Canaglia! Noi forse saremo morti e non assisteremo a quellorrenda strage, capitano disse il signor Perpignano con un sospiro. Poveri abitanti! Sarebbe meglio che si lasciassero seppellire tutti sotto le rovine della loro disgraziata città.
Tacete, tenente, disse Capitan Tempesta. Sento una profonda angoscia, nel pensare al momento in cui quelle belve, sbucate dai deserti infuocati dellArabia, si rovesceranno su Famagosta, assetate di sangue peggio delle tigri.
Il drappello era allora uscito dalle viuzze della città sbucando su una larga strada, chiusa da una parte dalle case e dallaltra da un alto bastione privo quasi del tutto dei merli, e su cui fiammeggiavano parecchie torce.
A quella luce rossastra si scorgevano parecchi uomini coperti di ferro, che saffaccendavano intorno ad alcune colubrine. Di quando in quando un lampo balenava rompendo bruscamente le tenebre, seguito da una detonazione.
Dietro gli artiglieri, delle lunghe file di donne, alcune riccamente vestite, ed altre stracciate, savanzavano silenziosamente reggendo a fatica dei sacchi che vuotavano al di sopra dei merli, sfidando impavide le palle degli assedianti.
Erano le valorose donne di Famagosta che rinforzavano il bastione, incessantemente minato dal nemico, colle macerie delle loro case distrutte dalle bombe degli infedeli.
CAPITOLO II. Lassedio di Famagosta
Lanno 1570 era cominciato nefasto per la Repubblica Veneta, la più grande e formidabile nemica della potenza turca. Già da qualche tempo il ruggito del Leone di San Marco si era affievolito ed a Negroponte prima, in Dalmazia e poi nelle isole dellArcipelago greco aveva ricevute le prime ferite, nonostante gli eroici sforzi dei figli della laguna.
Selim II, il potentissimo Sultano di Costantinopoli, assisosi saldamente sul Bosforo, rintuzzate le armi degli ungheresi e degli austriaci, ributtati nella Piccola Russia gli ortodossi, padrone dellEgitto, di Tripoli, di Tunisi, dellAlgeria e del Marocco e di mezzo Mediterraneo, non attendeva che il momento opportuno per strappare per sempre ai figli del leone di San Marco, i loro ultimi possessi doriente.
Sicuro della ferocia e del fanatismo dei suoi guerrieri e fortissimo ormai sul mare, non gli fu difficile trovare un pretesto per romperla coi veneziani, che già cominciavano a dare qualche segno di decadenza.
La cessione dellisola di Cipro alla Repubblica, fatta da Caterina Cornaro, fu la scintilla che diede fuoco alle polveri.
Il Sultano, temendo pei suoi possessi dellAsia Minore, forte della sua potenza, impose senzaltro ai veneziani di sgombrare lisola, incolpandoli di dare ricetto a corsari Ponentani che armavano galere a danno dei fedeli della Mezzaluna.
Come era da prevedersi, il Senato veneziano aveva sdegnosamente respinto il messaggio inviato dal barbaro discendente del Profeta ed aveva raccolte le forze disperse in Oriente ed in Dalmazia, preparandosi animosamente alla guerra.
Cipro non contava in quellepoca che cinque città: Nicosia, Famagosta, Baffo, Arines e Lamisso; ma solamente le due prime si trovavano in istato di opporre una qualche resistenza, essendo fornite di torri e bastioni.
Furono quindi mandati ordini di rinforzarle il meglio possibile e di formare un vasto campo trincerato a Lamisso per raccogliere le truppe venete, che erano già in viaggio sotto il comando di Girolamo Zane e di richiamare prontamente da Candia la flotta, che era guidata da Marco Quirini, uno dei più abili marinai che avesse in quel tempo la Repubblica.
La guerra era stata appena dichiarata, quando gli aiuti mandati dal Senato sbarcarono sani e salvi a Lamisso, sotto la protezione delle galee del Quirini.
