I due cacciatori giunsero ben presto al «fiord», ma i due albatros, un po magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista.
Vigliacchi! esclamò il fiociniere.
E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro disse il tenente.
Ma oh!
Che hai?
Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! disse Koninson a bassa voce.
Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli.
È una foca! disse Koninson.
No, deve essere un tricheco disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla.
Bisogna ammazzarlo.
Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare.
Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco.
Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore.
Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dellAsia e dellAmerica, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori.
Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò.
Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare lorlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo.
Bella fucilata esclamò il fiociniere volgendosi al tenente che si avvicinava colla solita calma. Questi sì che sono animali che valgono una palla!
Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili dolio.
E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup.
Che ce ne siano degli altri?
Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi.
E ve neran molti in questisola?
Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento.
Che strage!
E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che lequipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore.
In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio.
Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari.
E come faremo a trasportare a bordo questo bestione?
Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo lescursione Koninson.
I due cacciatori si misero a costeggiare lisola facendo unampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani.
Alle 6, carichi come muli, simbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.
VI. IL DISINCAGLIAMENTO
La mattina del 12 settembre, giorno della grande marea, il «Danebrog» era pronto a riprendere il mare. La falla era stata accuratamente chiusa dal carpentiere, e tanto bene da non lasciare penetrare la più piccola goccia dacqua e da poter sopportare gli urti dei ghiacci. Non restava da farsi che il disincagliamento, operazione difficile ma sul cui esito nessun uomo dellequipaggio dubitava.
Mancando quattro sole ore alla massima altezza del flusso, i preparativi furono alacremente spinti innanzi. Per il mezzodì tutto doveva essere pronto e ogni uomo al suo posto, onde non correre il pericolo di far riuscire vani gli sforzi e dover attendere parecchi altri giorni.
Il capitano innanzi tutto fece trasportare tutto il carico della stiva a poppa per rendere più leggera la prua e quindi più facile il disincagliamento. Dopo di che fece imbarcare due delle maggiori ancore che furono gettate a sessanta braccia dalla poppa, su di un fondo resistente, e fermare le gomene ai due molinelli di bordo, mentre il tenente faceva preparare le vele, per allontanarsi subito, disincagliata la nave, dal pericoloso bacino che gli scogli chiudevano quasi interamente.
Alle 10 tutto era pronto a bordo del «Danebrog» e tutti gli uomini ai loro posti.
La marea cresceva con qualche rapidità, coprendo le nere degli scoglietti e producendo sopra questi un forte gorgoglio. Ben presto quasi tutte le rocce scomparvero e a prua della nave si udì un leggero fremito seguito tosto da alcuni scricchiolii.
Pronti! gridò il capitano.
I marinai si curvarono sulle aspe dei molinelli e attesero con trepidazione. Più di un viso era diventato pallido per lemozione.
I fremiti e gli scricchiolii continuavano, anzi diventavano più forti man mano che il flusso montava.
Alle 12,25 il capitano, che aveva in mano un cronometro, gridò con voce tonante:
Forza, ragazzi! Forza!
I marinai diedero un colpo violento alle aspe che si curvarono. Le due gomene di poppa si tesero senza che le ancore si movessero, ma la nave, quantunque continuasse a scricchiolare, non si mosse. Il capitano impallidì e si sentì bagnare la fronte di un freddo sudore.
Forza, forza! ripetè.
Il tenente si precipitò in aiuto dei marinai che facevano sforzi disperati. Passarono alcuni secondi che parvero lunghi come tanti minuti poi il «Danebrog» scivolò bruscamente sulla sabbia retrocedendo con notevole velocità. Il capitano, che era subito balzato a prua, lasciò andare a picco un ancorotto, mentre il tenente correva alla ribolla del timone.
Il «Danebrog» percorse cinquanta braccia, poi si arrestò di colpo a meno di una gomena dagli scogli.
Un urrah fragoroso irruppe da tutti i petti. La nave baleniera era ormai salva.
Il tenente si fece incontro al capitano che era diventato raggiante di gioia e gli strinse vigorosamente la destra.
Dio ci protegge gli disse.
Bisogna crederlo, signor Hostrup, rispose Weimar. Ho tremato assai per il mio «Danebrog», che amo come se fosse un pezzo della mia carne. Se lavessi perduto non mi sarei più consolato.
Ed ora andiamo?.
