«Io! Io fuggire dinanzi a Sindhia!» gridò Yanez. «Ah, no! Quel pazzo che ha riacquistata la ragione mercé le cure prestategli a Calcutta e pagate coi denari nostri, non metterà le sue mani sulla tua corona, mia piccola rhani. Sandokan lhanno chiamato la Tigre della Malesia; laggiù chiamavano me la Tigre bianca. Siamo nel paese delle tigri, e per Giove, come abbiamo vinto Suyodhana, spero di vincere anche Sindhia».
Vuotò il bicchiere di birra, poi scagliò il vetro contro la parete, mandandolo in dieci pezzi. «Lo spezzerò come ho fracassato questa tazza». Non era più luomo tranquillo.
I suoi occhi avvampavano, i suoi lineamenti già sempre energici, erano diventati feroci, la sua barba abbondantemente brizzolata, era diventata irta.
«Ah! Vogliono la guerra!» gridò, spezzando una seconda tazza. «Lavranno, e sarà terribile. Vieni, Surama, andiamo a riposarci. Per ora, credo, che nessun pericolo ci minacci».
«Ed io vado verso le montagne» disse Tremal-Naik. «Sahur è sempre pronto a partire, avrà doppia razione, e andremo a trovare i forti montanari di Sadhja. Non perdiamo tempo, Yanez. Vedo il tradimento sorgere da tutte le parti». «Volevo aspettare qualche telegramma di Kammamuri».
«Può ritardare assai. Lasciami andare. Tu sai che non conto mai sul sonno. Se mi coglierà, dormirò nellhaudah».
«Vuoi prenderti il rajaputo gigantesco? È forse lunico che ha dato delle prove di essere veramente affezionato. È un uomo che può uccidere solamente coi pugni».
«Sì, me lo porto via» disse Tremal-Naik. «Mi servirà per mandarti mie notizie. Va, Yanez, la notte è stata pessima per te ed anche per la tua piccola rhani. Chi veglia qui?»
«Io, sahib», gridò il baniano «e non sarò solo perché è ancora vivo un molosso che ormai si è affezionato a me». «Non hai paura dei tradimenti tu?» Il vecchio cacciatore di topi mostrò la sua fascia piena di armi e disse:
«Vengano a provarle i traditori: qui vi sono armi da fuoco ed armi bianche. Non sono più giovane, eppure io valgo ancora un mezzo maharatto».
Dieci minuti dopo, Tremal-Naik rimontava su Sahur insieme al gigantesco rajaputo e partiva per la montagna.
CAPITOLO TERZO. DUE FURFANTI
Kammamuri e Tìmul, il giovane cercatore di piste, non avevano perduto il loro tempo.
Dopo una corsa furiosa sul dorso del penultimo elefante rimasto a Yanez, erano giunti a Rampur, la stazione ferroviaria più prossima allAssam, almeno in quellepoca, poiché oggidì le linee si sono triplicate, ed i cui treni conducono direttamente a Calcutta passando attraverso selve immense infestate di tigri e di briganti indiani, non meno audaci di quelli americani, e sopra ponti giganteschi gettati sui grandi corsi dacqua.
La «Indian-Sud-Railway» ha organizzato un servizio veramente
ammirabile. I suoi treni si compongono usualmente di pochi carrozzoni, assai vasti e molto comodi, forniti di comode panchette rialzate, e che per mezzo di cinghie, alla sera, si possono trasformare rapidamente in letti.
Sui lati opposti degli scompartimenti si aprono due od anche tre gabinetti, per abbigliarsi e per altre cose ancora che richiedono i lunghi viaggi con fermate a lunghissime distanze e piuttosto rare.
Le finestre sono difese da stuoie di vetiver, che vengono mantenute sempre umide da serbatoi speciali, sicché la temperatura è relativamente abbastanza fresca, anche perché i carrozzoni hanno un doppio tetto che mitiga assai il calore.
Le insolazioni sono rarissime anche sulla lunghissima linea della «East- Indian-Railway», che va da Calcutta a Bombay.
Ad ogni fermata un agente della Compagnia sale nei carrozzoni, prende il nome dei viaggiatori che desiderano pranzare nella stazione più prossima che è poi sempre lontanissima, telegrafa, ed il pranzo o la colazione sono sempre pronti, e non a prezzi elevati, poiché in India si vive a buon mercato.