Si componevano quelle forze di ottomila fanti fra veneti e schiavoni, di duemila e cinquecento cavalieri e di molta artiglieria. A difesa dellisola non vi erano allora che diecimila fanti, fra alabardieri e archibugieri, quattrocento schiavoni dalmati e cinquecento stradioti a cavallo, ma si erano aggiunti numerosi abitanti, fra i quali molti nobili veneziani che non sdegnavano di esercitare il commercio.
Avendo appreso che i turchi erano di già sbarcati in falangi immense, al comando del Gran vizir Mustafà, che godeva fama di essere il più abile ed anche il più crudele dei generalissimi turchi, i veneziani, divise le loro forze in due corpi, si erano affrettati a chiudersi in Nicosia ed in Famagosta, risoluti ad attendere dietro a quei saldi bastioni lurto poderoso delle orde nemiche.
Nicolò Dandolo, col vescovo Francesco Contarini, aveva assunto la difesa della prima; Astorre Baglione, con Bragadino, Lorenzo Tiepolo, ed il capitano albanese Manoli Spilotto, si erano incaricati di tener duro nella seconda fino allarrivo di nuovi rinforzi che la Repubblica aveva solennemente promessi.
Mustafà, che aveva forze imponenti, sette od otto volte superiori a quelle dei veneziani, fu ben presto, quasi senza combattimento, sotto le mura di Nicosia, che voleva espugnare per la prima, parendogli che quella piazza dovesse offrire la maggior resistenza.
Un assalto furibondo dato ai bastioni di Podacataro, di Costanzo, di Tripoli e di Davile, andò a vuoto, anzi riuscì disastroso agli infedeli, perchè avendo il tenente Cesare Piovene insieme al conte Roca fatta una improvvisa sortita alla testa di numerose compagnie, inflisse loro gravissime perdite.
Il 9 settembre 1570 Mustafà ritorna però alla carica ed al sorgere dellalba spinge le sue innumerevoli orde allassalto del bastione Costanzo, riuscendo ad impadronirsene dopo una mischia ferocissima.
I veneziani, vedendosi ormai perduti, avviarono trattative di resa, alla condizione che si accordasse a tutti salva la vita.
Acconsentì il malfido vizir: invece, non appena le sue orde ebbero occupata la città, scordando la promessa fatta, ordinava freddamente la strage generale dei prodi difensori e della popolazione che li aveva aiutati.
Leroico Dandolo fu il primo a essere immolato e ventimila persone furono massacrate, trasformando la disgraziata città in un immenso cimitero.
Solo venti nobili veneziani, dai quali il crudele vizir sperava dei vistosi riscatti e le più belle donne e fanciulle di Nicosia furono risparmiate, e queste per essere inviate schiave a Costantinopoli.
Le orde islamite, imbaldanzite da quella facile vittoria, si erano subito volte verso Famagosta colla speranza di prenderla in breve dassalto. Baglione e Bragadino però non erano rimasti colle mani alla cintola e in quel frattempo avevano rinforzate le difese per resistere fino allarrivo dei rinforzi veneti.
Il 19 luglio del 1571, le sterminate orde turche comparivano dinanzi alla città, cominciandone lassedio e lindomani ne tentavano lassalto, ma, come prima a Nicosia, venivano ributtate nei loro accampamenti, con grande strage.
Il 30 luglio, dopo un continuo bombardamento ed un incessante scoppiare di mine per indebolire le torri e i bastioni, per la seconda volta Mustafà aveva guidato allattacco le sue truppe ed il valore dei guerrieri veneti aveva ancora trionfato. Tutti gli abitanti erano corsi alla difesa, comprese le donne, le quali tenacemente avevano combattuto a fianco dei forti guerrieri della Repubblica, niente atterrite dalle urla selvagge degli assalitori, nè dalle loro formidabili scimitarre, nè dal tuonare tremendo delle artiglierie.
Nellottobre gli assediati, che già erano riusciti, con frequenti sortite, a tenere a distanza i turchi, ricevevano i promessi soccorsi consistenti in mille e quattrocento fanti, comandati da Luigi Martinengo e in sedici cannoni.
Era ben poca cosa per una città assediata da più di sessantamila nemici, tuttavia quellaumento di truppe era giovato assai a rialzare lo spirito degli assediati già molto depresso, ed a indurli a resistere con maggior vigoria.