Sulle coste della Giorgia, tenente. Faremo una rapida campagna, poi torneremo a sud.
Con un carico completo, speriamo.
Sì, tenente. Il cuore mi dice che vinceremo la scommessa.
Dio lo voglia, capitano.
Non essendo prudente fermarsi fra quegli scogli, Weimar fece calare in mare le baleniere e rimorchiare il «Danebrog» al largo.
Alle 2 del pomeriggio, dopo aver visitata la riparazione che fu trovata perfettamente asciutta, i marinai spiegavano le vele e la nave si rimetteva in cammino dirigendosi verso il capo di Galles, che forma lestrema punta, verso occidente, della costa americana.
Il mare era quasi tranquillo, di un verde superbo e affatto deserto. Solamente delle procellarie e dei gabbiani volteggiavano sopra le larghe ondate, mandando di quando in quando delle rauche strida.
Un vento fresco, ma che soffiava irregolarmente, ora da sud ed ora da sud-sud-est, gonfiava le vele della nave, la quale scivolava con celerità discreta lasciandosi a poppa un solco spumeggiante.
Signor Hostrup, disse Koninson avvicinandosi al flemmatico comandante che guardava attentamente le onde, appoggiato alla murata di tribordo impiegheremo molto a raggiungere la costa americana?
Prima di mezzanotte gireremo il capo di Galles, fiociniere.
Ditemi, tenente, è vero che questo stretto ha una profondità spaventevole?
Sì e tanto che se una fregata affondasse, i suoi alberetti rimarrebbero fuori dallacqua. Se vuoi saperlo, la sua spaventevole profondità non supera i diciannove metri.
Soli?
Soli, Koninson, nè uno più nè uno di meno.
E sono molti anni che fu scoperto questo stretto?
Non troppi, Koninson. Prima del 1741 lo si ignorava, anzi molti credevano che lAmerica fosse unita allAsia.
E chi lo scoperse?
Vito Behring
Un russo?
Per i russi sì, ma per gli altri no, poichè Bhering è nato in Danimarca come ci sono nato io e come ci sei nato tu.
Ah! Un nostro compatriota! Deve essere stato un grande marinaio.
Se non lo fosse stato, non si sarebbe spinto fin qui, a quel tempi in cui si ignorava dove erano le coste, le isole, gli scogli, i banchi e quali le correnti.
Aveva intrapreso la spedizione per suo conto?
No, per incarico dellimperatrice delle Russie, Caterina. E ciò accadeva nel 1728, ma Behring volle prima esplorare le coste siberiane e accertarsi se il Giappone era unito o staccato dalla penisola di Kamtsciatka. Dapprima navigò verso sud-est, ma non trovando alcuna terra mise la prua verso nord-est e dopo 44 giorni, a 58° 50 di latitudine, scopriva le montagne della costa americana.
E vi sbarcò?
No, poichè allora scoppiò una tempesta così orribile che lo costrinse a ritornare, e quale ritorno! Il 3 novembre la spedizione naufragava su di unisola lontana 160 chilometri dalla penisola di Kamtsciatka e colà pativa tali sofferenze che molti marinai perirono e fra questi anche Behring.
E qui viene un punto molto oscuro.
Si narrò da taluni che quando lo sfortunato navigatore fu gettato nella fossa onde seppellirlo, respirava ancora anzi che respingeva colle mani la sabbia che gli veniva gettata sopra.
Che sia stato commesso un delitto?
Chi può dirlo?
Povero Behring! E cosa successe dei suoi compagni?
Rimasero colà tutto linverno, poi fabbricarono una navicella coi rottami della nave naufragata e ripresero coraggiosamente il mare; dopo altri patimenti riuscirono a raggiungere le coste della penisola di Kamtsciatka.
In quellistante si udì un marinaio, che era salito sulla gran gabbia segnalare la costa americana, che una nebbiola aveva fino allora tenuta celata. Era il capo di Galles, punta scoscesa, aridissima, dietro la quale, ad una certa distanza però, si elevano delle montagne che per la maggior parte dellanno si vedono coperte di neve.
Il «Danebrog», che correva assai, si avvicinò alla costa, poi virò di bordo dirigendosi verso il golfo di Krotzebue che si apre fra il capo Krusenstern a nord e il capo Espemberg a sud e che rinchiude ad est la baia di Escholtz, davanti la quale si trova lisola Chamisso, a sud quella di Spasariet e ad ovest quella di Buona Speranza.
