Il Bramino dell'Assam - Emilio Salgari 2 стр.


«Un cavallo!» esclamò Yanez, diventando leggermente pallido. «Che nella mia capitale sia scoppiata la rivoluzione? Sono tutte cariche le carabine?»

«Sì, Altezza» disse Kammamuri. «Abbiamo trentaquattro palle da regalare ai bufali». «Troppo poche». «Le munizioni abbondano».

«Non so se ci lasceranno sempre il tempo di ricaricare le armi, mio bravo maharatto. Pronti! Per tutti i fulmini di Giove! Bindar!» Un bellissimo cavallo nero era sbucato dalle macchie, correndo verso il carro.

Un indiano magro come un fakiro, eppur giovane ancora, lo montava tenendo ben raccolte le briglie, e le punte dei piedi cacciate dentro le staffe, che non erano quelle larghe coi margini taglienti, usate dai mussulmani indiani. Il cavallo, vedendo i bufali, aveva fatto un fulmineo dietro front, preparandosi a scappare con tutte le sue forze. Per istinto, conosceva troppo bene la potenza di quei bestioni. «Bindar!» urlò Yanez. «Che cosa vieni a fare qui? A farti sventrare?»

«Mio signore», gridò lindiano a gran voce «hanno avvelenato anche il vostro terzo ministro. È morto un paio dore fa». «Corpo di Giove! Che cosa vieni a raccontarmi tu?» «La verità, Altezza». «E Surama e mio figlio, il mio piccolo Soarez?» «Vivi tutti. Tornate presto: Tremal-Naik vi aspetta».

«Fuggi tu intanto. Avremo da fare a cavarcela con questi animali. Scappa! Scappa! Porta i miei saluti a mia moglie! Veglia su mio figlio!» «Sì, maharajah! Che Visnù ti protegga!»

Il cavallo aveva già presa una corsa sfrenata scomparendo quasi subito sotto i grandi vegetali.

I bufali sempre maligni e molto intelligenti, avevano lasciato in pace il carro ed anche lelefante, dalla cui proboscide, oltre che dalle zanne, molto avevano da temere, e si erano scagliati dietro al cavaliere, come il più debole a reggersi ad un attacco poderoso. Sotto le immense volte di verzura rintronarono due spari che parvero di pistola, poi anche la banda indemoniata, inattaccabile sempre muggente, scomparve, lanciata a gran velocità sulle tracce del cavaliere.

«Hai udito, Kammamuri?» chiese Yanez, con voce un po alterata. «Anche il mio terzo ministro avvelenato! La mia corte è piena di traditori dunque? Domani avveleneranno me, poi la rhani mia moglie, poi mio figlio ed anche tutti voi amici fedeli. Corpo duna saetta! Ne ho già abbastanza di questa corona che pesa come se fosse di piombo. Questo impero, come lo chiamano pomposamente, non vale la nostra piccola isola di Mòmpracem, per le centomila corna di tutti i diavoli noti ed ignoti».

«La notizia che ci ha recata Bindar è impressionante, signore. Si direbbe che nella vostra corte si siano stabiliti alcuni di quei dacoiti che hanno avvelenato mezza popolazione del Bundelkund».

«Io penso ad altro» disse Yanez, tormentando il grilletto della carabina. «E non è da oggi che questo pensiero terribile mi perseguita». «Dite, signor Yanez».

«Che Sindhia sia fuggito dallospedale dei pazzi di Calcutta, dove lavevamo internato».

«Ma che! Quelleterno ubriacone non saprà mai fare nulla anche se libero, signor Yanez».

«Io non condivido affatto la tua fiducia, mio bravo Kammamuri» rispose il principe. «Intorno a noi regna il tradimento, ed il tradimento indiano è il più terribile». «Signore, torniamo subito».

«Se i bufali ci lasceranno il passo. Ritorneranno, lo vedrai, e ci daranno ancora dei grossi fastidi».

Poi alzando la voce gridò al cornac che montava il coomareah, e che era riuscito a domare lenorme bestione:

«Metti in salvo Sahur! Ci è necessario per tornare alla capitale. Approfitta di questo momento di tregua».

