— Ma temo che non mi abbia creduto. Difficilmente sarei riuscito a convincerlo che quello che mi interessava fosse il destino dei vermi. E lui aveva anche un’altra qualità: una sincerità assoluta. Non ricordo nemmeno una occasione in cui abbia mentito. Persino in quell’età in cui i bambini mentono spesso e senza motivo, solo perché la menzogna dà loro un piacere puro e disinteressato. Ma lui non mentiva. E inoltre disprezzava chi mentiva. Anche se mentiva disinteressatamente. Sospetto che nella sua vita si sia verificato un avvenimento, in cui per la prima volta si sia reso conto, con orrore e disprezzo, che gli uomini possano mentire. Anche questo momento mi manca… Comunque, non credo che le servirebbe. A lei interessa molto di più sapere come sia maturato in lui il futuro zoopsicologo…
E Sergej Pavlovič cominciò a raccontare.
Quando si è in ballo, bisogna ballare. Ascoltai con estrema attenzione, e al momento giusto esclamai: «Ma davvero!», e una volta mi permisi perfino un’esclamazione un po’ volgare: «Il diavolo mi porti! Questo è proprio quello di cui avevo bisogno!». A volte odio la mia professione.
Poi chiesi:
— E amici non ne aveva molti?
— Amici non ne aveva affatto, — disse Sergej Pavlovič. — Non lo vedo dall’esame di maturità, ma gli altri ragazzi del suo gruppo mi hanno detto che nemmeno loro l’hanno più visto. Non ne parlano volentieri, ma mi è sembrato di capire che lui eviti ogni incontro.
E all’improvviso esplose:
— Ma perché le interessa proprio Lev? Ho portato al diploma centosettantadue persone. Perché fra tutti le occorre proprio Lev? Vede, io non lo considero uno dei miei alunni! Non posso considerarlo tale! Lui è stato un mio fallimento! Il mio unico fallimento! Fin dal primo giorno, e per dieci anni di seguito, ho cercato di stabilire un contatto con lui, di gettare un filo, anche sottile, fra di noi. Ho pensato a lui dieci volte più che a qualsiasi altro mio alunno. Mi sono dato da fare, ma tutto, proprio tutto quello che ho fatto si è risolto in niente…
— Sergej Pavlovič! — dissi. — Ma cosa dice? Abalkin è un ottimo specialista, uno studioso di alta classe, io l’ho incontrato personalmente…
— E come l’ha trovato?
— Un ragazzo notevole, un entusiasta… È stato durante la prima spedizione fra i Testoni. Tutti lo stimavano molto, lo stesso Komov riponeva in lui grandi speranze… E queste speranze si sono poi avverate, badi bene!
— Ho dei lamponi squisiti, — disse. — I primi lamponi di tutta la regione. La prego, li assaggi…
Mi fermai di botto e mi servii.
— I Testoni… — sbottò lui con amarezza. — È possibile, è possibile. Ma vede, che ha talento lo so pure io. Solo, in questo io non ho alcun merito…
Per un po’ mangiammo in silenzio i lamponi con il latte. Sentivo che da un momento all’altro avrebbe portato il discorso su di me. Era chiaro che non aveva intenzione di continuare a parlare di Lev Abalkin, e la semplice cortesia esigeva che ora si parlasse di me. Dissi in fretta:
— Le sono molto grato, Sergej Pavlovič! Mi ha fornito moltissimo materiale interessante. È solo un peccato che non abbia avuto amici. Contavo molto di trovare qualche suo amico.
— Se vuole, le posso dare i nomi dei suoi compagni di classe… — Tacque e aggiunse all’improvviso: — Ecco qua. Provi a trovare Maja Glumova.
L’espressione del suo viso mi colpì. Era assolutamente impossibile immaginare che cosa gli fosse venuto in mente in quel momento, quali associazioni avessero richiamato in lui quel nome, ma si poteva supporre, con ogni probabilità, che fossero estremamente sgradevoli. Si coprì addirittura di macchie violacee.
— Una compagna di scuola? — chiesi, per nascondere il mio imbarazzo.
— No, — disse. — Cioè, ha studiato nella nostra scuola. Maja Glumova. Mi pare che sia diventata uno storico.
