«E palle di carabina!» disse Tremal-Naik, mettendosi dietro ad una tromba. «Quelle canaglie adoperano le armi che hanno prese ai nostri rajaputi». «Bah! Non la dureranno a lungo. Dovè la bomba?» «Ti sei deciso di farla esplodere finalmente?»
«È necessario arrestare lo slancio di quegli uomini. Che baccano! Sembrano sciacalli affamati in cerca di cena!»
I paria, che si erano nascosti nella foresta, si avanzavano coraggiosamente, urlando e sparando allimpazzata. Probabilmente era la prima volta che adoperavano le armi da fuoco, e non potevano quindi ottenere che dei magri successi.
Gli sikkari invece, tiratori meravigliosi, colpivano in pieno, gettando a terra, ad ogni scarica, parecchi uomini, se non uccisi almeno bene mitragliati. Yanez e Tremal-Naik, temendo qualche brutta sorpresa da parte di quelli che si trovavano nel tempio, e che da un momento allaltro erano diventati più muti dei pesci, sparavano qualche colpo attraverso il finestrone per avvertirli che anche da quella parte vegliavano.
I paria, se hanno limpeto delle razze veramente selvagge, non sono mai stati guerrieri, quindi non potevano tenere testa a quel gruppo duomini, che dallalto del tempio li tempestavano di pallettoni. E poi, come abbiamo detto, non dovevano avere nessuna pratica delle armi da fuoco, usando essi di solito le armi bianche e le frecce avvelenate. Tuttavia, malgrado la gragnuola che li colpiva e che li faceva urlare come vere belve feroci, sempre sparando, si erano spinti fino dinanzi alla porta maggiore della pagoda, ma non si erano sentiti in grado di tentare di raggiungere gli sikkari, i quali, con grande calma, celati dietro le trombe degli elefanti, rispondevano.
Tentarono ancora una breve resistenza, poi crivellati dalla mitraglia, si salvarono a corsa sfrenata nella boscaglia, lasciando dietro di loro qualche morto.
«Corpo di Giove!» esclamò Yanez, dopo daver sparato un ultimo colpo entro la pagoda. «Finalmente se ne sono andati quei noiosi. Se Sindhia conta su questi uomini, avremo facilmente buon giuoco». «Ed è per questo che il furbo ti porta via i rajaputi» disse Tremal-Naik. «E li paga coi denari che gli passava mia moglie per curarsi!»
«Oh! Ne avrà avuto ben altri. Tutti questi principi indiani hanno il loro tesoro nascosto accuratamente».
«Lo so: Sindhia non deve aver lasciato lAssam senza portarsi dietro una fortuna, forse il tesoro di guerra che sarebbe spettato a mia moglie».
Mentre parlava, Yanez aveva accesa la miccia della bomba. Aveva veduto i paria ricomparire sul margine della foresta, e voleva impressionarli con un formidabile scoppio. Si alzò, misurò la distanza, poi lanciò la latta piena di polvere e di proiettili. «Dovevi aspettare» disse Tremal-Naik. «Poteva esserci più utile più tardi». «Sai che cosa io ho udito?» «Non so». «Il barrito dun elefante». «Che il cornac ritorni con Sahur?»
In quel momento la bomba scoppiò con un fracasso spaventevole, sollevando una grande fiammata ed una fitta nuvola di fumo. Gli alberi vicini furono sradicati e poi incendiati, ma la peggio toccò ai paria i quali, completamente disorganizzati, per la seconda volta se la diedero a gambe, rifugiandosi nuovamente nel folto della foresta.
«Sahur!» gridò in quel momento Tremal-Naik. «Conosco il suo barrito. Sta per giungere». «Come vedi, non mi ero ingannato» disse Yanez. «Hai lorecchio ben fino».
«Sono sempre un Tigrotto della Malesia, quantunque sia diventato maharajah» rispose il portoghese, sorridendo. «Presto, discendiamo. Lelefante sta per giungere».