«Sono ormai padrone io, maharajah, della mia bestia» rispose il cornac. «Ora lo condurrò in un luogo sicuro, e se vorrà fare dei capricci lavorerò darpione senza badare dove tocco». «Vàttene, allora!» «Sì, signore».

Lelefante si era calmato, non avendo veduto più i bufali, ed obbediva al suo conduttore abbastanza docilmente.

Dapprima cercò di avvicinarsi al carro, forse collidea fissa di proteggere i cacciatori o di mettersi sotto la loro protezione, poi, dopo avere scrollato più volte il dorso gigantesco e le enormi orecchie, ritornò a piccolo trotto dentro la folta macchia.

«Ritornare subito!» disse Yanez. «Si fa presto a dirlo: vorrei però vedere gli altri cacciatori nella nostra situazione. Finché non avremo distrutto buona parte di quei maligni animali, saremo costretti a rimanere qui». «Che abbiano raggiunto Bindar?» chiese Kammamuri.

«No, è troppo esperto cavaliere, e poi montava uno dei miei più veloci cavalli. I bufali hanno la carica impetuosa, però dopo pochi minuti cominciano a sfiatarsi ed a rallentare la corsa». «Che ritornino?»

«E me lo domandi? Mi sembra già di vedermeli dinanzi. Quelle bestie non lasciano il campo di battaglia senza tentare delle rivincite che faranno sempre paura non solo a tutti i cacciatori dellAsia, bensì anche a quelli dellEuropa che qualche volta vengono fra noi a provare le loro grosse carabine. Avvelenato! Ed è il terzo! Cè da impazzire». «Da impressionarci certamente, signor Yanez».

«Questa volta però voglio vedere ben dentro a questo delitto, e quel cane che lo ha commesso non sfuggirà alla scimitarra del mio carnefice. Conto assai su Timul: quelluomo è un meraviglioso cercatore di piste. Se trova quella dellassassino la seguirà anche fino alle grandi montagne dellHimalaya, anzi più oltre, anche nel cuore del Tibet. Non comprendo il motivo di questi delitti. Io sono popolarissimo, la rhani mia moglie più di me ancora, tutti ci amano e ci avvelenano a tradimento. Cominciando da questa sera io non mangerò che uova sode che spaccherò e sguscerò io».

«E farete bene, signor Yanez. Non cè più da fidarsi. Impasterò il pane io per voi, per la rhani, per il piccolo Soarez e per il mio padrone».

«Un vecchio cacciatore che diventa panettiere!» disse il portoghese, tentando di scherzare.

«Noi, maharatti, sappiamo ammazzare una tigre od un elefante, come impastare e cucinare una pagnotta. Prendo io il comando delle cucine reali e, se sorprendo qualche cuoco a gettare nei cibi delle polveri velenose, lo uccido con un solo colpo di tarwar». «E poi darai il corpo a mangiare alle tigri dei nostri giardini».

«Sissignore. Dobbiamo impressionare profondamente questi traditori che minacciano di mandarci tutti tra le braccia di Parvati, la dea della morte». «Aspetta prima di sorprenderlo!» «Eh! Chi lo sa!»

«Vedremo che cosa dovremo fare quando saremo ritornati alla capitale. Intanto, giacché ti sei offerto come cuoco, per me e per tutti i miei preparerai uova». «Vi stancherete, signore» disse Kammamuri, ridendo. «Mangeremo anche delle frutta che sbucceremo noi».

«Non mi fiderei più, signor Yanez. Si fa presto ad avvelenare un banano iniettando sotto la scorza, con una sottile siringa, un po di bava del cobra-capello».

«Mi fai venire freddo, Kammamuri, eppure il termometro segna 40° e alza sempre. Queste cose a Mòmpracem non succedevano. Eh! Tornano?»

«Sì, mi pare» rispose Kammamuri. «Saranno più furibondi che mai e tenteranno di rovesciare il carro». «Non sono elefanti» rispose Yanez. «Tutte le carabine sono cariche?» «Sì, Altezza» risposero ad una voce gli sikkari.

«Daremo unaltra terribile lezione a quei bruti che minacciano di tenerci qui prigionieri, mentre così gravi avvenimenti succedono nella mia capitale».

«Udite, signore?» gridò in quel momento Kammamuri. «Forzano la foresta e cercano di piombarci addosso da unaltra parte».

