Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista!
Signore rispose una voce.
Rallenta un po. Voglio godermi questo meraviglioso panorama.
Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito:
La mia testa! La mia testa!
Il cosacco si era precipitato verso lamico, frenando a malapena una risata.
Lhai ancora a posto, Fedoro! esclamò. Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela.
Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello «Sparviero».
Rokoff! esclamò. Dove siamo noi?
Al sicuro dai cinesi, amico mio.
E quel signore? Ah! Mi ricordo! Luccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore!
Io non sono che il capitano dello «Sparviero» rispose il comandante, tendendogli la mano. Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.
UNA MACCHINA MERAVIGLIOSA
«La mia meravigliosa aeronave» aveva detto il comandante. Ah! Era ben meravigliosa quella macchina volante che aveva rapito, sotto gli occhi stupiti dei cinesi, i due prigionieri condannati a morte. Rokoff e Fedoro, appena usciti dalla tenda, si erano arrestati mandando un duplice grido di sorpresa e di ammirazione. Quale splendido congegno aveva ideato quello sconosciuto che si faceva chiamare «il capitano!» Era lo scioglimento dellarduo problema della navigazione aerea, che da tanti anni turbava la mente degli scienziati, e quale scioglimento! Una perfezione inaudita, assolutamente sbalorditiva.
Dapprima Rokoff e Fedoro avevano creduto di trovarsi dinanzi ad uno dei soliti palloni, dotato di qualche motore, ma si erano subito disingannati. Non era un aerostato, era una vera macchina volante, una specie di uccellaccio mostruoso, che solcava placidamente laria collarditezza e la sicurezza dei condor delle Ande o delle aquile.
Un uccello veramente non lo si poteva chiamare, quantunque nelle ali e nel corpo ne rammentasse la forma.
Consisteva in un fuso lungo dieci metri, con una circonferenza di tre nella parte centrale, costruito in un metallo argenteo, probabilmente alluminio, nel cui centro si vedeva un motore che non doveva però essere mosso né dal carbone, né dal petrolio, né da alcun olio o essenza minerale, perché non si vedeva fumo né si sentiva alcun odore.
Ai suoi fianchi, mosse da quella macchina misteriosa, agivano due immense ali, simili a quelle dei pipistrelli, con armatura dacciaio o dalluminio e la membrana composta da una spessa seta o da qualche altro tessuto che le rassomigliava.
Un po al disotto del fuso, che serviva di ponte e anche di abitazione, si estendevano a destra ed a sinistra, tre piani orizzontali, lunghi ciascuno una decina di metri, pure con armatura di ferro, ricoperti di stoffa, lontani luno dallaltro quasi un metro, vuoti nel mezzo, che dovevano, presumibilmente, agire come gli aquiloni e mantenere lintero apparecchio sollevato.
Non era però tutto. Sulla punta estrema del fuso, unelica immensa, che girava vorticosamente, con velocità straordinaria, pareva che dovesse aiutare il movimento delle ali, mentre a poppa si vedevano due piccole alette che dovevano certamente servire per dare allaerotreno la direzione voluta.
Fedoro e Rokoff erano rimasti immobili, colla bocca aperta, impotenti ad esprimere la loro ammirazione. Il capitano, appoggiato alla balaustrata che correva intorno al fuso metallico per impedire delle cadute pericolose, li guardava sorridendo silenziosamente.
Che cosa ne dite di questo treno aereo? chiese finalmente al russo ed al cosacco.
Meraviglioso!
Sorprendente!
Magnifico!
Sì un capolavoro rispose il capitano con vivacità. Ecco risolto finalmente il problema della navigazione aerea.
Ma signore disse Fedoro.
So che cosa volete chiedermi disse il capitano. A più tardi le spiegazioni, dopo la colazione. Date invece uno sguardo a questo superbo panorama. Pechino si estende dinanzi a noi e fra poco ci libreremo sopra la città imperiale. Ora ci troviamo nel parco dei Mari del Sud, guardatelo, signori, una cosa veramente splendida!