Ricaricarono le armi, si aggrapparono alle corde e si calarono dinanzi alla porta maggiore del tempio.
Degli alberi bruciavano stentatamente, mandando più fumo che fiamme. Era una fortuna, poiché gli sikkari rimanevano quasi nascosti dietro a quei nuvoloni che a poco a poco si dilatavano, essendovi anche non poche piante gommifere. Al di là, oltre quel velame fumigante, le carabine dei rajaputi, adoperate fortunatamente da quei maldestri paria, tuonavano sempre, senza che si sapesse dove le palle andassero a finire. Probabilmente sparavano ancora contro il finestrone, credendo che il maharajah ed i suoi compagni si trovassero ancora nascosti fra le gigantesche proboscidi degli elefanti. Yanez gettò uno sguardo intorno, ascoltò un momento, poi disse: «Al trotto! Sahur si avvicina!»
Si slanciarono tutti attraverso la foresta, fiancheggiando però sempre limponente pagoda e, dopo daver percorsi oltre duecento metri, si arrestarono in mezzo ad una foltissima macchia.
«Yanez» disse Tremal-Naik. «Hai udito per caso il barrito degli elefanti di pietra? Non vedo giungere nessuno».
«Per Giove! Io ho udito!» rispose il portoghese. «Ti dico che un elefante vivo poco fa galoppava verso la pagoda». «Che si sia fermato in qualche luogo?»
«È probabile. Il cornac ha paura dei paria e non dobbiamo rimproverarlo. Eh! Odi?» «Sì, un barrito!» «Ed a pochi passi da noi». «Si è fermato e ci aspetta». «E se fosse montato da rajaputi?»
«Noi non li risparmieremo, Tremal-Naik!» rispose Yanez, con rabbia. «Sono troppo stanco di tradimenti Per Giove! Che cosè questo fracasso? Si direbbe che quindici o venti elefanti si precipitino attraverso la foresta tutto atterrando sul loro passaggio». «E quei pachidermi saranno i tuoi che cercano di dare la caccia al cornac». «Ah! La vedremo!»
Colle mani fece portavoce e per tre volte, mentre dietro la nuvolaglia di fumo continuava a rombare la moschetteria, gridò: «Chi viene a salvare il maharajah dellAssam? Mille rupie guadagnate».
Aveva appena pronunciate quelle parole quando si vide Sahur, col suo valoroso cornac, uscire da una folta macchia ed avanzarsi rapidamente. «Montate, Altezza!» gridò il conduttore, gettando la scala. «Sono inseguito». «Dai rajaputi?» «Dai vostri elefanti montati non so da quali briganti».
«Su, in alto!» gridò Yanez, spingendo prima i due prigionieri che non voleva assolutamente perdere.
In un momento furono nella cassa, rovesciarono la cupoletta per poter aver maggior campo per servirsi delle carabine, ed il bravo elefante, quantunque dovesse aver fatto una lunga corsa, si slanciò a corsa sfrenata, rasentando le nuvole di fumo.
I paria, udendo i barriti si erano precipitati fuori della macchia, ma otto colpi di carabina li decisero subito a scappare. Daltronde Sahur caricava sfrenatamente, menando colpi di proboscide a destra ed a sinistra.
Guai se si fossero trovati sul passaggio di quellintrepido bestione che non temeva né belve né uomini.
In lontananza intanto si udivano barrire molti altri elefanti, e rombavano dei colpi di carabina.
«Non temete, Altezza» disse il cornac di Sahur. «Abbiamo un vantaggio di almeno un miglio, e questa bestia è la più rapida di quelle che possedevate. Ora che vi ho ritrovati non ho più paura, e vi prometto di condurvi alla capitale prima ancora che spunti lalba». «Come hai fatto ad impadronirti di questo bravo elefante?»
