La caduta di un impero - Emilio Salgari 2 стр.


«Aspettavo la risposta dei congiurati, mio caro Tremal-Naik» rispose il maharajah.

«Te la daranno quando noi avremo rovesciate le porte di bronzo» rispose il famoso cacciatore. «E noi le getteremo giù. Prova però prima a fare fuoco anche tu». «Per decapitare qualche statua?» «Nessuno di noi piangerà, te lo assicuro». «Proviamo» disse Tremal-Naik. «Non sono le munizioni che ci mancano».

Come Yanez, era armato duna grossa carabina, la cui canna era di purissimo acciaio, di quellacciaio che viene dal Borneo, dove si trova allo stato naturale. Allungò larma, tenendo la testa ben indietro per paura di prendersi qualche freccia avvelenata nella gola, e fece fuoco. Fu un secondo colpo di cannone che si ripercosse lungamente dentro le immense gallerie del tempio, ma anche questa volta nessuno si fece vivo.

«Corpo di Giove!» esclamò Yanez, il quale incominciava a perdere la sua flemma ordinaria. «Quei birbanti devono essere scappati tutti».

«Io credo invece che fingano di non trovarsi raccolti lì dentro» disse Tremal-Naik.

«Ed allora chiamiamo a raccolta i nostri venti elefanti e facciamo rovesciare da loro la gran porta di bronzo. Non resisterà a lungo allurto di quelle poderose masse».

Ricaricarono le loro carabine, poi a due, a tre, tenendo sempre bene gli occhi addosso ai due prigionieri, si lasciarono scivolare fino a terra. Gli elefanti erano stati fermati un migliaio di metri dal tempio, non credendo Yanez di averne bisogno, quindi il drappello doveva riattraversare un lembo della foltissima foresta.

A cinquecento passi però dovevano trovarsi i rajaputi, quindi non vi era alcun pericolo da correre.

Lo stupore di Yanez e dei suoi compagni non ebbe più limiti, quando percorsa una distanza quasi doppia, non scorsero un solo guerriero indù.

«Come va questa faccenda?» si chiese il portoghese, tormentando il grilletto della carabina. «Io non posso ammettere che abbiano avuto paura e che siano scappati».

«Eppure non vi sono più» disse Tremal-Naik, con voce angosciata. «Che qui, quasi sotto ai nostri occhi, sia stato commesso qualche nuovo tradimento da parte dei congiurati?» Yanez lo guardò con ispavento. «Che cosa vorresti dire tu?»

«Che anche i nostri creduti fedeli rajaputi sono stati corrotti e condotti chissà dove a rinforzare le schiere di Sindhia». «Ma se siamo stati assenti appena unora!» «In unora certe volte si fanno delle cose straordinarie». «Che abbiano portati via anche i nostri elefanti?» «È questo ora che pavento» disse Tremal-Naik.

«Non mancherebbe altro! Là, là, non perdiamo il nostro sangue freddo, e prepariamoci a rispondere se si tenta di attaccarci. La foresta è fitta daltronde, e non si presta troppo per un grosso attacco. Mettiamoci su due file, coi prigionieri in mezzo, ed andiamo a vedere che cosha saputo fare quel cane di Sindhia. Altro che pazzo! È un gran furbo che vale quanto noi, ora me ne accorgo! Orsù, avanti».

Ripresero la marcia tenendosi in mezzo ai cespugli più folti, e dovettero purtroppo convincersi che i rajaputi si erano allontanati.

«Ecco qui le loro tracce» disse Tremal-Naik, arrestando il drappello. «Qui quattro dei nostri sono passati e non da molto tempo». «Quattro» disse Yanez. «E tutti gli altri? Erano duecento». «Il loro comandante ti aveva mai dato alcun motivo per diffidare di lui?» «Mai, Tremal-Naik».

«Allora non capisco più nulla. Uccisi non sono stati, perché avremmo trovato almeno qualche cadavere, e poi non abbiamo udito nessun sparo. Come siamo stati giuocati, mio caro Yanez. Non mi aspettavo un simile colpo».