Kammamuri e Timul, congedatisi dal cornac che li aveva condotti fino alla stazione ferroviaria, in tempo per prendere il primo treno del mattino delle sette e quaranta, si accomodarono in uno scompartimento di prima classe, avvertendo subito lagente che avrebbero pranzato a Bogra.
(Trattasi evidentemente di Pursa).
Si erano appena seduti ed avevano accese le sigarette, quasi certi di non essere disturbati, quando un momento prima che la campana annunciasse la partenza del treno, una porta si aprì e si avanzò un superbo bramino, vestito elegantemente in bianco, con una larga fascia azzurra stretta ai fianchi che sorreggeva due pistole dalla canna lunghissima e dal calcio intarsiato davorio e dargento.
Era un uomo di statura imponente, con una lunghissima barba nera, i lineamenti energici, gli occhi quasi fosforescenti, come quelli del paria. Lanciò uno sguardo piuttosto sdegnoso sui due viaggiatori, mise sulla reticella una piccola valigia di pelle gialla assai elegante, con borchie dargento, poi si sedette tergendosi il sudore con un fazzoletto largo quasi quanto una vela, e che puzzava di muschio come se fosse stato estratto allora dal ventre dun alligatore.
«Si fuma qui!» disse, aggrottando la fronte. «Vedete bene che io sono qualche cosa più di voi». «Potreste ingannarvi, signore» rispose prontamente Kammamuri, un po seccato. «Chi siete voi dunque?» «Due principi assamesi». «E vi recate?» «A Calcutta». «A che cosa fare?»
«Da sei mesi nellAssam non piove e la carestia infuria. Andiamo a comperare grano pel nostro popolo».
«Ah! Si soffre la fame nellAssam!» disse il bramino. «Eppure si dice che abbia delle risaie immense». «Il raccolto è mancato questanno, sahib».
«Già Da quando Sindhia ha perduto la corona, tutte le cose vanno male lassù. Che cosa fa la rhani?» «Governa come meglio può». «Ed il maharajah bianco?» «Si diverte a sterminare le belve che infestano le nostre foreste». «Mi hanno già detto che è un famoso cacciatore». «Fulmina le tigri come se fossero semplici gazzelle» rispose Kammamuri. «Sarà amato dalla popolazione». «Più di Sindhia». Uno strano sorriso comparve sulle labbra del bramino.
«Io però ho udito raccontare che alla rhani hanno avvelenati due o tre ministri». «Sì, un paio». «Allora ha qualche nemico». «Può darsi». «Che si sospetti di Sindhia?»
«Non saprei dirvelo, però non si vive più tranquilli alla corte della rhani dopo che sè sparsa la voce che lex rajah è fuggito da Calcutta dove si trovava in osservazione, avendo dato segni di follia furiosa».
«Non lo sapevo» disse il bramino. «Sicché andate a Calcutta a fare dei grossi acquisti di granaglie?» «Sì, sahib». «Conoscete la città?» «Ci sono stato molte volte io». «Avete delle conoscenze?» «Anche». «Mi offro io a farvene fare». «Grazie, sahib, ma abbiamo raccomandazioni per persone importanti».
«Bene, bene. Se però potrò esservi utile disponete pure di me, giacché vado anchio a Calcutta, e dove mi fermerò qualche settimana. Ho anchio degli affari grossi da sbrigare, perché sono un personaggio che vale un principe e forsanche un rajah».
«Non mancheremo di approfittare della vostra cortesia, signore» rispose Kammamuri, il quale avrebbe fatto a meno di quel compagno di viaggio così curioso.
Il bramino si affacciò allo sportello che in quel momento era stato sgombrato dalle stuoie umide, e si mise a guardare la campagna. Il treno, lanciato alla velocità di ottanta miglia allora, divorava lo spazio con un rombo sonoro, attraversando lembi di foreste, jungle e ponti metallici gettati su innumerevoli fiumi.
La stazione era lontana, e la regione semideserta del Bengala settentrionale incominciava.