Lo «Sparviero», il quale si avanzava con velocità moderata, certo per volere del suo comandante, filava sopra il famoso Nanhai-tze, uno dei più splendidi parchi del mondo, che si estende al sud della capitale cinese, da cui si trova separato da una piccola pianura paludosa.
È un immenso giardino, vasto tre volte più di Pechino, perché ha una superficie di circa duecento chilometri quadrati, con una periferia di sessantacinque, difeso da massicce muraglie che si connettono coi baluardi eretti a difesa degli approcci della capitale.
Villaggi, campi coltivati, boschi, costruzioni strane, attendamenti delle colonie militari, sfilavano dinanzi agli sguardi meravigliati di Rokoff e di Fedoro, mentre più al nord pareva che savanzasse correndo, lenorme massa di Pechino, colle sue torri, coi suoi templi, colle sue muraglie, colle sue migliaia e migliaia di guglie di antenne, coi suoi tetti di porcellane azzurre, verdi e giallo dorate.
Che spettacolo! esclamava Fedoro.
Superbo, magnifico! ripeteva Rokoff con entusiasmo. Ora comprendo la passione degli aeronauti! Essi soli possono contemplare simili meraviglie perché hanno la mobilità. Ecco la gigantesca città che pare si precipiti contro di noi! Pechino a volo duccello! Chi lha mai veduta?
E come procediamo bene, senza scosse, senza soprassalti! Che macchina perfetta, Rokoff!
Meravigliosa, Fedoro.
Ecco le prime muraglie!
E laggiù i tetti gialli della città imperiale.
Guarda, Rokoff, ammira!
Non ho occhi bastanti per vedere tutto! Vorrei averne una dozzina invece di due.
Lo «Sparviero», attraversato il parco dei Mari del Sud, si avanzava sopra Pechino, tenendosi ad unaltezza di quattrocento metri.
Limmensa città si svolgeva tutta intera sotto gli occhi dei quattro aeronauti.
La capitale del più potente impero del mondo, o meglio del più popoloso, sorge su una vasta pianura parte sabbiosa e parte fangosa, occupando una estensione immensa, perché nuove borgate continuano ad aggrupparsi intorno alle sue mura.
Come quasi tutte le città mongole, forma un quadrato più o meno perfetto, la cui superficie è stata valutata in seimila ettari e si divide in due città ben distinte, ognuna delle quali ha un nome particolare: Nuich Eng ossia «città entro le mura» o tartara e Cheng-wai o «fuori mura».
Entrambe però sono cintate e difese da torri massicce di forma quadrata e da bastioni merlati alti da quindici a sedici metri, non certo però capaci di resistere a lungo al tiro delle artiglierie moderne, quantunque sembrino a prima vista poderosi, essendo lastricati di marmo.
La città fuori mura è quella commerciale, un caos di vie e di viuzze sfondate e polverose, di case di tutte le forme e dimensioni, di negozi e di baracche, dove brulicano milioni di celestiali.
Quella tartara invece è destinata alla corte imperiale ed è la meglio difesa, avendo mura più alte e massicce e le porte che sono quattro, sormontate da torrioni daspetto imponente.
Se la Cheng-wai presenta gravi sintomi di decadenza, laltra invece si mantiene ancora superba e sempre meravigliosa.
Secoli e secoli sono passati sui suoi giardini incantati, sulle sue splendide gallerie, sui suoi grandiosi palazzi, sui suoi tetti di porcellana gialla, sulle sue cupole meravigliose, ma pare che non labbiano affatto invecchiata, anzi tuttaltro.
Lo «Sparviero», dopo essersi librato sulla Cheng-wai, dove si vedevano radunarsi nelle piazze e sulle vie miriadi di cinesi attratti da quellimmenso uccello che dovevano prendere per qualche drago mostruoso, si era lentamente diretto verso la città imperiale, le cui mura rosse spiccavano vivamente fra il verde dei giardini.
