Ciononostante i pochi figli delle lagune venete e delle scogliere dalmate non cessavano il fuoco, decimando crudelmente le colonne degli infedeli, i quali seminavano la pianura di morti e di feriti.
Impavidi fra la pioggia di macigni, scaraventati in aria da quelle esplosioni e fra quel rovinio di pietre, le quali sfuggivano sotto i loro piedi ad ogni scossa, e fra quel tempestar continuo di frammenti di ferro e di proiettili, di fionde e di frecce incendiarie, scagliate dai balestrieri dellAsia Minore, aspettavano sempre limpeto delle scimitarre infedeli, dietro i loro scudi.
Il frastuono orrendo aumentava di minuto in minuto. Alle urla feroci dei mussulmani rispondevano in lontananza i pianti e le preghiere delle donne e le grida dei fanciulli. Nellaria satura di fumo e di polvere risuonavano, fra il fragor dei bronzi tuonanti, le campane che chiamavano a raccolta gli abitanti, se ancora ve nerano entro le case già fiammeggianti.
Le masse dei barbari savanzavano, lente, pesanti, possenti, continuando a svolgersi nella pianura. A migliaia e migliaia salivano, verso le scarpe dei bastioni, come una marea irrefrenabile, mentre le mine rombavano cupamente, lanciando fra le tenebre guizzi sinistri di luce sanguigna o sulfurea che subito si spegnevano.
Allah! Pel Profeta! Morte ed esterminio ai giaurri! ruggivano centomila voci, coprendo il rimbombo delle tuonanti artiglierie.
Già i giannizzeri erano giunti dinanzi al bastione di San Marco e si preparavano ad assalirlo, quando un lampo vivissimo ruppe le tenebre, seguito da uno scroscio spaventevole. Una mina che non aveva preso fuoco, incendiata da qualche frammento di pietra infuocata o da qualche freccia incendiaria, era scoppiata squarciando a metà la cinta.
Un nembo di macigni salzò per laria storpiando od uccidendo un gran numero di giannizzeri, le cui colonne si erano subito ripiegate confusamente e cadde anche sul bastione occupato dai guerrieri veneti. Capitan Tempesta che si trovava presso uno dei merli, pronto a contrastare il passo agli invasori alla testa dei suoi valorosi schiavoni, fu rovesciato di colpo da un macigno, che lo aveva colpito al lato destro della corazza.
El-Kadur, che stava qualche passo indietro, vedendo la sua signora lasciarsi sfuggire lo scudo e la spada e stramazzare al suolo, come se fosse stata fulminata, si era precipitato innanzi, mandando un grido di spavento e dangoscia.
Lhanno ucciso! Lhanno ucciso!
La sua voce si perdette fra il frastuono orrendo che soffocava perfino la voce possente delle artiglierie. I giannizzeri montavano in quel momento allassalto con urla frenetiche e nessuno poteva occuparsi della disgraziata e valorosa giovane, nemmeno il signor Perpignano che già lavorava di spada alla testa degli schiavoni.
El-Kadur, fuori di sè, afferrò la padrona, se la serrò contro il petto e discese a precipizio giù dal bastione, avviandosi a corsa sfrenata verso la città, incurante delle palle e dei frammenti di pietra che grandinavano nelle vie e sui tetti delle case.
Dove fuggiva? Lui solo lo sapeva.
Seguì per cinque o seicento metri la cinta interna, poi si arrestò sotto una delle vecchie torri della città, la cui base era già stata rovinata dalle mine. Ammassi di macerie salzavano dovunque e sulla cima di quella massiccia costruzione tuonavano due colubrine.
El-Kadur sarrampicò su quei massi accumulati confusamente, che ad ogni colpo di cannone franavano e sintrodusse in una stretta apertura che pareva menasse in una casamatta ormai abbandonata.
Savanzò a tentoni, tenendosi sempre stretta la giovane duchessa, poi la depose a terra delicatamente.
Anche se Famagosta cadesse questa notte, nessuno scoprirà il cadavere della mia padrona, mormorò.