«Ho semplicemente fischiato. Tutti i pachidermi stavano sdraiati intorno alle rive duno stagno, divorando»
«Il séguito dopo!» gridò Yanez, balzando in piedi. «Queste canaglie di paria, pare impossibile, hanno nelle loro vene qualche goccia di sangue di guerrieri. Non mi sarei mai immaginato che fossero così coraggiosi!»
Trenta o quaranta indiani, armati chi di carabine e chi di cerbottane, si erano slanciati fuori della boscaglia a corsa sfrenata, cercando di tagliare la via allelefante.
Giungevano però troppo tardi, poiché Yanez, Tremal-Naik e gli sikkari, avevano avuto il tempo di ricaricare le carabine. Una scarica formidabile, lanciata da mani sicure, apriva una vera breccia attraverso a quei poveri combattenti, che forse armeggiavano per la prima volta colle armi da fuoco. Sahur, il formidabile elefante, si cacciò dentro lapertura, e trovato sul suo passaggio un paria che non aveva fatto a tempo di fuggire, lo afferrò colla proboscide, con una formidabile stretta gli spezzò le costole, poi lo scaraventò contro il tronco dun albero, sfracellandolo. Il passo era libero. I paria, spaventati dalla carica furiosa dellelefante, erano scappati come nilgò, rifugiandosi nella folta foresta.
«Per Giove!» disse Yanez, dopo di aver sparato un ultimo colpo di carabina. «Non sono troppo solidi i guerrieri di Sindhia». «Ed è per questo che porta via i tuoi rajaputi» rispose Tremal-Naik.
«Ed a quelli noi opporremo i montanari di Sadhja e le Tigri di Mòmpracem che condurrà qui Sandokan. Via, cornac!»
Non cera bisogno di eccitare lelefante. Il bravo pachiderma correva a gran trotto, sballottando terribilmente le persone che si trovavano radunate nella cassa. In lontananza si udivano degli spari e dei barriti. «Ci danno la caccia, è vero, cornac?» chiese Yanez. «Sì, Altezza, e coi vostri elefanti». «Si lascerà raggiungere Sahur?» «No, no: è il migliore dei vostri animali e filerà come una tromba di vento». «Fra gli uomini che montavano gli elefanti hai veduto tu i miei rajaputi?»
«No, Altezza, neppure uno. Tutte le haudah erano piene di paria e daltri uomini che lex rajah deve aver arruolati sui confini del Bengala».
«Che cosa ne avrà fatto dunque dei miei uomini? Che li abbia uccisi? Da quel tiranno cè da aspettarsi qualunque bricconata compiuta in grande, con spreco di sangue».
«Non credo che i tuoi rajaputi siano dei conigli per lasciarsi macellare senza difesa» disse Tremal-Naik. «Tu, cornac, non hai udito grida nellaccampamento?» «No, sahib».
«Allora Sindhia li avrà fatti allontanare per ora, per servirsene più tardi nel grande urto».
«E ciò minquieta» disse Yanez, il quale fumava rabbiosamente la sua ultima sigaretta. «Mai più mi aspettavo una simile tempesta! Cè del tempo però, e non lascerò portarmi via la corona senza dare delle terribili battaglie. Eccoci già in vista della capitale. Come fila questo bravo Sahur!»
Spuntava allora lalba e sul nitido orizzonte, tinto dun rosa tenerissimo, si profilavano le pagode della grande città. Ormai non si udivano più né barriti di elefanti né colpi di fucile.
I congiurati, persuasi ormai di non poter raggiungere il velocissimo Sahur, e non volendo troppo mostrarsi in luoghi abitati, si erano fermati per ritornare poi verso la pagoda dove si trovavano i loro compagni. La strada era buona, aperta fra grandi risaie, già piene di contadini e di contadine, e non vi erano più foreste per temere qualche nuova imboscata. Sahur, che pareva inesauribile, con un ultimo slancio raggiunse il ponte levatoio del bastione di Karia e condusse, sempre al galoppo, il maharajah ed i suoi cacciatori dinanzi alla elegante palazzina, circondata da una doppia fila di rajaputi. Vedendo quei guerrieri, Yanez ebbe un sorriso pieno damarezza.