Solo di quando in quando, a lunghi tratti, apparivano dei meschini villaggi costruiti con canne e fango e circondati da alte palizzate per impedire alle tigri, sempre numerosissime, di tentare degli attacchi notturni.
Solo di quando in quando, a lunghi tratti, apparivano dei meschini villaggi costruiti con canne e fango e circondati da alte palizzate per impedire alle tigri, sempre numerosissime, di tentare degli attacchi notturni.
Il bramino stette al finestrino un buon quarto dora, osservando il paese, poi tornò a sedersi di fronte a Kammamuri ed a Timul.
«Sapete che io ho un triste presentimento?» disse. «Ho molto esitato prima di partire». «Quale?» «Che questo treno non giunga a Calcutta». «E perché?» chiese il maharatto. «Non lo so. Ho fatto un brutto sogno ed ho veduto cose spaventevoli». «Tutti i viaggiatori sono armati e, se non minganno, siamo almeno cento».
«Anchio, quantunque bramino, come vedete, ho un paio di pistole, eppure io sono certo di non raggiungere la regina del Bengala». «Che cosa avete sognato dunque?» «Non posso dirlo». «Speriamo che il vostro sogno non si avveri».
«Io pregherò Brahma di guardarci da quel grande pericolo. Lasciatemi riposare, e se volete fumare andate fuori, nella galleria». Ciò detto si rovesciò sulla comoda panca e parve che si addormentasse subito.
Kammamuri e Timul, non volendo disturbare un personaggio così importante, attraversarono lo scompartimento che non conteneva altri passeggeri, e uscirono sulla galleria per poter continuare le loro fumate.
«Che cosa dici tu di quelluomo?» chiese Kammamuri al giovane cercatore di piste. «Io non so, ma mi pare di vedere in lui un misterioso nemico. Che la nostra partenza dalla capitale sia stata notata dalle spie di Sindhia?» «È quello che mi domandavo, sahib» rispose Timul.
«Che tutto dun tratto quel Sindhia sia diventato così potente? Io ne sono stupito. Per Giove, come dice il signor Yanez, quel briccone pare che guadagni rapidamente terreno».
«Il maharajah è ancora forte, signore, e non è uomo da spaventarsi tanto facilmente». «Sono i tradimenti che ci spaventano, mio caro». «Apriremo gli occhi, sahib».
«Comincia ad aprirli su questo bramino. Mi ha laspetto di essere un fratello di quello che abbiamo catturato nelle cloache e che forse a questora sarà morto. Sarò stato feroce, però contro le canaglie dobbiamo ben difenderci con tutti i mezzi». «Anche coi filosofi» disse Timul ridendo. «Hanno fatto meglio dei topi corpo di Siva». Il maharatto si era avvicinato rapidamente allo sportello dello scompartimento, la cui stuoia innaffiata era stata calata, ed aveva scorto il bramino il quale pareva che ascoltasse le sue parole.
«Mio caro Timul» disse, tornando verso il giovane cercatore di piste. «Apri gli occhi su quelluomo e non perderlo di vista».
«Se viene a Calcutta con noi, non ce lo lasceremo scappare, signore. Mi sembra però strano che gli agenti di Sindhia siano stati già informati della nostra partenza. Che sappiano già anche lo scopo del nostro viaggio?» «Chi potrebbe dirlo? Che mi senta tranquillo, no certo». «Siamo in due, signore, e non abbiamo mai avuto paura».
«Riaccendi la sigaretta ed entriamo. Vedremo se il bramino ci proibirà ancora di fumare». Attraversarono la galleria e passarono nel carrozzone.
Il bramino fingeva in quel momento di dormire. Doveva essersi però coricato da qualche momento. Udendo però i due viaggiatori entrare, si alzò di scatto e disse con voce quasi minacciosa:
«Vi ho detto che sono un bramino, e poi le mie vesti ve lo indicano. Io ho diritto a dei riguardi».
«Di che cosa vi lamentate, signore?» chiese Kammamuri, tirando fumo a gran boccate. «Io non posso soffrire la sigaretta». «Allora cambieremo».
Il maharatto si cacciò una mano in tasca e trasse una vecchia pipa che era già carica di quel fortissimo tabacco che usano i montanari assamesi, e che stordisce anche i più vecchi fumatori se non vi sono abituati. «Che cosa fai?» chiese il bramino, con voce irata.