Brancolò per alcuni istanti fra le tenebre, poi estrasse dalla sua borsa un acciarino e un pezzo desca e fece cadere parecchie scintille finchè ottenne una fiammella.
Non hanno vuotato la casamatta, disse. Troverò loccorrente.
Si diresse verso un angolo dove si scorgevano confusamente delle casse e dei barili ammonticchiati alla rinfusa, frugò per qualche secondo e levò una torcia che subito accese.
Si trovava in una specie di sotterraneo, scavato alla base del torrione e che pareva avesse prima servito di deposito alla guarnigione dellattiguo bastione. Infatti, oltre le casse ed i barili contenenti armi e munizioni, vi erano dei materassi, delle coperte, delle giare contenenti forse dellolio o del vino o più probabilmente delle olive, che costituivano ormai quasi lunico nutrimento degli assediati.
Larabo, senza preoccuparsi dei colpi di colubrina che echeggiavano sopra la sua testa e che si ripercuotevano nella casamatta con un rombo assordante, piantò la torcia in un crepaccio del suolo e depose la duchessa su un materasso.
È impossibile che sia morta singhiozzò. No, una signora così bella e così valorosa non può morire.
Levò il mantello che avvolgeva la duchessa e guardò la corazza. Verso il lato destro si vedeva una profonda ammaccatura, con un buco nel mezzo da cui usciva un filo di sangue. La scheggia di pietra o forse di ferro, lanciata con inaudita violenza, aveva spezzato perfino lacciaio. Slacciò con infinite precauzioni la corazza e scorse subito, un po sotto la spalla, una ferita profonda che sanguinava abbondantemente.
Purchè non sia entrato nelle carni qualche frammento del proiettile, la mia padrona non morrà, mormorò larabo. Il colpo deve essere stato però violentissimo.
Stracciò il manto della duchessa che era di lana finissima e leggera, facendo delle bende, sollevò parecchie giare che erano coperte e trovatane una piena dolio vi bagnò uno straccio. Fasciò delicatamente la ferita per arrestare il sangue, poi soffiò a più riprese, a tutta forza, sul volto di Capitan Tempesta per farlo tornare in sè.
Sei tu, mio fedele El-Kadur? chiese ad un tratto la duchessa, aprendo gli occhi e fissandoli sullarabo.
La sua voce era fioca ed il suo bel viso pallidissimo, bianco come un cencio di bucato.
Vive! La mia padrona vive! esclamò larabo Ah! Signora, ti avevo creduta morta.
Che cosè avvenuto, El-Kadur? riprese la duchessa, Non ricordo più nulla dove siamo chi spara presso di noi? Non odi questi rombi che mi pare mi spezzino la testa?
Siamo in una casamatta, signora, al sicuro dalle palle dei turchi.
I turchi! esclamò la giovane, tentando di alzarsi a sedere, mentre i suoi occhi silluminavano I turchi! È caduta Famagosta?
Non ancora, signora.
Ed io sono qui mentre gli altri si fanno uccidere?
Sei ferita.
È vero provo un dolore acuto qui mi hanno colpito con una palla o con un colpo di spada? Non mi rammento più nulla.
È stata una scheggia di pietra che ti ha spezzata la corazza.
Dio, che frastuono!
I turchi montano allassalto.
La duchessa si era fatta maggiormente pallida.
È perduta la città? chiese con angoscia.
Non lo so, signora, ma io non lo credo. Odo le colubrine del bastione di San Marco a tuonare sempre.
El-Kadur, va a vedere che cosa succede.
E tu, signora? Come posso lasciarti sola?
Tu sei più utile sulle mura che qui.
Non oso, padrona, abbandonarti.
Va, disse la duchessa con un gesto imperioso. Va o io mi levo e, dovessi morire a mezza via, lascerò questo rifugio. È il momento terribile in cui tutti i soldati della Croce combattono e tu hai rinnegato la fede del Profeta e sei cristiano al pari di me. Va, El-Kadur, lo voglio e uccidi anche tu gli infedeli, i nemici della nostra religione.
