Il Bramino dell'Assam - Emilio Salgari 4 стр.


Yanez si era alzato gettando via, con un moto rabbioso la sigaretta, e si era messo a passeggiare per lampia sala colle mani affondate nelle tasche. Appariva assai preoccupato, anzi quasi sgomentato, eppure coraggio e sangue freddo ne aveva da vendere a tutti i suoi sudditi. Si arrestò dinanzi alla bottiglia, tornò a fiutarla e non sentì che un leggero odore acre, attenuato assai dallaranciata.

«Che veleno credi tu che sia, Bharawi?» chiese. «Tu sei indiano e più vecchio di me, e tu ne saprai di più».

«Io credo, signore, che dentro questa bottiglia abbiano lasciato cadere alcune gocce del veleno dei bis cobra». «Nessun uomo potrebbe resistere?»

«No, Altezza. Il veleno distillato dal bis è venti volte più attivo di quello del cobra-capello».

«È vero, Kammamuri?» chiese Yanez al maharatto. «Un giorno assai lontano sei stato un famoso cacciatore di rettili, nella temibile Jungla Nera scorrazzata dai thugs di RajmangaL».

«Verissimo, signore. Quella grossa lucertola è più velenosa del serpente del minuto e di tutti i cobra. Non si è scoperto nessun rimedio contro il suo veleno». «Hai ucciso qualcuno di quei brutti lucertoloni?» «Delle centinaia, signore: io ed il mio padrone ne facevamo delle vere stragi». «Credi tu che dai denti si possa far sprizzare il veleno?» «Facilmente, signore». «Di che colore è quel veleno?» «Ha una tinta diafana, quasi madreperlacea» rispose il maharatto. «Hai mai provato a mescolarlo con un po dacqua?»

«No, mai, signore. Avevamo troppe occupazioni nella Jungla Nera in quel tempo per fare degli esperimenti».

«Corpo di tutti i fulmini di Giove!» esclamò Yanez, riprendendo la sua passeggiata più furiosamente di prima, per non arrestarsi che qualche istante sotto le quattro gigantesche lanterne cinesi che proiettavano una luce dolcissima, simile a quella della luna.

Sagrava, il bravuomo, e non sapendo con chi sfogarsi, se la prendeva colla sua quarantesima sigaretta che faceva fumare come una piccola vaporiera. Ad un tratto tornò verso il vecchio ministro e gli chiese: «Credi tu che fosse realmente un sacerdote bramino?»

«Io non so, ma ho i miei dubbi, Altezza» rispose Bharawi. «Il suo volto non mi pareva quello di un uomo appartenente alle alte caste». «Dovè Tremal-Naik?»

«È partito una mezzora dopo scoperto il delitto, insieme a Timul, il famoso cercatore di piste». «Una traccia è stata trovata allora?»

«Così pare. La Piccola Tigre del Borneo non avrebbe lasciato il palazzo se non avesse avuto dei gravissimi motivi».

«Chi lo sa! Se ha con sé Timul si può sperare qualche cosa. Quando quel giovanotto rileva una pista non la lascia più, e sa ritrovarla anche in mezzo alle vie polverose ed alle folte foreste. Che cosa ne pensate voi di questo nuovo delitto?»

«Poco di buono» rispose Bharawi per tutti. «Domani o fra otto giorni potrebbe succedere anche a noi un simile caso. I vostri misteriosi nemici lhanno a morte coi vostri ministri». «Chi sono? Vorrei saperlo». «Abbiamo lanciata tutta la nostra polizia attraverso le vie della capitale». «E nessuno è ancora ritornato?» «No, Altezza».

«Fate la guardia al cadavere, e se succede qualche cosa, venite subito ad avvertirmi nel mio gabinetto. Già, questa notte non dormirò». «Volete dare la caccia allassassino, signore?» chiese Kammamuri.

«Aspettiamo prima che ritorni Tremal-Naik. Rimani anche tu qui di guardia, e se quel bramino ritorna, afferralo pel collo e, comunque sia, anche mezzo strangolato, portamelo».

«Hum! Dubito che si faccia vedere, signore» rispose il maharatto, scuotendo la testa.

«Tinganni, amico. Gli assassini sentono quasi sempre un prepotente bisogno di rivedere il luogo ove hanno commesso il delitto».