«Voi dimenticate, signore, che io sono un principe assamese. Mi pare di averlo detto». «Io non ho veduto le tue carte».
«Datemi del voi o chiamatemi Altezza. Le mie carte poi non le mostrerò che alle autorità inglesi di Calcutta».
«Non si rispettano più dunque i bramini nel vostro paese, dopo che Sindhia non è più sul trono?» «Sempre, signore». «Ed allora gettate via quella pipa puzzolente».
«La spegnerò e la rimetterò in tasca, purché voi, sahib, mi diate il permesso di fumare delle sigarette».
«Non cè più religione oggi in India!» gridò il bramino. «Non si distinguono più le alte caste da quelle basse». «Se siamo principi, certo ci dovete anche voi dei riguardi». «Io non ho veduti i vostri documenti».
«Sareste un agente di polizia camuffato da bramino?» gridò Kammamuri, il quale cominciava a sentirsi il sangue montare al cervello. «Che cosa dite? E osate dire tanto a me?»
«Io sono un seguace di Siva, e quindi per me i sacerdoti di Brahma non valgono nulla». «Il dio più grande è quello che adoro io».
«Io mi accontento di Siva» rispose Kammamuri, il quale aveva riacquistata prontamente la sua calma. «A me basta, e non ho mai avuto da lagnarmi di lui». «È un dio bugiardo non meno di Visnù». «Di questi affari non me ne intendo, signor sacerdote».
Accese la pipa e si mise a fumare rabbiosamente, intanto che Timul faceva strage di sigarette.
Cominciavano ad averne abbastanza delle prepotenze di quel bramino che poteva essere qualche stretto parente di quello catturato nelle immense fogne della capitale. Per un po il sacerdote si lasciò affumicare, poi si alzò e uscì dalla galleria.
Stette qualche po a osservare la campagna, poi, passando di galleria in galleria, raggiunse la macchina che era condotta da due indiani più neri degli africani.
Nessuno del personale viaggiante aveva osato fermarlo o fargli qualche osservazione. I bramini erano ancora troppo potenti e perfino troppo rispettati anche dagli inglesi.
Il macchinista, vedendolo giungere gli era subito mosso incontro per aiutarlo, ma il sacerdote, agile, e nello stesso tempo robusto, dal carro del carbone saltò sulla macchina senza perdere lequilibrio. «Dove ci fermeremo prima, Chaifassa?» chiese. «A Bogra, dove i viaggiatori faranno colazione». «Quando giungeremo al posto fissato dai congiurati?»
«Verso la mezzanotte, signore. La via scende, ed il treno corre con una velocità straordinaria». «Saranno pronti i nostri uomini?» «Certamente, signore». «È la Jungla Gialla che andrà in fiamme, è vero?»
«Sì, ed il treno vi lascerà tutte le sue vetture, e forsanche tutti i suoi passeggeri».
«Degli altri non mi occupo» disse il bramino, il quale pareva assai di cattivo umore. «A me basta di troncare il viaggio a quei due pretesi principi assamesi che mi sono stati segnalati già da ventiquattro ore fa alla stazione di Rampur». «Sono con voi?» «Nel mio stesso scompartimento». «Quando arresteremo la macchina dovremo gettarci subito su quegli uomini?»
«Tu sei uno stupido» disse il bramino. «Sono bene armati, e poi vi sono quasi cento viaggiatori nel treno. Bellaffare che faresti. Tu, il macchinista, che cerca di arrestare delle persone! Saresti preso tu invece, mio caro. Chi ci aspetta alla prima stazione?»
«Un fuochista che già vi conosce e che si metterà subito a vostra disposizione. Probabilmente avrà qualche ordine da comunicarvi». «E noi non bruceremo?»
«Arresterò il treno in tempo per metterci in salvo, poi aprirò le valvole e lo lancerò a corsa sfrenata dentro la fornace. Quando udite tre fischi, balzate subito a terra». «Per rompermi il collo?»
«Arresterò subito il treno. Ricordatevi lora: giungeremo alla Jungla Gialla verso mezzanotte».
«E se i due principi assamesi, malgrado il nostro piano infernale, sfuggissero al disastro?»