«È la corona della rhani che comincia a sgretolarsi» rispose il portoghese, sospirando. «Bah, non creda Sindhia daver vinta così presto la partita. Se non possiamo contare più sulla fedeltà dei rajaputi, faremo accorrere i montanari di Sadhja, e quelli non ci tradiranno perché odiano troppo Sindhia». «E poi giungeranno i nostri dalla Malesia». «Purché facciano presto!»

Si erano nuovamente fermati per osservare le tracce lasciate dai fuggiaschi e per trovare un nuovo passaggio. Erano tutti inquieti, nervosi, temendo di subire, da un momento allaltro, qualche scarica di fucili.

Trovato uno stretto sentiero, aperto probabilmente dai nilgò, vi si cacciarono dentro camminando curvi curvi, e cercando di non far rumore. Di quando in quando si arrestavano per ascoltare, ma non udivano né voci duomini, né barriti delefanti.

Solamente delle scimmie ungko gridavano a squarciagola sulla cima delle più alte piante, divertendosi a spiccare dei salti immensi, superiori perfino ai dieci metri.

Il drappello, tenendosi sempre nascosto, percorse altri tre o quattrocento passi e sbucò finalmente in una piccola radura. Era là che si erano fermati gli elefanti.

«Spariti!» aveva gridato Yanez, facendo un gesto di disperazione. «Ah! I traditori! Nemmeno sui cornac potevo contare».

«Vingannate, maharajah» disse un uomo sorgendo bruscamente fra un gruppo di bassi cespugli. «Io sono il cornac di Sahur, e come vedete vi sono rimasto fedele».

Tutti si erano precipitati incontro al conduttore, il quale pareva in preda ad una viva agitazione. «Dovè Sahur?» gli chiese Yanez. «Ve lhanno portato via anche quello». «Ma chi? Chi?» «I rajaputi». «Possibile?»

«Sì, mio signore. Tutti quegli uomini dovevano essere stati già arruolati dallex rajah ancora prima che lasciassero la vostra capitale».

«E la mia polizia non si è accorta di nulla! Ah! Canaglie! Siamo in mezzo ad un vero esercito di traditori».

«Narra che cosè accaduto» disse Tremal-Naik rivolgendosi al cornac, il quale non si era ancora rimesso dalla sua grande agitazione.

«Eravate partiti da forse venti minuti quando abbiamo veduto i rajaputi giungere di gran corsa, seguiti da un elefante nella cui cassa si trovava un fakiro, se non minganno. Intimarono a noi di arrenderci, dicendoci che ormai era il rajah Sindhia che regnava sullAssam e non più il maharajah né la rhani. Ho Ho avuto appena il tempo, approfittando della confusione, di gettarmi in mezzo ai cespugli abbandonando al suo destino il mio elefante che ormai non potevo difendere. Io ho veduto il fakiro consegnare ai traditori molti sacchetti pieni certamente doro, poi tutta la banda si allontanò montando i vostri elefanti».

«Si sono diretti verso la capitale, i rajaputi?» chiese Yanez, con estrema ansietà. «No, mio signore, si sono internati nel bosco dirigendosi verso il sud». «Sei ben sicuro che siano partiti tutti?»

«Non ne deve essere rimasto uno solo qui. Erano tutti sulle haudah degli elefanti». «Chi li guidava?» «Il fakiro». «E Sahur ti ha abbandonato?»

«Io spero, mio signore, di riaverlo ben presto» rispose il cornac. «Appena udrà il mio fischio accorrerà a gran galoppo e mi raccoglierà. Non aspetto altro che i rajaputi facciano una fermata».

«Ma rimarrai troppo indietro» disse Tremal-Naik. «Dovresti essere già partito».

«Corro come un cavallo, e poi la boscaglia è folta e gli elefanti non potranno avanzare che al passo. Avrei già lasciato questo posto ma mi premeva avvertirvi di quello che era succeduto durante la vostra assenza».

«Ed hai fatto bene» disse Yanez. «Ora puoi partire, e se sei capace di ricondurci almeno Sahur la tua fortuna sarà fatta. Noi ti aspettiamo dinanzi alla pagoda».

«Vedrete, mio signore, che il mio elefante al mio primo richiamo scapperà e verrà a me».

Yanez gli fece dare un paio di pistole, non avendo egli altre armi che larpione del mestiere, poi gli fece cenno di partire. Il cornac parve che si orientasse rapidamente, poi si allontanò a corsa sfrenata. Non aveva detto una vanteria affermando di correre come un cavallo.