1° giugno dell’anno 78. Un piccolo incidente con Jadwiga Michailovna
Alle 19.23 tornai a casa e cominciai a cercare Maja Glumova, storico. Non passarono nemmeno cinque minuti e già la scheda informativa mi stava davanti.
Maja Tojvovna Glumova era di tre anni più giovane di Lev Abalkin. Dopo la scuola aveva frequentato i corsi per il personale di approvvigionamento del COMCON-1 e poi aveva preso parte alla tristemente famosa operazione “Arca”; successivamente si era iscritta alla facoltà di storia della Sorbona. Si era specializzata all’inizio sull’epoca della Prima Rivoluzione Tecnico-scientifica, in seguito si era occupata della storia delle imprese spaziali. Aveva un figlio di undici anni, Tojvo Glumov, ma sul marito non aveva dato informazioni. Al momento attuale — o meraviglia! — lavorava come addetta al fondo speciale del Museo delle Civiltà Extraterrestri, che si trovava a tre isolati da noi, in Piazza della Stella. E abitava lì vicino, nel Viale degli Abeti Canadesi.
Le telefonai subito. Sullo schermo apparve la faccia seria di un biondino dal naso all’insù, circondato da tantissime lentiggini. Indubbiamente, doveva essere Tojvo Glumov junior. Fissandomi con trasparenti occhi chiari, mi spiegò che la mamma non era in casa, che doveva tornare ma poi aveva telefonato e aveva detto che sarebbe rientrata l’indomani prima di andare al lavoro. Cosa doveva riferirle? Dissi che non doveva riferire niente e salutai.
Dunque, bisognava aspettare fino al mattino, e allora lei avrebbe cercato a lungo di ricordare chi fosse questo Lev Abalkin, e poi, quando se lo fosse ricordata, avrebbe detto sospirando che erano venticinque anni che non aveva sue notizie.
Va bene. Nella mia lista dei più probabili c’era rimasta ancora una persona su cui, per altro, non osavo riporre nessuna particolare speranza. In fin dei conti, dopo una separazione di un quarto di secolo, gli uomini si incontrano volentieri con i genitori, molto spesso con il proprio insegnante, a volte con i compagni di scuola, ma solo in casi particolari, particolarissimi, con il medico della scuola. A maggior ragione se il medico della scuola partecipa a una spedizione in un posto lontanissimo, dall’altra parte del pianeta, e il sistema di trasporto-zero, come risultava dal bollettino, già da due giorni funzionava male a causa della fluttuazione del polo del neutrino.
Ma non mi rimaneva niente altro. Adesso a Manaos era giorno e, se dovevo telefonare, era il caso di farlo ora.
Ebbi fortuna. Jadwiga Michailovna Lekanova era sul posto e potei parlarle subito, cosa su cui non contavo affatto. Jadwiga Michailovna aveva la faccia grassa ed abbronzatissima, delle fossette civettuole sulle guance, splendenti occhi azzurri e un folto colbacco di capelli d’argento. Aveva un piccolo difetto di pronuncia, peraltro molto simpatico, e una voce profonda e vellutata, che suscitava pensieri frivoli, assolutamente fuori luogo, come, per esempio, che fino a poco tempo prima la signora avrebbe potuto far girare la testa a chiunque avesse voluto. E, con ogni probabilità, l’aveva fatta girare.
Mi scusai, mi presentai e raccontai la mia storiella. Lei socchiuse gli occhi, cercando di ricordare, aggrottò le sopracciglia nere e folte.
— Lev Abalkin?… Lev Abalkin… Scusi, lei come si chiama?
— Maksim Kammerer.
— Scusi, Maksim, non ho ben capito. Lei parla a livello personale o rappresenta un’organizzazione?
— Come dirle… Ho degli accordi con una casa editrice, che si è dimostrata interessata…
— Ma lei è proprio un giornalista o lavora da qualche parte? Non esiste di per sé la professione di giornalista…
Annuii deferente, cercando febbrilmente di decidere come comportarmi.
— Vede, Jadwiga Michailovna, è piuttosto difficile da spiegare… La mia professione… dunque, faccio il Progressore… veramente, quando ho cominciato a lavorare, questa professione non c’era ancora. Fino a poco tempo fa ero collaboratore del COMCON… e anche ora, in certo qual modo…
— Lo ha lasciato per fare il libero professionista? — chiese Jadwiga Michailovna.