Prima però di prendere la corsa verso i tetti gialli, scintillanti sotto i raggi del sole, lo «Sparviero» con un largo giro aveva raggiunto il tempio del cielo, uno dei più grandiosi che sorgano nella capitale, librandosi per alcuni minuti su di esso.
Come quello dellAgricoltura, è difeso da una cinta ombreggiata da filari dalberi, lauri e pini e si erge sopra una terrazza a gradini di marmo, lanciando ben alti i suoi tetti sovrapposti e la sua larga rotonda adorna di maioliche verniciate e di pilastri azzurri, rossi, scarlatti e gialli con foglioline doro.
Ammirabile! Stupendo! esclamava Rokoff.
Ed immenso disse Fedoro.
E quello che sorge laggiù è più bello ancora disse il capitano, che si era collocato presso di loro.
È il tempio dellAgricoltura, è vero capitano?
Sì rispose laeronauta. Vedete anche il piccolo campo sacro, dove una volta lImperatore e i principi si recavano, allepoca dei lavori di primavera, a guidare laratro davorio e doro, invocando le benedizioni del cielo e della terra.
Ora non si fa più quella cerimonia? chiese Rokoff.
No, e ciò dopo lentrata delle truppe franco-inglesi nella capitale, ossia dal 1860. Guardate, il tempio è superbo, degno di questo gran popolo.
Con una rapida volata lo «Sparviero» lo aveva raggiunto, descrivendo un vasto giro intorno alla colossale costruzione la quale lanciava verso il cielo i suoi tre tetti sovrapposti, coperti di tegole gialle ed azzurre.
Si tenne qualche istante quasi immobile, onde gli aeronauti potessero meglio contemplare i marmorei scaloni e la selva di pilastri variopinti e coperti di sculture, poi, innalzatosi di duecento metri mosse dritto verso la città imperiale, fugando colla sua presenza le guardie che vegliavano sui bastioni.
Dalle vie e dalle piazze della Cheng-wai salivano, di quando in quando, dei clamori assordanti mescolati allo strepito di migliaia di gong e di tam-tam e di conche marine e si vedeva la folla precipitarsi verso le muraglie della città tartara.
Che abbiano paura che noi andiamo a uccidere lImperatore? chiese Rokoff.
Siamo sopra la città inviolabile e hanno ragione di inquietarsi rispose il capitano.
Che ci prendano per mostri?
Crederanno lo «Sparviero» un drago sceso dalla luna.
Che ci sparino addosso? chiese Fedoro.
Non credo, avendo troppa paura dei draghi disse il capitano sorridendo. Daltronde ci è facile metterci fuori di portata, potendo il mio «Sparviero» raggiungere delle altezze incredibili, dove certo non arrivano le palle dei più potenti cannoni. Finché si accontentano di urlare e di battere i loro gong, lasciamoli fare. Ecco i palazzi imperiali. Che cosa ne dite di tanta magnificenza?
La città tartara od imperiale, è divisa pure in due città ben distinte, da muraglie altissime, tinte di rosso e difese da bastioni e da torri.
Nella prima abitano i funzionari e i soldati; nella seconda limperatore e i principi del sangue, ciambellani, e così via, i quali, tutti insieme, raggiungono la popolazione di una città di terzordine.
Ha quattro porte che corrispondono coi quattro punti cardinali e che nessuno può varcare senza speciale permesso ed è chiamata la città gialla ossia santa.
Quivi palazzi grandiosi del più puro stile cinese, gallerie immense sostenute da colonne dorate, tetti a punte arcuate con tegole di porcellana, cortili immensi lastricati di marmo bianco e adorni di mostruosi draghi e di chimere di bronzo, giardini meravigliosi, viali ricchi dombre, chioschi e padiglioni che sembrano formati di merletti, ponti, canali e laghetti dove si cullano barchette scolturate e ricche di dorature.