A due chilometri dal capo di Galles la costa americana, che fino allora si era mostrata dirupatissima, cominciò ad abbassarsi e apparvero immense paludi sulle quali si vedevano volteggiare migliaia di oche, di gabbiani, di gazze marine, di strolaghe e di urie. Le loro grida, portate dal vento, giungevano fino a bordo del «Danebrog».
Alcuni di quegli uccelli vennero fin presso la nave, e il tenente si divertì a sparare alcune fucilate.
Durante la notte del 12-13 notte per modo di dire, poichè il sole splendeva sempre il vento crebbe considerevolmente, accelerando la corsa del «Danebrog», e la temperatura, fino allora dolcissima si abbassò improvvisamente a 0°. Lindomani il legno girava il capo Espemberg e passava dinanzi al golfo di Kotzebue che sinsinua entro terra per ben venti leghe su una larghezza di ventitrè. Le sue coste erano alte, spalleggiate da gruppi di montagne e apparivano affatto deserte. Nessun canotto solcava le acque tranquille del golfo, dove in certe epoche si recano a pescare gli indiani Kitgoni che abitano le sponde settentrionali, e gli indiani Kiumisi che abitano le meridionali.
Di balene nessuna traccia. Invece furono segnalati alcuni delfini gladiatori, nemici accaniti delle prime, dotati di una forza prodigiosa e di una voracità straordinaria. Qualcuno era lungo più di otto metri.
Il 14, presso il capo Krusenstern, Koninson che guardava sempre attentamente il mare sperando di trovare quelle materie oleose che si lasciano addietro le balene, segnalò un banco di «boete», il quale aveva fatto cangiare tinta allacqua, che appariva bruna anzichè verdastra. Questi banchi, che le balene cercano avidamente, sono formati da piccoli crostacei in forma di gamberi ma il cui diametro non supera i due millimetri e si producono in primavera e in estate. Talvolta hanno una lunghezza di quindici e persino venti leghe, una larghezza di una o due e uno spessore di quattro o cinque metri.
Una volta, quando sincontravano questi banchi, si trovava sempre una balena o anche due disse malinconicamente Koninson, volgendosi verso il tenente che gli stava presso.
Mio caro fiociniere, oggi le balene sono assai scemate rispose Hostrup. Non sono molti secoli che si vedevano a frotte nel mare di Biscaglia, ed ora se si vuol trovarne una bisogna risalire in questi mari.
Sono forse diminuite a causa di qualche malattia?
No, a causa della caccia accanita dei balenieri. Ogni anno se ne distruggono un numero grandissimo, anzi non si esita ad affermare che nessuna balena può raggiungere il suo completo sviluppo, perchè prima di questo cade sotto il rampone dei fiocinieri.
E siamo solamente noi a distruggerle?
Purtroppo no. Le balene hanno altri nemici e forse più accaniti di noi.
E quali mai? Chi osa sfidare simili giganti che hanno una coda così possente?
Il più feroce è un crostaceo detto «pidocchio di balena», il quale aderisce talmente alla pelle dei cetacei che per staccarlo bisogna farlo a brani.
Ma come può, un crostaceo, uccidere una balena?
Nel modo più facile, Koninson. Questo pidocchio le si aggrappa nei punti più delicati, o sulle labbra, o sugli organi generativi e comincia a rodere cacciandosi entro le carni, causandole dolori sì atroci che dopo un certo tempo la disgraziata è costretta a morire.
Che mostro!
Ma ci sono altri nemici e non meno feroci. I capodolii, come ben sai, assalgono le balene tutte le volte che le incontrano e le mordono, così orribilmente da ucciderle.
Ho assistito una volta a una simile lotta.
Ve ne sono degli altri: i pescispada e i narvali, che si divertono a cacciare il loro acuto corno nel ventre dello sfortunato cetaceo; e i delfini, specie quelli detti gladiatori, che gli si cacciano, in bocca e ne divorano la lingua.
Che canaglie! E di tutti questi nemici quale è il più terribile?
Luomo, il quale ogni anno ne distrugge centinaia e centinaia.
Allora verrà un giorno che non se ne troverà più una.
Sì, se le balene non si affrettano a rifugiarsi al di là dei ghiacci eterni, sotto il polo.