Yanez e Tremal-Naik erano rimasti silenziosi, guardandosi lun laltro, mentre gli sikkari, dopo aver legato le braccia ai due prigionieri, eseguivano una rapida battuta per accertarsi se tutti i rajaputi si erano veramente allontanati.

«Ci capisci tu qualche cosa?» disse finalmente il portoghese, tergendosi il copioso sudore che gli bagnava la fronte. «Ho capito che ci hanno portati via duecento uomini» rispose Tremal-Naik.

«Corpo di Giove! Lo so anchio, ma io vorrei ora sapere perché quei traditori non si sono slanciati su di noi per farci prigionieri e consegnarci al rajah».

«Non lavranno osato. Tu sei ancora il maharajah dellAssam, mentre il pazzo ora rinsavito non è ancora nulla. Potrà forse un giorno riconquistare la corona che tu gli hai tolta, ma finora non è che uno spodestato».

«Che abbiano avuto paura di noi? Duecento contro otto, poiché i due prigionieri non ci avrebbero certamente aiutati».

«In fondo i rajaputi sono cavallereschi, tu già lo sai. Avranno accettato di arruolarsi e avranno invece rifiutato di spingere il tradimento fino ad impadronirsi delle nostre persone».

«Di ciò non serberò loro nessuna riconoscenza» disse Yanez, che appariva furioso. «Io non mi aspettavo un colpo così grosso. Mi hanno dato una coltellata in mezzo al cuore privandomi dei miei venti elefanti per venderli a Sindhia. Ladri! Ladri!»

«Càlmati, amico, la partita fra te ed il rajah non è, si può dire, ancora impegnata, ed i montanari di Sadhja non mancano di buoni elefanti e bene montati».

«Ed armati anche di spingarde» disse Yanez. «Appena torneremo nella capitale manderemo subito dei messi al vecchio Khampur». «Se ci torneremo» disse Tremal-Naik. «Ne dubiteresti tu?»

«Io penso che quello che non hanno osato tentare i rajaputi per un certo riguardo verso le nostre persone, lo potranno fare i paria nascosti nella pagoda. Non dimentichiamo quelle canaglie le quali possono trovarsi in buon numero e forsanche ben armati».

«Per Giove!» esclamò Yanez, facendo un soprassalto. «Non mi ricordavo più di loro. Non ci mancherebbe ora che dovessimo subire un assalto da parte di quei congiurati. E non siamo che in otto, valorosi finché si vuole, ma sempre otto, con due seccature da guardare. Non ci fossero almeno questi prigionieri». «Lasciamoli andare».

«Mai più, mio caro Tremal-Naik. Il vecchio e anche il giovane sono persone troppo preziose».

In quel momento i sei sikkari tornarono dalla loro breve e rapidissima escursione, camminando in gruppo serrato, senza produrre il menomo rumore. Abituati a sorprendere i grossi animali delle foreste e delle jungle, avevano il passo così leggero da non poterli udire passare a pochi metri di distanza. «E dunque?» interrogò ansiosamente Yanez.

«Sono fuggiti tutti, Altezza» rispose il capo dei cacciatori. «In queste foreste non vi è più un rajaputo». «Avete udito barrire i nostri elefanti?» «Sì, ma a grande distanza».

«Molte miglia?» chiese Tremal-Naik, il quale in quel momento pensava al cornac di Sahur.

«Oh, no, a ben poche. Quelle grosse bestie non possono procedere al galoppo fra tutti questi vegetali».

Yanez guardò in viso i suoi fedeli cacciatori, i soli forse veramente fedeli, e chiese loro: «Avreste paura a ricondurci alla pagoda?»

«Siamo sempre a disposizione del maharajah e del sahib suo amico» rispose il capo degli sikkari. «Noi non abbiamo paura né delle tigri, né dei rajaputi, né dei paria. Sappiamo già che il nostro destino è di morire entro qualche selva, dilaniati dalle belve feroci o strozzati dai thugs, e siamo sempre decisi a tutto. Che Vostra Altezza comandi». «Ritorniamo alla pagoda». «Vorreste entrare?»

«Ora che non abbiamo più gli elefanti per rovesciare la porta di

bronzo, ci sarà impossibile». «Potreste ingannarvi, Altezza». «Spiègati meglio».

