aveva sede nel New Jersey, finché dodici anni dopo, nel 1928, con una sottoscrizione di azioni era divenuta la società capogruppo.
Le attività minerarie principali si svolgevano attorno al cratere di origine meteoritica di Sudbury, dove, un milione e ottocentomila anni fa, un asteroide da uno e tre chilometri di diametro aveva impattato il suolo ad una velocità di quindici klick al secondo.
Le sue fortune avevano seguito quelle della domanda di nickel; la società forniva un terzo della produzione mondiale. In tutti quegli anni, la Inco aveva cercato di diventare una società per azioni attenta alle istanze sociali, e quando nel 1984 Herbert Chen, della California University, aveva proposto la miniera Creighton, di proprietà della Inco, quale sede ideale dove costruire il rilevatore di neutrini più avanzato al mondo, per via dei bassi livelli di radioattività e per la disponibilità di grosse quantità di acqua pesante accumulate per l'uso dei reattori CANDU del Canada, la Inco aveva accettato con entusiasmo l'idea di cedere liberamente il sito, accordandosi sul fatto che avrebbe recuperato solo le spese per i lavori di scavo di ulteriori dieci piani sotto il livello della miniera, dove avrebbe preso posto la camera di rilevamento, e per la costruzione di una galleria di collegamento lunga un chilometro e duecento metri.
Sebbene l'Osservatorio di Sudbury fosse il frutto di un progetto congiunto di cinque università canadesi, di due americane, di Oxford, dell'America's Los Alamos, della Lawrence Berkeley e dei Brookhaven National Laboratories, la denuncia a carico dell'uomo di Neandertal, quel tal Ponter, spettava legalmente alla proprietà della miniera, quindi alla Inco.
«Buongiorno, signore» salutò Reuben quando il presidente rispose al telefono. «La prego di perdonarmi per averla disturbata a casa. Sono il dottor Reuben Montego, il medico del…»
«So chi è lei» rispose una voce educata e profonda.
Reuben entrò in agitazione, ma continuò: «Signore, vorrei pregarla di chiamare la polizia militare per informarla che la Inco non ha intenzione di sporgere denuncia contro l'uomo trovato nell'Osservatorio.»
«La sto ascoltando.»
«Ho insistito affinché l'ospedale non lo dimettesse. Secondo la letteratura medica, l'ingestione di grosse quantità di acqua pesante può far aumentare la pressione osmotica tra le membrane cellulari, causando la morte. Ora, quell'uomo non dovrebbe aver ingerito quantità tali da provocare dei danni, ma stiamo usando questa motivazione come pretesto per non farlo dimettere. Altrimenti, a quest'ora sarebbe già in galera.»
«In galera» ripeté il presidente divertito.
Reuben si sentì ancora più confuso. «Comunque, come le ho già detto, non credo che quell'uomo debba finire in prigione.»
«Mi dica perché.»
E Reuben lo fece.
Il presidente della Inco era un uomo risoluto: «Farò quella telefonata.»