Disgraziatamente i viveri e le munizioni scemavano a vista docchio ed il bombardamento dei turchi non lasciava un istante di tregua ai veneziani. La città era ormai un ammasso di rovine e ben poche case si reggevano ancora in piedi.
Per di più, pochi giorni dopo giungeva a Cipro Alì pascià, grande ammiraglio della flotta turca, con una squadra di ben cento galee, montate da altri quarantamila guerrieri.
Famagosta ormai era stretta da tutte le parti da un cerchio di fuoco e di ferro, che nessuna forza umana avrebbe potuto ormai più spezzare. Le cose erano a questo punto, quando accadde il fatto narrato nel capitolo precedente.
***
Gli schiavoni, appena giunti sul bastione, gettate le alabarde che erano affatto inutili in quel momento, si erano subito appostati dietro ai pochi merli che ancora esistevano, armando i loro pesanti moschettoni e soffiando vigorosamente sulle micce, mentre gli artiglieri, quasi tutti marinai delle galere venete, continuavano a far tuonare le loro colubrine.
Capitan Tempesta, nonostante le prudenti raccomandazioni del suo tenente, sera spinto fino sullorlo del bastione, tenendosi riparato dietro un merlo semimozzo che ad ogni colpo di colubrina a poco a poco si sgretolava.
Nella pianura tenebrosa che si estendeva dinanzi alla disgraziata città, votata ormai ad una fine miseranda, si vedevano brillare qua e là dei punti luminosi, poi dei lampi accompagnati da formidabili detonazioni, e dai sibili rauchi delle grosse palle di pietra.
I turchi, sempre più inferociti dalla lunga resistenza opposta dalla piccola guarnigione veneta, stavano scavando nuove trincee per assalire più da vicino il bastione, che quantunque semidiroccato, non accennava ancora a sfasciarsi mercè lenorme massa di materiali che le valorose donne rovesciavano ogni notte nei fossati per rinforzarlo.
Di tratto in tratto degli uomini audaci, che avevano fatto volontariamente sacrificio della loro vita per guadagnarsi con maggior sicurezza il meraviglioso paradiso del Profeta, salivano carponi la scarpa del bastione e, approfittando della notte tenebrosa, preparavano mine per rovesciare quella massiccia muraglia che i cannoni non erano capaci di sfondare.
Gli schiavoni, che avevano buoni occhi, non li risparmiavano e molti ne fulminavano coi loro moschettoni, ma altri fanatici, punto atterriti, li sostituivano subito e delle esplosioni tremende, che scuotevano perfino le colubrine piazzate dietro i pochi merli, si succedevano, diroccando ora un angolo ed ora uno sperone od il margine del profondo fossato.
Le donne di Famagosta però erano là, pronte a gettare sassi e corbe colme di terra, onde riempire le buche aperte da quegli scoppi; sempre impassibili, sempre risolute, docili al comando dei prodi difensori, guardando serenamente le palle infuocate che solcavano laria e che nel cadere si spezzavano in mille frantumi, essendo per la maggior parte di pietra.
Capitan Tempesta, muto, impassibile, guardava i fuochi che illuminavano limmenso campo turco. Che cosa cercava di scoprire? Lui solo probabilmente lo sapeva.
Ad un tratto si sentì urtare un gomito, mentre una voce gli sussurrava agli orecchi, in un pessimo dialetto napoletano:
Eccomi, padrona.
Il giovane si era voltato vivamente, colla fronte aggrottata, poi ad un tratto un grido a malapena frenato gli sfuggì:
Tu, El-Kadur?
Sì, padrona.
Taci! Non chiamarmi così. Nessuno deve sapere chi io veramente sia.
Hai ragione, signora signore.
Ancora? Vieni!
Afferrò luomo che aveva pronunciato quelle parole, e lo trasse, tenendolo sempre stretto per un braccio, giù dal bastione conducendolo in una casamatta, che era illuminata da una torcia e che in quel momento era deserta.
