«Almeno un po di lingue per mostrare che noi abbiamo ucciso veramente di questi bufali che fanno tanta paura ai più audaci cacciatori».
«Ti accordo un quarto dora, il tempo necessario per aggiogare Sahur al carro. Prendi gli sikkari e fa presto».
I sette uomini balzarono a terra, armati di scuri e di coltelli, mentre Yanez offriva allelefante una manata di pezzi di zucchero.
«Sai, cornac», disse «che abbiamo un elefante meraviglioso? Non credevo che questo coomareah fosse capace di caricare dei bisonti. Un merghee vi si sarebbe certamente rifiutato».
«Lo credo anchio, Altezza» rispose lindiano, accarezzando il bestione, al quale Yanez continuava ad offrire zucchero e delle pagnotte col burro. «Per me è il migliore che possediamo». «Basta, attacca e torniamo subito alla capitale. Ho molta fretta, cornac». «Sahur, se troverà posto correrà come un cavallo». «A terra allora, e prima esamina le catene poiché il carro è pesantissimo». «Fra cinque minuti noi saremo in viaggio, Altezza».
Yanez discese dal carro e raggiunse Kammamuri e gli sikkari. Questi lavorando a gran lena, sfondando e tagliando, avevano già messe da parte quindici o sedici lingue di dimensioni straordinarie e che promettevano bocconi squisiti.
«Ne serberai una per me, Kammamuri, per la cena di questa sera, ma tu solo devi incaricarti della sua cottura».
«Ah! Avete già rinunciato alle uova, signor Yanez?» disse il maharatto, con accento un po beffardo.
«Comincerò domani» rispose serio serio Yanez. «Lasciate andare gli altri bufali».
«Peccato lasciare tutta questa carne agli sciacalli. Questa sera accorreranno qui a centinaia e centinaia, e domani non avranno lasciate che le ossa».
«Non abbiamo tempo di occuparcene, mio bravo Kammamuri: partiamo subito».
Sahur era stato già attaccato al pesantissimo carro, mediante robuste catene, e cominciava a dar segni dimpazienza soffiando rumorosamente e pestando e ripestando il terreno colle sue larghe zampe. «Siamo pronti, cornac?» chiese Yanez. «Quando vorrete, Altezza».
Gli sikkari con Kammamuri montarono portando le lingue che accumularono in un angolo, coprendole con un pezzo di tela, per tenere lontane le mosche che nelle foreste indiane, sono assai grosse e voracissime, poi mentre Yanez accendeva la sua eterna sigaretta, il coomareah, ad un grido del suo conduttore raccolse tutte le sue forze e diede uno strappo violento tendendo le catene. Lenorme carro, che aveva le quattro ruote mezzo affondate nel terreno molle e quasi spugnoso, per qualche po rimase immobile, però alla terza ripresa del bravo elefante fu come strappato, e si mise in viaggio attraverso alla folta foresta che cominciava a diventare oscura per limminente tramonto del sole.
«Non credevo di tardare tanto» disse Yanez, il quale continuava a fumare seduto su una cassa contenente dei viveri e delle bottiglie. «Eppure siamo partiti di buon mattino, è vero, Kammamuri?» «Ci si vedeva appena, Altezza».
«Che il diavolo porti nelle bolge infernali te e tutte le Altezze che regnano nellIndia».
«Non sono ancora troppo vecchio, signor Yanez» disse il maharatto, ridendo. «Prima di andarmene allaltro mondo voglio rivedere le jungle delle Sunderbunds e lisola di Mòmpracem». «Per cercare che cosa, nelle Sunderbunds? Dei thugs? Li abbiamo distrutti».
«Hum!» fece il maharatto. «Ne abbiamo ammazzati molti dentro le gallerie sotterranee, che più nessuno avrà vuotate; che siano morti poi tutti, non so dire, signor Yanez».
«Corpo di Giove!» esclamò il portoghese, lanciando via la sigaretta per prenderne subito unaltra. «Tu mi metti una pulce nellorecchio destro». «Dite pure». «Vorresti forse dire che Sindhia ha cercato un appoggio negli strangolatori?»
«Tutto è possibile in questo paese, signor Yanez» disse Kammamuri, il quale appariva assai preoccupato.