Sorrise di nuovo, ma ora nel suo sorriso mancava qualcosa di importante, e nello stesso tempo di molto comune.
— Senta, Maksim, — disse, — parlerò volentieri con lei di Lev Abalkin, ma, se permette, solo fra un po’. Le telefono io, fra un’ora, un’ora e mezzo…
Continuava a sorridere, e ora capii cosa mancava nel suo sorriso: la benevolenza.
— Certamente, — dissi. — Come preferisce…
— Mi scusi, per favore.
— Ma no, sono io che devo scusarmi…
Prese nota del numero del mio canale, e ci separammo. Che strana conversazione! Chiaramente lei si era accorta, per qualche ragione, che mentivo. Mi strofinai le orecchie. Le orecchie mi bruciavano. Maledetta professione… «E cominciò la più appassionante delle cacce, la caccia all’uomo…» O tempora, o mores![12] Quante volte si sono sbagliati questi classici! Va bene, aspettiamo. E vedrai che mi toccherà andare fino a Manaos. Ascoltai il bollettino. Il sistema di trasporto-zero continuava ad essere poco affidabile. Allora prenotai il viaplano, aprii la cartella e mi misi a leggere il rapporto di Lev Abalkin sull’operazione “Mondo morto”.
Feci in tempo a leggere cinque pagine, non di più. Bussarono alla porta e sulla soglia comparve Sua Eccellenza. Mi alzai.
Capita raramente di vedere Sua Eccellenza in modo diverso che seduto alla scrivania, e ci si dimentica sempre di come sia alto e ossuto. Un impeccabile camice bianco gli penzolava addosso, come sulla stampella, e aveva, nel complesso, qualcosa dell’attore da circo che cammina sui trampoli, sebbene i suoi movimenti non fossero affatto rigidi.
— Siediti, — disse, piegandosi a metà e accomodandosi nella poltrona davanti a me.
Mi affrettai a sedermi.
— Riferisci, — ordinò.
Riferii.
— Tutto qui? — chiese con un’espressione sgradevole.
— Tutto per ora.
— Male, disse.
— Ma, Eccellenza… — dissi.
— Male! L’istruttore è morto! E i compagni di scuola? Vedo che non li hai proprio presi in considerazione! E i suoi compagni di classe alla scuola dei Progressori?
— Purtroppo, Eccellenza, non aveva amici. Per lo meno all’internato, ma per quanto riguarda i Progressori…
— Per favore, risparmiami queste divagazioni. Controlla tutto. E non ti distrarre. Che c’entra, per esempio, il pediatra della scuola?
— Mi sforzo di controllare tutto, — dissi, cominciando ad arrabbiarmi.
— Non hai tempo per andartene in giro in viaplano. Studia gli archivi e non i voli.
— Mi occuperò anche degli archivi. Non lascerò da parte nemmeno il Testone Ščekn. Ma ho stabilito un certo ordine… Non mi pare che il pediatra sia una perdita di tempo…
— Zitto, — disse. — Dammi il tuo elenco.
Prese il foglio e lo studiò a lungo, di tanto in tanto arricciando il naso ossuto. Scommetterei la testa che si era soffermato su una riga e la guardava senza aprire gli occhi. Poi mi restituì il foglietto e disse:
— Ščekn, non è una cattiva idea. E anche la tua storiella mi piace. Tutto il resto non va. Hai creduto che non avesse amici. Non è vero. Tristan era suo amico, anche se nella cartella non hai trovato niente a questo proposito. Cerca. E anche questa… Glumova… è una buona idea. Se ci fosse di mezzo l’amore, sarebbe una possibilità. La Lekanova lasciala perdere. Non ti serve.
— Ma tanto mi deve telefonare!
— Non ti telefonerà, — disse.
Lo fissai. I rotondi occhi verdi non vacillarono, e io capii che la Lekanova non avrebbe telefonato.
— Senta, Eccellenza, — dissi. — Non le pare che lavorerei tre volte più in fretta se sapessi di che si tratta?