«Guarda se qualcuno di quei bestioni ha le budella del cavallo appese alle corna».

«Siva non lo voglia, poiché significherebbe che anche Bindar è stato sventrato». «Può essersi salvato su di un albero. Pronti!»

«Daremo unaltra terribile lezione a quei bruti che minacciano di tenerci qui prigionieri, mentre così gravi avvenimenti succedono nella mia capitale».

«Udite, signore?» gridò in quel momento Kammamuri. «Forzano la foresta e cercano di piombarci addosso da unaltra parte».

«Guarda se qualcuno di quei bestioni ha le budella del cavallo appese alle corna».

«Siva non lo voglia, poiché significherebbe che anche Bindar è stato sventrato». «Può essersi salvato su di un albero. Pronti!»

I bufali giungevano col solito slancio, aprendosi impetuosamente il passo attraverso i cespugli che venivano atterrati e quasi polverizzati da tutte quelle poderose zampe.

Si arrestarono un momento sul margine della radura in mezzo alla quale si trovava il carro, muggendo furiosamente. Grondavano sudore e la schiuma imbrattava i loro larghi petti, scendendo a terra, come tanti piccoli fili dargento.

Dovevano essere esausti. Il cavallo li aveva certamente trascinati in una corsa velocissima, sfuggendo anche al loro attacco, perché dalle corna delle bestie non pendeva nessun intestino. I loro fianchi pulsavano fortemente ed i loro occhi erano iniettati di sangue in modo da fare spavento.

«Giù!» comandò Yanez, che cominciava ad averne abbastanza dellostinazione di quegli animali.

Otto colpi partono, uno dietro allaltro, ed una pioggia di palle coniche, rivestite di rame, colpisce nuovamente in pieno i giganti delle jungle. Tre o quattro cadono, colle spine dorsali fracassate, poiché i cacciatori non miravano né alla testa, né al petto, ma gli altri, sempre più inferociti, si scagliano come una tromba, colle corna ben tese, decisi a non rientrare nella boscaglia senza aver vendicati i compagni. Il momento è terribile. Il carro è pesantissimo ed assai robusto, tuttavia anche Yanez è diventato un po pallido. «Non lasciamoli avvicinare!» gridò. «Fuoco! Fuoco! Fuoco!»

CAPITOLO SECONDO: IL VELENO DEL BIS COBRA

Sparavano gli sikkari, freddamente, da vecchi cacciatori, lanciando le loro palle coniche in tutte le direzioni, poiché lattacco era diventato avvolgente, ma i terribili animali invasati dal demonio della vendetta, non avevano interrotto il loro spaventoso attacco. Tre volte passarono a corsa sfrenata intorno al carro, lasciandosi sempre dietro dei morti o dei moribondi, poiché Yanez e Kammamuri, vecchi cacciatori, non mancavano mai ai loro colpi. Erano ancora in quaranta, e forse anche più, e tutti di mole enorme. Il loro urto fu così formidabile che il carro, malgrado il suo peso, e quantunque avesse le alte ruote affondate nel molle terreno della foresta, indietreggiò con un rombo spaventevole. Per un momento Yanez ed i suoi compagni provarono la sensazione di una violentissima scossa di terremoto e temettero che tutto andasse allaria ma le grosse travi, bene unite da arpioni di ferro, tennero fermo. I bufali, sempre più rabbiosi, si accanivano raddoppiando le cariche con una violenza forse mai veduta. Alcuni si erano spezzate le corna, altri erano rimasti come appesi ed erano stati subito finiti colle lunghe pistole indiane, armi magnifiche che valgono meglio di tutte le rivoltelle del nuovo e del vecchio mondo.

I colpi si susseguivano ai colpi, i lampi ai lampi, il fumo al fumo. Due sikkari ricaricavano senza posa le armi che passavano poi a Yanez ed ai suoi compagni, i quali conservavano un meraviglioso sangue freddo, quantunque il grosso carro subisse un vero rollio, come se fosse diventato una nave perduta entro qualche grande tempesta. Già dieci o dodici bufali giacevano al suolo, alcuni fulminati, altri gravemente feriti da quelle palle rivestite di rame, quando un barrito formidabile echeggiò sul margine della radura.