Larabo abbassò il capo, esitò un momento guardando la duchessa cogli occhi umidi, poi, estratto il jatagan, si slanciò fuori, mormorando:
Che il Dio dei cristiani mi protegga per salvare la mia padrona.
CAPITOLO VI. Una notte di sangue
Mentre larabo si dirigeva correndo verso il bastione di San Marco tenendosi rasente le case per non essere colpito dalle palle che cadevano sempre fitte sulla città, sprofondando nei tetti e abbattendo, col loro peso, i piani inferiori, le orde turche che erano già riuscite a varcare la pianura nonostante il fuoco intenso dei cristiani, avevano cominciato lattacco generale.
Famagosta era ormai tutta avvolta in un cerchio di fuoco e di ferro, che si stringeva sempre più, lentamente certo, ma sicuramente.
Lo sforzo supremo era diretto contro il bastione di San Marco, nondimeno anche le torri e le cinte erano assalite vigorosamente da enormi masse di combattenti che sfidavano sorridendo la morte.
I giannizzeri, quantunque avessero subìto perdite enormi, coprendo la pianura dei loro cadaveri, si erano spinti finalmente sotto il formidabile bastione che le mine avevano in parte squarciato ed erano già venuti allarma bianca, assalendo con impeto irrefrenabile le compagnie degli schiavoni e dei candiotti che lo difendevano, mentre gli albanesi, gli irregolari dellAsia Minore, ed i selvaggi figli dellArabia, tentavano di dare la scalata alle torri e di espugnarle.
Salivano i miscredenti colla furia di tigri affamate, arrampicandosi come scimmie su per lerta scarpa e le macerie, colljatagan stretto fra i denti e le scimitarre in mano, coprendosi coi loro scudi di ferro adorni di code di cavallo e duna mezzaluna dargento.
La mitraglia che li colpiva in pieno, quasi a bruciapelo, sgominava di quando in quando le loro file, poi i superstiti passavano impavidi sui morti e sui moribondi e stringevano subito le file, urlando a squarciagola:
Uccidete! Sterminate! Il Profeta lo vuole.
Ed i formidabili giannizzeri, tutti vecchi veterani che avevano provato il valore delle spade venete a Cipro ed a Negroponte e sulle coste dalmate, salivano col sorriso sulle labbra, sorrisi di belve affamate e assetate di sangue cristiano, credendo nel loro cieco fanatismo di scorgere fra il lampo degli acciai nemici i visi bellissimi delle urì del paradiso promesso dal Profeta. Che importava a loro la morte se le fanciulle del cielo aspettavano colle loro candide braccia i baldi guerrieri che morivano eroicamente sul campo di battaglia in difesa della Mezzaluna? Forse che Maometto non laveva promesso? E savanzavano sempre, con lena furibonda, strepitando ferocemente, agitando forsennatamente le scimitarre fiammeggianti, mentre dietro di loro la pianura si copriva di fumo e le artiglierie tuonavano senza un momento di tregua, coprendo Famagosta di ferro e di palle di pietra incandescenti.
I cristiani però tenevano testa allimpeto di quelle masse enormi. Incoraggiati dalla presenza del governatore, la cui voce tuonava senza che il rombo delle artiglierie riuscissero a soffocarla, opponevano una resistenza ammirabile.
Stretti sul bastione, formavano una muraglia di ferro che le scimitarre degli infedeli non riuscivano a sfondare. Picchiavano tremendamente colle mazze, sfondando gli scudi degli assalitori o fracassando elmetti e cimieri; calavano gran colpi di spada, spaccando teste e troncando braccia; foravano colle alabarde e colle picche e moschettavano a bruciapelo, mentre le colubrine seminavano la morte con scariche di mitraglia.
Era una lotta titanica, gigantesca, che empiva di terrore tanto gli assaliti quanto gli assalitori.
Intanto anche sugli altri bastioni ed intorno alle torri si combatteva con rabbia estrema e con egual strage. Gli albanesi e gli irregolari dellAsia Minore, resi furibondi dallostinata resistenza che opponevano gli assediati e dalle immense perdite subìte, tentavano con sforzi disperati di superare le cinte, appoggiandovi un numero infinito di scale che venivano quasi sempre rovesciate nei fossati con tutti quelli che vi erano sopra.