Quellindividuo, che il giovine capitano non aveva ancora lasciato, era un uomo alto e magrissimo, colla pelle assai abbronzata, i lineamenti duri, il naso affilato e gli occhi piccoli e nerissimi. Vestiva come i beduini dei deserti arabi, teneva sulle spalle un ampio mantello di lana oscura, con cappuccio adorno dun fiocco rosso e sul capo portava un turbante bianco e verde. Dalla cintura o meglio dalla fascia rossa, che gli stringeva i fianchi, si vedevano uscire i calci di due lunghe pistole, di forma quasi quadra, come quelle usate dagli algerini e dai marocchini, e limpugnatura dun jatagan.
Dunque? chiese Capitan Tempesta, quasi con violenza, mentre i suoi occhi silluminavano dun lampo strano.
Il visconte Le Hussière è sempre vivo rispose El-Kadur. Lho saputo da uno dei capitani del vizir.
Che ti abbia ingannato? chiese il giovane capitano, con voce tremula.
No, signora.
Non chiamarmi signora, te lo dissi già.
Qui non vi è nessuno che possa ascoltarci.
E dove lhanno condotto? Lo sai, El-Kadur?
Larabo fece un gesto desolato.
No, signora, non ho ancora potuto saperlo; tuttavia non dispero. Sono diventato lamico dun comandante che, quantunque mussulmano, beve Cipro a barili, infischiandosene del Corano e del Profeta, e una sera od unaltra riuscirò a carpirgli il segreto. Ve lo giuro, padrona.
Capitan Tempesta o meglio la capitana giacchè non era un uomo si era lasciata cadere sullaffusto dun cannone, prendendosi la testa fra le mani. Due lagrime le scendevano sul suo bel viso, che in quel momento era diventato pallidissimo.
Larabo, ritto dinanzi a lei, col mantello stretto intorno allagile corpo, la guardava con profonda commozione. Il suo viso duro e selvaggio tradiva unangoscia inesprimibile.
Potessi, signora, col mio sangue ridarti la tranquillità e la felicità, sarei ben lieto disse, dopo un momento di silenzio.
Lo so che tu mi sei devoto, El-Kadur rispose Capitan Tempesta.
Fino alla morte, signora, sarò lo schiavo più fedele.
Non schiavo, amico.
Gli occhi nerissimi dellarabo si illuminarono dun lampo intenso, diventando quasi fosforescenti.
Io ho rinnegato senza rimpianti la mia stolta religione, disse, dopo un altro breve silenzio e non ho mai dimenticato che il duca dEboli, tuo padre, mi strappò, quandero fanciullo, al mio crudele padrone che tutti i giorni mi batteva a sangue. Che cosa devo fare ora?
Capitan Tempesta non rispose. Pareva che seguisse un pensiero profondo che evocava in lui dei dolorosi ricordi, a giudicarlo dallespressione angosciosa del suo bel viso.
Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia, quella sirena incantatrice dellAdriatico e che non avessi mai lasciate le azzurre acque del golfo di Napoli disse ad un tratto, come parlando fra sè. Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente.
Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi dei nobili veneti! La rivedo come fosse ieri, e quando vi penso sento scorrermi nelle vene un fremito che prima non avevo mai provato.
Egli era là, dinanzi a me, bello come un dio della guerra, seduto sulla prora della gondola e mi guardava sorridendo e mi rivolgeva delle frasi deliziose, che mi scendevano in fondo al cuore come una musica celeste. Per me aveva dimenticato le preoccupazioni che in tutti suscitavano le tragiche notizie giuntemi quel giorno e che avevano fatto impallidire perfino i vecchi del Senato, del Consiglio e lo stesso Doge.
Eppure sapeva che lavevano scelto a venire qui a misurarsi collesercito sterminato degli infedeli; sapeva che qui forse la morte lo attendeva per falciargli la sua giovine e brillante esistenza, eppur sorrideva, ammaliato dai miei occhi.
Che cosa ne faranno di lui questi mostri? Lo faranno morire lentamente fra i più atroci martirî? È impossibile che lo tengano solamente prigioniero: egli che era diventato il terrore dei pascià, egli che aveva inflitto tante sanguinose sconfitte a queste orde barbariche, a questi lupi sbucati dai deserti dellArabia.