Il principe rimase un momento silenzioso, fumando con maggior furia, poi disse:
«Non credo: qui si tratta di avvelenamenti e non di strangolamenti. I thugs in questo affare non devono entrarci affatto, e poi sono ormai dispersi e perseguitati dalla polizia inglese come cani idrofobi, e fucilati senza processo. Qui centrano i dacoiti, ne sono sicuro. Tu che sei indiano, dimmi un po chi sono quei personaggi».
«Valgono i thugs, signor Yanez» rispose Kammamuri. «Forse sono più pericolosi ancora». «Delle canaglie?»
«E che canaglie! Costituiscono delle vere bande di ladri e di briganti, astuti, audacissimi, più lesti dei cobra-capello a propinare il veleno alle vittime. Agiscono per lo più nel Bundelkund, tuttavia non mi stupirei che un manipolo di quei furfanti fosse stato assoldato da Sindhia».
«Sindhia!» gridò Yanez, lanciando via la seconda sigaretta e corrugando la fronte. «Tu dunque credi che sia fuggito dal manicomio di Calcutta, dove Surama laveva internato con un appannaggio più che principesco? Che voglia riconquistare il suo impero? Ah! Non sono uomo da lasciar portar via la corona che brilla sulla bella fronte di mia moglie!»
«Per la morte di Visnù! Non abbiamo ripresa Mòmpracem, malgrado tutti gli incrociatori inglesi? Ci vorrebbero però, signor Yanez, alla vostra corte, una cinquantina di quei terribili ed incorruttibili malesi».
«E perché non li faremo venire?» disse Yanez, il quale era diventato assai pensieroso. «Fra Calcutta e Labuan oggi vi è un buon cavo sottomarino: un dispaccio potrà al massimo impiegare unora, i malesi a giungere qui ci metteranno appena quindici giorni, poiché ormai Sandokan, se conserva i suoi prahos, ha dato la preferenza al vapore. Per Giove! Sono più inquieto di quello che tu creda. I dacoiti nel mio impero! Tanti ne prenderò e tanti ne farò fucilare. Fucilare! Ma che! Li farò legare alla bocca dei cannoni e manderò in aria i loro stracci di carne insieme alle ossa». «Signor Yanez, diventate feroce come la Tigre della Malesia!»
«Devo difendere mia moglie e mio figlio» rispose il portoghese, con voce grave. «Non risparmierò nessuna punizione contro gli avvelenatori. Tre ministri in un mese! Fulmini di Giove, sono troppi! Come sono vivo io?»
«Non vi hanno avvelenato, perché hanno troppa paura di voi, e poi sapete che Tremal-Naik sorveglia strettamente».
«Un po di veleno di cobra-capello lasciato cadere dentro una bottiglia od in una gelatiera sarebbe più che bastato per togliermi per sempre il vizio di fumare. Per Giove! Voglio ben vedere dentro a questa faccenda. Se sono i dacoiti che agiscono per conto di Sindhia, non avranno quartiere. Consumeremo della polvere a fracassare dei corpi umani, indegni di vivere. Prima i thugs, ora i dacoiti! Bella guerra! Ciò mi divertirà più che le cacce ai bufali ed alle tigri. Cornac, se puoi, affretta».
«Sì, Altezza. Incito Sahur, ma la foresta è folta ed il carro troppo enorme. La prima traccia è stata perduta o meglio è stata rovinata dagli jungli-kudpa». «Dai bisonti, vuoi dire». «Sì, Altezza». «Giungeremo in città a notte fatta».
«Farò il possibile, usciti dalla foresta, di spingere Sahur, se non di corsa almeno di buon passo» rispose il cornac.
Lenorme carro procedeva scricchiolando ed oscillando quasi fosse diventato una nave investita da un buon rollio. Sotto gli strappi violenti dellelefante, costretto ad aprirsi una nuova strada fra tutti quei folti vegetali, le travi, quantunque bene arpionate, minacciavano di sollevarsi e di sfasciare tutto il bastione roteante. Annottava rapidamente sotto la boscaglia ed anche al di là della immensa cupola di foglie, la luce andava spegnendosi fra gli ultimi guizzi doro.
I vampiri, che sono così numerosi nellIndia e specialmente nellAssam, uscivano a frotte dai tronchi cariati che servivano loro dasilo durante il giorno, e volteggiavano intorno al carro spiegando le loro grandi ali che misurano più dun metro.