Yanez augurò ai suoi tre ministri la buonasera ed uscì dalla sala preceduto dai due mussalchi che portavano delle lanterne monumentali. Attraversò parecchie gallerie, tutte splendenti darmi disposte a grandi gruppi assai artistici, poi altre sale immense, debolmente illuminate, e si fermò dinanzi ad una porta, dicendo ai portatori delle lanterne: «Andate: non ho più bisogno di voi».

I due mussalchi fecero un profondo inchino, toccando colla fronte quasi le pietre lucentissime e ben levigate, e Yanez, girata bruscamente la maniglia, entrò in un elegante salotto che aveva le pareti coperte di seta azzurra ricamata doro, con molti divani bassi intorno, ed illuminato da una lampada che proiettava sotto di sé come una luce lunare. Si accostò ad unaltra porta, sul cui stipite era appeso un gong, prese un martelletto di legno e fece risuonare tre volte listrumento, scatenando un fragore assordante. Un momento dopo la stessa porta si apriva quasi violentemente e la rhani, sua moglie, compariva, in preda ad una vivissima agitazione, gridando: «Oh, mio Yanez! Ho tremato per te!»

La principessa dellAssam era una splendida donna, appena venticinquenne, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, con occhi nerissimi, profondi, e capelli ancora più neri, assai lunghi intrecciati con fiori di mussenda dalla tinta sanguigna ed a gruppi di perle dei banchi di Manahar.

Indossava un magnifico vestito di seta rosa, tutto ricami doro, e portava lunghi calzoni di seta bianca che facevano vivamente spiccare le rosse babbucce a punta rialzata, pure ricamate in oro con piccoli diamanti. Yanez aprì le robuste braccia, stringendosi al petto la piccola rhani.

«Ah, mio signore!» esclamò Surama, lasciandosi quasi portare verso una ottomana bassa, tutta scintillante di ori con grandi cuscini, di varie tinte, ricamati.

«Quando tu, mia piccola moglie, mi vedi prendere il fucile, diventi inquieta» disse Yanez ridendo. «Non parto mai solo, e poi tu sai che anche le tigri più feroci, anche le solitarie, non hanno mai avuto buon giuoco con me». «Trascuri gli affari del nostro stato, mio signore».

«Non abbiamo dei ministri che ci divorano diecimila rupie allanno per lasciarsi poi stupidamente avvelenare? E poi tu sai che ho il sangue irrequieto delle Tigri della Malesia. E Soarez?» «Dorme». «Chi lo veglia?»

«La sua nutrice. La porta della sua stanza è sbarrata, ed al di fuori vegliano due rajaputi con due molossi del Tibet. Nessuno oserebbe avvicinarsi».

«Lo credo. Quei cani sono così forti da atterrare perfino gli orsi. Andiamo a vedere nostro figlio». «Non far rumore: dorme». «E lo lascerò dormire tranquillo» rispose Yanez.

Salzarono tenendosi quasi abbracciati, ed aprirono la porta che era in parte nascosta da una tenda di pesante broccato. Si trovarono in una stanza appena illuminata, colle pareti coperte tutte di seta bianca ed il pavimento di fitti tappeti a tinte smaglianti provenienti dal Caschmir, con dei divanetti che si seguivano tutto intorno.

Nel mezzo, in una culla di filo dargento, che rassomigliava ad un pesce, coperto da una leggerissima mussola di seta, dormiva il figlio dei sovrani dellAssam.

Yanez aveva alzata la mussola guardando il bambino che dormiva placidamente, con una mano tesa, come se impugnasse qualche arma. Non aveva che due anni, ma era già assai sviluppato per quelletà. La sua pelle era leggermente diafana, con quei riflessi madreperlacei che si riscontrano sui volti delle creole americane, di Cuba e di Portorico, dovuti al sangue incrociato. I capelli erano nerissimi come quelli di sua madre, tutti inanellati e già assai lunghi.

«Si direbbe che sogna future battaglie» disse Yanez, lasciando ricadere lentamente la mussola. «La sua manina fremeva come se premesse su qualche carabina».

«È figlio tuo e diverrà un giorno un grande guerriero, mio signore» disse Surama. «Noi non sapremo domare gli impeti del suo sangue».