Anche da quella parte la strage era così immensa che le scarpate grondavano sangue, come se migliaia di buoi venissero macellati sopra le merlature. I turchi cadevano a drappelli interi, massacrati dai moschetti, dalle spade e dalle picche, ma altri subito subentravano e ritentavano gli attacchi con cieca ostinazione.
Saccanivano specialmente contro le torri, sulle cui piattaforme le colubrine venete sparavano senza perdere un istante ed era là che subivano le maggiori perdite. Quei vecchi ed altissimi edifici non erano facili ad espugnarsi, poichè opponevano una resistenza meravigliosa alle mine ed agli arieti.
Si smantellavano i rivestimenti esterni, ma quelli interni non cedevano facilmente, tanto quelle torri erano state solidamente costruite dagli ingegneri della Repubblica Veneta.
Di tratto in tratto, i cristiani, disperando ormai delle proprie difese, decisi a morire colle armi in mano, piuttosto di lasciarsi trucidare più tardi freddamente, smantellavano colle loro mazze e colle scuri le merlature, facendo piovere sugli assalitori ammassi di macerie che ne storpiavano un gran numero.
Mentre su tutti i punti della città, soldati e abitanti gareggiavano in valore, risoluti a tutto tentare pur di infliggere al crudele nemico perdite enormi, fra quellorrendo frastuono di bronzi tuonanti e di urla di moribondi e di combattenti, fra quel cupo fragor di spade e di mazze percuotenti scudi e armature, fra lo scoppiar fragoroso delle mine, squillavano sempre per laria fumante, le campane delle chiese e dalle strette viuzze, salzavano le preghiere delle donne singhiozzanti, imploranti San Marco, il protettore della Repubblica Veneta.
Quando El-Kadur, sfuggito miracolosamente alle palle di pietra che grandinavano sulla città, lasciando dietro delle strisce di fuoco come fossero bolidi, giunse al bastione principale, contro cui saccanivano i giannizzeri, la lotta aveva preso proporzioni terribili.
Le piccole falangi cristiane, oppresse dagli assalti incalzanti degli infedeli, decimate dal fuoco delle pesanti colubrine piazzate nella pianura, affrante da quella battaglia che durava già da tre ore, cominciavano a dare indietro.
Combattevano ormai dietro a cumuli di morti che avevano formato dinanzi a loro una nuova trincea. Tutto il bastione era coperto di guerrieri boccheggianti, che gli jatagan degli infedeli saffrettavano a finire, spaccando loro la gola; di scudi, di elmi, di picche, di alabarde, di spade e di colubrine ormai smontate.
Il governatore, pallidissimo, senza elmetto, colla cotta di maglia in più punti spaccata dalle armi dei turchi, circondato dai suoi capitani, ben pochi perchè i più erano caduti, cercava di riorganizzare le bande dei marinai veneti e degli schiavoni, per tentare una nuova e più disperata difesa.
Dietro al bastione si estendeva una vasta piattaforma riparata da un muricciolo, una specie di rotonda che serviva alle esercitazioni dei guerrieri e che aveva ai due lati dei piccoli ridotti.
Il governatore, vedendo che ormai il bastione era perduto, aveva dato lordine di ritirare in quel luogo le colubrine che erano ancora servibili e di fare impeto sui turchi che già salivano la scarpata esterna.
Cerchiamo di resistere fino a domani, ragazzi! aveva gridato il valoroso Baglione. Avremo sempre tempo per arrenderci.
Gli schiavoni ed i marinai, quantunque crudelmente decimati da quella lotta sanguinosissima, nonostante la pioggia di palle, avevano messe in salvo otto o dieci colubrine, armando rapidamente i ridotti, mentre i guerrieri cercavano di trattenere per qualche istante gli infedeli, combattendo sopra la cinta del bastione e rovesciando giù per la scarpa i merli che ancora rimanevano ritti.