Nel centro sorgono due colline, erette dalla mano delluomo, dalle cui cime il possente imperatore può dominare tutta la immensa città che lo circonda. La più alta, chiamata Meician, o Montagna del Carbone, e se si deve credere ad una leggenda popolare, poserebbe su colossali depositi di carbone, accumulati nelleventualità dun lungo assedio.
Anche intorno ai palazzi imperiali e nei giardini, regnava una confusione straordinaria, suscitata dallimprovvisa comparsa del mostruoso uccello. Guardie imperiali, armate di fucili, accorrevano da tutte le parti urlando e facendo muggire le conche di guerra e sulle terrazze e nelle gallerie si vedevano raggrupparsi donne manifestando il loro spavento con gesti disperati. Forse anche lImperatore si era degnato di lasciare i suoi appartamenti per vedere quelluccellaccio di nuova specie, che osava volteggiare sopra i tetti e gli alberi della città inviolabile.
Capitano disse ad un tratto Rokoff, indicandogli un bastione sul quale si erano aggruppati parecchi soldati. Si preparano a far fuoco contro di noi. Stanno puntando un pezzo dartiglieria.
Sono a milleduecento metri rispose laeronauta con voce tranquilla. Spareranno male di certo, tuttavia prendiamo le nostre precauzioni. Avete veduto abbastanza la città gialla? Allora possiamo andarcene. Ehi, macchinista?
Signore!
Saliamo e aumentiamo.
Subito, capitano.
In quellistante sul bastione si vide una nube di fumo attraversata da un getto di fuoco, poi si udì una detonazione.
Un sibilo acuto, che aumentava rapidamente, giunse agli orecchi degli aeronauti, poi si perdette in lontananza.
Troppo bassa disse il capitano, senza perdere un atomo della sua calma. Ero certo che ci avrebbero sbagliati.
Lo «Sparviero» sinnalzava sbattendo vivamente le sue ali, le quali provocavano una forte corrente daria.
Salì fino a seicento metri, descrivendo una spirale, poi si slanciò innanzi colla rapidità duna rondine e passò sopra gli opposti bastioni, dirigendosi verso il nord.
Dove andiamo, signore? chiese Rokoff, vedendo che lo «Sparviero» si allontanava dalla capitale.
A far colazione per ora rispose il capitano. La pianura di Pechino non ha nulla dinteressante per trattenerci qui. Più tardi vi sarà qualche cosa da vedere, prima di andarcene verso la grande muraglia.
Ma la vostra direzione quale sarebbe? insistette Rokoff.
Il nord rispose asciuttamente il capitano. Macchinista è pronta la colazione?
Sì, signore.
Venite disse il comandante volgendosi verso Rokoff e Fedoro. Suppongo che avrete fame.
Come lupi a digiuno da una settimana rispose il cosacco. Le razioni dei carcerati non sono abbondanti nelle prigioni cinesi.
Lo so, anzi si corre sovente il pericolo di morire molto spesso di fame disse laeronauta. Si fa molto economia là dentro.
Il macchinista, legata la piccola ruota del timone che serviva a far agire le alette di poppa, in pochi istanti aveva apparecchiata la tavola situata dietro la macchina, al riparo duna tenda.
Tovaglia di Fiandra finissima, piatti e posate dalluminio, bicchieri di cristallo di Boemia, poi tondi contenenti dellarrosto freddo, delle costolette, dei salumi, delle frutta: ricchezza, buon gusto ed abbondanza insieme.
Una cosa aveva però subito colpito il russo ed il cosacco: vivande e frutta erano coperte da un leggero strato scintillante che pareva ghiaccio.
Assaggiate questo capretto arrostito disse il capitano. Quantunque sia stato cucinato in Giappone, deve essere ancora squisito.