Ero sicuro che avrebbe ribattuto: «No, non mi pare». La mia era una domanda retorica. Volevo semplicemente fargli capire che l’atmosfera di mistero che circondava Lev Abalkin non mi era sfuggita e che mi infastidiva.
Ma lui rispose diversamente:
— Non so. Penso di no. Comunque ora non posso dirti nulla. E non voglio, anche.
— Segreto professionale? — chiesi.
— Sì, — disse. — Segreto professionale.
Dal rapporto di Lev Abalkin (operazione “Mondo morto”)
Alle dieci l’ordine di movimento viene fissato in modo definitivo. Camminiamo in mezzo alla strada: Ščekn avanti, al centro della strada, a sinistra, dietro di lui, io. Avevamo dovuto abbandonare il solito ordine di marcia — a ridosso dei muri — perché i marciapiedi erano invasi da calcinacci, mattoni rotti, schegge di vetro delle finestre, lamiere arrugginite, e per ben due volte dei pezzi di cornicione, senza una ragione apparente, per poco non ci erano caduti sulla testa.
Il tempo non era cambiato, il cielo come prima era coperto di nuvole. A tratti soffiava un vento caldo che faceva svolazzare sul lastricato sconnesso rifiuti imprecisati, e increspava l’acqua puzzolente nelle pozzanghere nere stagnanti. Si alzavano in volo, si abbassavano e di nuovo si alzavano miriadi di zanzare. Orde di zanzare. Veri e propri turbini di zanzare. Moltissimi ratti. Frusciano fra le immondizie, a branchi color rossiccio sporco corrono per la strada da un portone all’altro, a colonne sbucano fuori dalle cornici vuote delle finestre. Hanno occhi grossi come i grani di una collana che lampeggiano trepidanti. Non si capisce di che cosa si nutrano, in questo deserto di pietra. Forse di serpenti. Anche serpenti ce ne sono molti, specialmente nelle vicinanze dei tombini, dove si radunano e formano degli aggrovigliati cerchi semoventi. Non si capisce anche di cosa si nutrano i serpenti. Forse di ratti. I serpenti, inoltre, sono apatici, niente affatto aggressivi, ma nemmeno timorosi. Si occupano delle loro cose, e non prestano attenzione a niente altro.
La città è stata abbandonata da moltissimo tempo. L’uomo incontrato in periferia era, chiaramente, un folle e si aggirava li per caso.
Comunicazione dal gruppo di Rem Zeltuchin. Finora non ha incontrato nessuno. È entusiasta del suo letamaio e giura che in tempi brevi sarà in grado di determinare l’indice della civiltà locale con un’approssimazione di secondo grado. Cerco di immaginare questo letamaio gigantesco, senza inizio e senza fine, che invade mezzo mondo. Divento di cattivo umore, e smetto di pensarci.
La tuta mimetica non funziona in modo soddisfacente. Il colore difensivo, corrispondente allo sfondo, compare sulla tuta con un ritardo di cinque minuti, a volte non compare affatto, e al suo posto appaiono delle bellissime macchie dagli incredibili colori spettrali. Suppongo che qui, nell’atmosfera, ci sia qualcosa che turba, dal punto di vista dell’autoregolazione, la reazione chimica di questa sostanza. Gli esperti della commissione di tecniche di mimetizzazione hanno perso la speranza di mettere a punto la tuta a distanza e mi danno consigli su cosa fare. Seguo questi consigli, ma il risultato è che la mia tuta ormai non è più regolabile.
Comunicazione dal gruppo di Espada. A quanto pare, durante l’atterraggio nella nebbia, hanno mancato il bersaglio di alcuni chilometri: non hanno visto né i campi coltivati, né i centri abitati individuati quando ancora erano in orbita. Vedono l’oceano e la costa ricoperti per chilometri di una crosta nera, simile a mazut[13] rappreso. Di nuovo divento di cattivo umore.
Gli esperti protestano energicamente contro la decisione di Espada di eliminare del tutto la mimetizzazione. Piccola baruffa rumorosa nell’etere. Ščekn borbotta:
— La famigerata tecnica umana! Ridicolo…
Non porta la tuta e nemmeno il pesante casco con i trasformatori, nonostante fosse stato preparato apposta per lui. Ha rifiutato tutto, come al solito, senza spiegarne il motivo.