«Si direbbe che sogna future battaglie» disse Yanez, lasciando ricadere lentamente la mussola. «La sua manina fremeva come se premesse su qualche carabina».

«È figlio tuo e diverrà un giorno un grande guerriero, mio signore» disse Surama. «Noi non sapremo domare gli impeti del suo sangue».

«Lo manderemo a Sandokan, se quel bravuomo sarà ancora vivo. Tutte le Tigri della Malesia invecchiano» disse Yanez, con un sospiro. «La Tigre camperà centanni». «Gliene auguri troppi, Surama». Le passò un braccio attraverso la vita sottile e la ricondusse nel suo studio. Era diventato assai serio.

«Sai, mia piccola moglie, che il nostro stato comincia a camminare male? Ha qualche ruota guasta che bisogna fare accomodare al più presto, o noi morremo tutti avvelenati». «Sono spaventata, Yanez: tremo sempre per te e per Soarez».

«Ed io per te, Surama. Ora sono i nostri ministri che mandano a passeggiare nel kailasson da dove non si ritorna più, e domani, o fra un mese, non toccherà la nostra volta? Questi delitti mi hanno assai impressionato». «Eppure il popolo ci ama, Yanez».

«Non dico il contrario, ma il popolo non ha niente a che fare con questi sinistri avvelenatori». «Tu hai un sospetto, mio signore. Lo leggo nei tuoi occhi».

«Sì, che Sindhia sia fuggito da Calcutta, dopo daver ricuperata la ragione, e che ora tenti, a sua volta, di levarci dalla testa le nostre corone».

«Anche a me era venuto, e più volte, sulle labbra, quel nome. Sindhia non deve essere meno perfido di suo fratello, che per divertirsi, fucilava i suoi parenti». «Che cosa mi consigli di fare?»

«Di mandare Kammamuri a Calcutta per accertarsi se Sindhia si trova ancora là oppure se è fuggito».

«E lo incaricherò anche di unaltra missione» disse Yanez, il quale si era bruscamente alzato, mettendosi a passeggiare. «Farò spedire un dispaccio cifrato a Labuan e farò accorrere al più presto Sandokan ed i suoi invincibili Tigrotti. Con loro e coi montanari di Sadhja, che sono sempre fedelissimi a te, daremo del filo da torcere a quel pazzo sanguinario». «Vuoi far venire Sandokan?»

«Credo che sia necessario, mia piccola moglie. Il nostro trono oscilla troppo. Fra venticinque giorni i Tigrotti di Mòmpracem potrebbero giungere qui col loro capo». «Ma verrà Sandokan?»

«Che cosa vuoi che faccia a Mòmpracem, ora che laggiù tutto è tranquillo? Deve annoiarsi mortalmente. Tu sai che quelluomo non vive che per menare le mani, sparare carabinate e pistolettate. Salperà subito col suo piccolo incrociatore e filerà attraverso lOceano Indiano a tutto vapore». In quel momento fu bussato alla porta.

«Passate» disse Yanez, mettendo però istintivamente una mano sul calcio della pistola che era passata attraverso la fascia. «Sono io» rispose una voce forte e sonora. Surama ed il portoghese avevano mandato due grida di gioia: «Tremal-Naik!»

CAPITOLO TERZO: IL CACCIATORE DI TOPI

Un momento dopo entrava nel salottino il famoso Cacciatore della Jungla Nera e dei thugs delle Sunderbunds. Era un bellissimo tipo dindiano bengalino, già più che quarantacinquenne, dalla persona elegante e flessuosa senza essere magra, dai lineamenti fini, energici, la pelle lievemente abbronzata come gli indiani che escono dalle alte caste, non contaminate dalle impurità dei paria. Vestiva come i ricchi indiani modernizzati dalla Young-India, i quali ormai hanno lasciato il dootée e il dubgah per il costume anglo-indù, assai più comodo: giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia ricamata altissima sorreggente due lunghe pistole, calzoni stretti pure di tela bianca, e sul capo un piccolo turbante variegato.

«Da dove vieni?» gridò Yanez, tendendogli la mano, subito imitato da Surama. «Credevo che avessero avvelenato anche te».