«Per Giove!» esclamò Yanez, fulminando con una pistolettata un vecchio toro che aveva piantate le sue corna così profondamente entro le travi, da non potersi più ritrarre. «È diventato pazzo quel bestione? O le sue budella gli pesano dentro il gran ventre? Che cosa fa il cornac? Per Giove! Non ce la caveremo più se anche lelefante si fa sventrare. Chi tirerà questa fortezza fino alla capitale?»

Parlava, ma sparava, adoperando ora le grosse carabine da caccia ed ora le pistole, malmenando orribilmente i testardi delle jungle.

«No, signor Yanez» disse Kammamuri, alzando la carabina fumante colla quale aveva atterrato un altro bufalo. «Sahur per la seconda volta accorre in nostro aiuto. Ah! Quanta intelligenza hanno i nostri elefanti! Guardate: il cornac lo guida come se fosse un agnellino».

Sahur usciva in quel momento dalla macchia, però non pareva affatto che fosse un agnellino. Caricava anche lui, colla tromba in aria, le zanne tese, lanciando una vera fanfara di guerra.

Il suo cornac, ormai completamente tranquillo sulle intenzioni del colosso, non faceva nemmeno uso dellarpione. Lo eccitava invece con dolci parole, chiamandolo forte dei forti, sterminatore di tutte le tigri, potente dei potenti. Il bravo elefante, sensibile a quelle lodi, conscio daltronde della propria forza, rovinò a sua volta in mezzo ai bufali menando terribili colpi di proboscide.

Parevano cannonate. I bufali cadevano coi crani sfracellati o colle costole ed i polmoni sfondati. Lavoravano le carabine e le pistole, ma lavorava meglio il bravo e coraggioso elefante.

Agile, malgrado le sue forme massiccie, sfuggiva agli assalti fulminei dei bufali, che riceveva o sulla sua potente proboscide o sulle sue zanne. Il cornac lo eccitava sempre.

«Va, figlio di Visnù! Va, terrore delle jungle! Stermina, distruggi per la salvezza dei tuoi padroni!»

E lelefante alle cariche dei bufali rispondeva con altrettante cariche, gettandone sempre in aria parecchi, che poi calpestava rabbiosamente sotto le larghe zampe, facendo crocchiare le ossa.

«Fulmini di Giove!» esclamò Yanez, che aveva appena allora sparato due colpi di pistola. «Questo elefante è veramente meraviglioso! Sotto, Sahur!»

Il pachiderma, come se avesse conosciuta la voce del suo signore, si scagliò proprio in mezzo ai bufali che si accanivano intorno al carro, senza grande successo, menando la tromba con vigore estremo. Fracassava costole, spezzava gobbe, sfondava teste, servendosi anche, di quando in quando delle sue lunghissime ben affilate zanne per inchiodare al suolo qualche avversario che minacciava di piantargli le corna nel ventre.

«Forza, Sahur!» gridava il cornac, tenendosi dietro le enormi orecchie del bestione. «Uccidi! Distruggi come Brahma, Siva e Visnù! Guàrdati dalle corna, mio piccolo pavone, e nientaltro!»

Lelefante, incoraggiato anche dalle grida degli sikkari che ben conosceva, ed inebriato un po dallodor della polvere, poiché il fuoco continuava dal carro, facendo dei grandi vuoti fra gli assalitori, aumentava la sua collera.

Caricava e ricaricava alla disperata, menando sempre la proboscide, la quale cadeva sulle robuste spalle dei bufali col fragore di tanti colpi di spingarda. Più che decimati dal fuoco delle carabine e delle lunghe pistole e dai colpi di tromba, i testardi figli delle umide jungle, dopo daver tentato ancora una carica disperata, volsero le groppe e fuggirono rientrando nella foresta. Quindici o sedici di loro erano rimasti sul terreno. Tre o quattro altri stavano spirando, muggendo disperatamente e tirando calci.

«Finalmente!» esclamò Yanez, dopo daver sparato un ultimo colpo di carabina sulla banda fuggente ed ormai completamente disorganizzata. «Abbiamo consumato delle belle munizioni per dare da mangiare alle tigri ed agli sciacalli».

«Come, signore?» chiese Kammamuri. «Non farete togliere almeno le lingue ai morti? Sapete bene quanto sono squisite». «Ho fretta di tornare alla capitale».

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