Gran brutte bestie quei flying-fox, come li hanno chiamati gli inglesi, poiché rassomigliano a vere volpi, col muso egualmente appuntito, i denti aguzzi e solidi, ed il pelame assai folto che tira al rossiccio. Quantunque quegli enormi pipistrelli li abbiano chiamati, oltre che volpi volanti, anche vampiri, sono assolutamente inoffensivi. Si accontentano di devastare i frutteti, ma di lasciare i coltivatori, addormentati per lo più dinanzi alle loro capanne di paglia e di fango, tranquillissimi; e non interrompono il loro sonno.
È vero che qualche volta si unisce a loro un pipistrello di più modeste proporzioni, il quale tiene più al sangue umano che ai profumati banani. Nemmeno questo però è pericoloso, quantunque gli indiani siano convinti che in una sola notte possa dissanguare completamente un uomo sorpreso nel sonno od una vacca.
Si accontentano di poche gocce, poi se ne vanno, e quelle leggère cavate di sangue, per uomini ed animali che vivono sotto un clima ardentissimo, sono quasi più utili che nocive.
Anche i bighama, i piccoli lupi indiani, che vanno in grosse bande, e che non sono però affatto pericolosi per gli uomini, cominciavano a lasciare i loro nascondigli, annunciandosi con ululati che finivano in una nota acuta straziante. Dovevano aver già fiutate le gigantesche prede che giacevano inerti in mezzo alla foresta, ed accorrevano da tutte le parti, a corsa sfrenata, per paura di giungere troppo tardi al banchetto.
Yanez, tanto per passare il tempo, o meglio per ingannare il suo malumore, ne fucilò cinque o sei che avevano avuto laudacia di galoppare a fianco del carro, facendo scappare, col rombo della sua grossa carabina che sembrava una mezza spingarda, tutti i pipistrelli volteggianti sotto le piante. Alle foreste di tara e di latanieri, successe ben presto unaltra magnifica foresta dove lelefante poteva inoltrarsi senza grandi sforzi. Era formata tutta di palas, piante che non crescono addossate le une alle altre, quantunque i loro tronchi nodosi, coronati da un fitto padiglione di foglie vellutate, siano sempre collegati fra di loro da ammassi di liane che un buon colpo di proboscide può facilmente abbattere. Sahur si è messo in corsa, minacciando di sfasciare lenorme carro, sicché il cornac è costretto a moderare il suo ardore, perché non succeda una disgrazia al principe ed ai suoi cacciatori, che si sballottano sui loro soffici materassi.
Anche la foresta di palas è attraversata ed apparve una vasta pianura dove giganteggiano i kalam, spingendosi perfino a quindici piedi daltezza, in mezzo ai quali volano bande di magnifici pavoni, volatili rispettati da tutti perché per gli indiani rappresentano la dea Sarasvati che protegge le nascite ed i matrimoni. Allestremità di quella pianura, quasi tutta invasa da male erbe e con pochissime risaie e piantagioni di senapa, allultimo raggio di luce compare Gahuati, la capitale dellAssam, che racchiude dentro i suoi vecchi eppure ancora saldi bastioni, più di trecentomila anime.
«Finalmente» disse Yanez, respirando a lungo. «Ora, cornac, puoi lanciare lelefante, e se passerà sui terreni coltivati pagheremo i danni ai poveri agricoltori». «Il carro può sfasciarsi, Altezza» rispose il conduttore. «Non preoccupartene. Cadremo insieme ai materassi».
Carro ed elefante ripartono con un fragore infernale, aprendosi un immenso solco fra le altissime erbe, e dopo una mezzora, senza aver troppo danneggiato i pochi terreni coltivati, entrano nella capitale per una delle venti porte. Un drappello di soldati che indossa le pittoresche divise dei sipai, scintillanti dargento, presentano le armi a Yanez che risponde bonariamente con un: «Buonanotte, ragazzi».
Subito otto cavalli, bardati alla turca, colle staffe corte e le gualdrappe fiammanti, vengono fatti uscire da una casamatta. Yanez ed i suoi uomini lasciano il carro, montano in sella e partono ventre a terra, gridando a squarciagola: «Largo! Largo!»