«Durante la nostra esplorazione abbiamo raccolto una scatola di latta che deve aver contenuto dei biscotti o qualche cosa di simile, e di latta assai spessa, ed abbiamo preparata una bomba». «Tu!» esclamò Yanez un po sorpreso. «La polvere non ci mancava come non ci mancava qualche miccia». «Fa vedere».

Un sikkaro si avanzò portando una scatola capace di contenere due chilogrammi di polvere e che era stata tutta bene stretta colle cinghie delle carabine.

«Voi siete meravigliosi» disse il portoghese. «Se questa specie di bomba scoppierà, anche la porta, per quanto salda, crollerà. Toh! Fra tante disgrazie abbiamo ancora un lampo di fortuna, è vero, Tremal-Naik?»

«Comincio a crederlo anchio» rispose il famoso «Cacciatore della Jungla Nera». «Non saranno già tutte cannonate che ci giungeranno in pieno petto. Laver ritrovato il cornac di Sahur è già qualche cosa».

«E sarà più di qualche cosa se lo vedremo giungere piantato fra gli orecchi del suo bestione».

«Io non dubito che possa portarlo via ai rajaputi. Tu sai quanto sono affezionati gli elefanti ai loro conduttori».

«Orsù» disse Yanez, dopo di aver ascoltato a lungo. «La foresta è silenziosa, quindi possiamo rifare il cammino percorso e tornare alla pagoda. Quella maledetta porta voglio vederla rovesciata per misurarmi coi paria di Sindhia. Almeno conoscerò la resistenza ed il coraggio dei miei futuri nemici». «E se quelle canaglie fossero uscite e ci avessero preparato un agguato?»

«No, sahib», disse il capo degli sikkari, «nessuna imboscata. Io odo gli sciacalli urlare verso la pagoda, e ciò vuol dire che da quella parte non si trovano esseri umani, almeno per ora. Hanno troppa paura dei fucili e fuggono subito, appena vedono luccicare unarma. Altezza, possiamo partire».

I dieci uomini si incolonnarono, ascoltarono unultima volta, poi si ricacciarono nel sentiero aperto dai nilgò, procedendo colle carabine puntate. Yanez era sempre dinanzi, col capo degli sikkari.

CAPITOLO SECONDO. LA CARICA DI SAHUR

Quantunque sotto la boscaglia regnasse unoscurità profondissima, il drappello batteva in ritirata con molta rapidità, ansioso di mettersi momentaneamente in salvo nella pagoda e di attendere là il cornac. Procuravano tutti però di non smuovere le piante, poiché temevano che si aggirassero in quei dintorni, se non i rajaputi, i congiurati i quali erano ben più da temersi.

Non credevano affatto che i paria fossero fuggiti tutti, quantunque nessuno avesse potuto impedirglielo dopo quellinaspettato tradimento, poiché potevano essere usciti per le altre porte, lasciando invece ermeticamente chiusa quella maggiore.

Nessun rumore rompeva il silenzio della notte. Solamente in lontananza tre o quattro sciacalli, non avendo trovato probabilmente da cenare, sfogavano il loro malumore con delle urla che straziavano gli orecchi. Però gli sikkari, troppo pratici delle foreste, non si avanzavano che con molte precauzioni, potendo improvvisamente trovarsi dinanzi a qualche tigre affamata, ad uno di quei così detti mangiatori duomini, che non esitano a gettarsi anche contro parecchie persone per portarne via qualcuna.

Già la pagoda non doveva essere lontana più di duecento metri, quando Yanez ed il capo degli sikkari si arrestarono improvvisamente imbracciando le carabine.

Unombra si era slanciata attraverso il sentiero, in piena volata, dieci passi più innanzi, nascondendosi subito in mezzo ad un gruppo di mindi.

«Una tigre?» aveva chiesto il maharajah senza troppo scomporsi, avendone già ammazzate moltissime e senza riportare una graffiatura.

«No, Altezza» rispose il capo degli sikkari, il quale fiutava laria. «Io credo che si tratti duna pantera. Questi non sono i posti delle tigri». «Non ci darà meno fastidi se sarà affamata». «Sono coraggiose e non esitano mai ad attaccare».

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