Sulla fronte dellindiano passò come una nube, ed i suoi occhi nerissimi ebbero un lampo.

«Come vedete, amici miei, sono ancora vivo ed in perfetta salute» rispose lindiano. «Mi sono ben guardato dal fermarmi in qualche albergo per vuotare una bottiglia di birra inglese. Per Siva! La cosa è grave». «È a me che lo dici?» disse Yanez. «Diciamo invece gravissima. Dove sei stato?»

«Ho dato la caccia allavvelenatore del tuo primo ministro insieme a Timul. Quel giovane sa trovare una pista fra mille, in modo assolutamente stupefacente». «E lhai scoperto?» chiesero ad un tempo la rhani ed il portoghese.

«Vi dico che qui, nella vostra capitale che sembra tanto tranquilla, si congiura per strapparvi probabilmente la corona».

«Ma dove sono questi congiurati?» gridò Yanez. «Dimmelo e li farò arrestare immediatamente».

«Sarà un affare un po difficile» rispose lindiano, sedendosi su una poltrona a dondolo. «Conosci tu il sottosuolo della tua capitale? Scommetterei una rupia contro mille che lo ignori».

«Io so che il terreno che regge i nostri palazzi, le nostre pagode, i nostri monumenti, è composto di buona terra mista a lastre di pietra».

«Non hai mai udito parlare delle immense cloache che corrono e che si diramano sotto questa città?»

«Sì, ma io mi sono ben guardato di cacciarmi dentro a quei budelli pieni di microbi pericolosi. Oh! Le cure dello stato! Non mi lasciano mai un momento di tempo». Surama e Tremal-Naik erano scoppiati in una risata.

«Già», disse lindiano, «tu conduci il carro dello stato cacciando e massacrando quasi ogni giorno bufali, tigri, orsi ed elefanti».

«Un principe deve ben svagarsi» rispose serio il portoghese. «E poi libero le mie foreste dalle bestie pericolose che divorano o sventrano i miei sudditi. Surama firma i decreti per me ed io faccio tuonare la mia carabina. Tu mi parlavi delle cloache».

«Sì, amico: la pista che Timul ha seguita si è fermata dinanzi ad un gigantesco fognone costruito forse dai mongoli due o trecentanni fa».

«E non potreste esservi ingannati?» chiese Surama, la quale era diventata assai pallida.

«Quando quel diavolo di Timul si mette su una traccia, la segue sempre, senza mai ingannarsi. Lui ha rilevato attentamente i piedi del bramino che dopo daver avvelenato il ministro è fuggito». «Sarà poi un bramino?» chiese Yanez. «Non sarà un dacoita invece?»

«Il mistero è lì, però non dispero di delucidarlo. Ti ricordi, Yanez, quando insieme a Sandokan ed i suoi Tigrotti, abbiamo dato la caccia agli ultimi thugs che si celavano nei sotterranei di Rajmangal?»

«Come fosse ieri. Mi ricordo benissimo che stavano per affogarci come tanti topi della foce sorpresi da un improvviso uragano. Per qualche ora la morte è passata e ripassata dinanzi a noi e» Si era interrotto alzandosi bruscamente. «Chi cè?» «Io, signore: ho picchiato già tre volte e non mi avete udito che alla terza».

«Per te, Kammamuri, il nostro appartamento privato è sempre libero. Passa, ché vi è anche il tuo padrone». «Lo so, signore, lho veduto prima di voi».

La porta fu spalancata ed il maharatto entrò seguito da quattro valletti i quali portavano, su dei giganteschi tondi doro splendidamente scolpiti, due enormi lingue di bufalo fumanti. «Sei diventato cuciniere, ora?» chiese Tremal-Naik.

«Sì, finché non avremo scoperti ed appiccati o fucilati gli avvelenatori» rispose il maharatto. «In cucina ora impero io, e non perderò docchio i cuochi. Voi, signor Yanez, vi eravate dimenticato della cena».

«Quasi» rispose il portoghese. «La saluto però con piacere, tanto più che non correrò nessun pericolo di sorbire anche io alcune gocce di veleno dei bis cobra».

«Queste lingue, signore, ed anche la salsa che le contorna, sono state preparate da me solo, perché non ho voluto nessun aiutante, così sarete più sicuro».

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