Le vie sono ancora affollate, perché la rhani dellAssam ha regalato ai suoi sudditi una specie di illuminazione notturna formata da maestosi e pittoreschi lanternoni cinesi.
Al passaggio del principe tutti fanno posto, salutando rispettosamente, sicché in meno di cinque minuti il drappello giunge dinanzi al palazzo imperiale, un edificio tutto in marmo, di dimensioni gigantesche, con cupole, terrazze e vasti cortili.
Yanez balza agilmente a terra e sale precipitosamente la gradinata, seguito da Kammamuri. Il primo uomo che vede è Bindar, il bravo cavaliere che colle sue audaci evoluzioni ha stornata lattenzione dei bufali, liberando per il momento il carro. È sfuggito miracolosamente al grave pericolo, poiché non ha nessuna ferita. Dietro di lui compariscono subito tre vecchi indiani dalle lunghe barbe bianche, con giganteschi turbanti ed ampie vesti di seta che scendono fino sulla punta degli stivaletti a punta rialzata. Tutti sono armati dun tarwar che ha limpugnatura doro e che è squisitamente cesellata. Sono i tre ministri che guidano il carro dello stato.
Yanez, senza rispondere ai loro inchini, si avvicina al più vecchio e domandandogli subito, con voce un po alterata: «Ebbene, Bharawi, un altro nuovo delitto è stato dunque commesso?» «Sì, Altezza: il tuo primo ministro è stato avvelenato».
«Dove si nascondono questi avvelenatori? Un giorno o laltro manderanno allaltro mondo anche noi tutti, per Giove! Mia moglie? Mio figlio?» «Stanno benissimo, Altezza».
«Ho tremato per loro. Dovè il morto? Vediamo se si può scoprire in quale modo lo hanno avvelenato». «È nella sala degli smeraldi».
«Andiamo subito e non lasciate entrare nessuno fuorché Kammamuri e Bindar che sono fedeli a tutta prova».
Attraversarono un immenso cortile, circondato da porticati di stile moresco, ed entrarono in una vasta sala che aveva le pareti di marmo verde, luccicanti quasi come enormi smeraldi.
In mezzo, su un letto basso, coperto da una leggera trapunta di seta azzurra, giaceva un uomo già assai vecchio.
Il suo viso era spaventosamente alterato. I suoi occhi, grigi come quelli duna vecchia tigre, parevano dovessero uscire da un momento allaltro dalle orbite. La bocca, contorta da un ultimo spasimo, mostrava i denti, anneriti per il lungo uso del betel.
«Basta uno sguardo per capire che questuomo è stato avvelenato» disse Yanez, tergendosi con un fazzoletto di seta alcune stille di sudor freddo che gli imperlavano la fronte. «Che cosa ha bevuto?»
Bharawi si avvicinò ad un piccolo mobile che somigliava ad un pavone e tolse una bottiglia ed un bicchiere di cristallo purissimo, porgendo luna e laltro al principe.
Nella bottiglia, che sapeva fortemente darancio, vi erano ancora tre dita dacqua duna brutta tinta rossastra. Yanez fiutò a lungo, poi scosse il capo mormorando fra sé:
«Sono troppo abili manipolatori di veleni questi indiani fra sé per capirne subito qualche cosa».
Prese una sedia a dondolo, riaccese la sigaretta che aveva lasciata spegnere e disse a Bharawi: «Ora raccontami tutto».
«Tu sai, Altezza, che tre giorni fa si è presentato qui un bramino per chiedere una grazia».
«Per Giove, se mi ricordo!» rispose Yanez. «Voleva che gli accordassi una miniera di diamanti senza pagarmi una rupia, altro che grazia! Era un lurido ladrone, e lho mandato più che in fretta a riprendere le sue preghiere nella pagoda. Ora continua!»
«Stamane», riprese il vecchio ministro, «tre ore dopo che tu eri partito, si è ripresentato insistendo per parlare col tuo primo ministro che stava riposandosi appunto su questo letto». «Ancora per laffare della miniera?» «Non si sa, poiché il ministro ed il bramino sono rimasti assolutamente soli». «Ed è stata una grande imprudenza, signori miei». «È vero, Altezza, una imprudenza che egli ha pagato colla vita».