«Si potrebbe crederli fedeli» disse a Tremal-Naik. «Chissà invece che cosa pensano nei loro cervelli. Conoscere questi mercenari è un po difficile».
Fece gettare la scala, scese portando la sua grossa carabina e le sue pistole, e seguito dal vecchio cacciatore entrò nel suo salotto, certo di trovarvi Surama.
La piccola rhani si trovava infatti là, guardata dal cacciatore di topi che si era messo nella fascia quattro pistoloni e due tarwar, e stava cullando il piccolo Soarez che aveva preso dalle braccia della nutrice.
«Ah, mio signore!» esclamò, alzandosi impetuosamente. «Io ti piangevo già come morto».
«Perché, Surama?» chiese il portoghese, affettando la massima calma. «Non sono un uomo da farmi uccidere come un nilgò, né da farmi prendere. Sappi però che Sindhia ci ha portati via tutti i nostri elefanti ed i duecento rajaputi che ci scortavano. Quel briccone comincia a diventare estremamente pericoloso ed è giunto il momento di pensare seriamente ai casi nostri. Le ruote del nostro impero, non so per quale motivo, stridono orribilmente, e non basta più lolio». «Tu mi spaventi, Yanez» disse Surama, affidando il bambino alla nutrice.
«Come vedi torniamo completamente sconfitti, e se non ci fosse stato il cornac di Sahur, non so quando noi avremmo potuto far ritorno. Non spaventarti: la corona è ancora ben fissata sui tuoi capelli neri, e noi siamo qui pronti a difenderla. Tremal-Naik questoggi partirà per le montagne e faremo calare qui i fedeli e valorosi montanari di Sadhja, poiché sui rajaputi non possiamo più contare assolutamente. Kammamuri è in viaggio per Calcutta, e fra ventiquattro ore Sandokan avrà il nostro telegramma. Fra trenta giorni noi saremo in grado di dare un colpo decisivo a Sindhia. Si tratta solo di sapere se potremo aspettare tanto gli aiuti del mio terribile fratello malese». «Ed i miei montanari?»
«Ci conto, mia cara, e sono la nostra unica speranza, pel momento. Mingannerò, ma mi pare che questo nostro impero cominci a sgretolarsi».
«Forse esageri, Yanez» disse Tremal-Naik. «Non abbiamo che dei paria dinanzi a noi».
«No, anche dei bengalesi e poi i miei rajaputi. Oh! Altri ci tradiranno, e fra poco. Quei guerrieri si vendono al migliore offerente, eppure io li pago a pezzi doro. Che Sindhia ne abbia più di me? Io non lo credo».
Prese sul tavolo una sigaretta, laccese, poi si empì un bicchiere di birra, e guardando il cacciatore di topi che fino allora era rimasto silenzioso: «È ancora vivo il prigioniero?» «Il bramino?» «O meglio il paria».
«No, Altezza, è morto tre o quattro ore fa. Il troppo lungo digiuno laveva sfinito». «Che il diavolo se lo porti! Ha chiuso per bene anche laltro occhio?»
«Sì, Altezza; però avendo io sollevato la sua palpebra, ho veduto un lampo sinistro, pauroso, scaturire dalla nera pupilla, eppure era già morto».
«Surama, sei più tranquilla ora che quel miserabile ha mandato lultimo sospiro?»
«Sì, mio signore» rispose la rhani. «Prima avevo sempre come una nebbia fitta nel mio cervello, ed ora sono tornata la donna di prima».
«Che labbia accoppato il rajaputo? È lunico uomo fedele» disse Yanez, guardando il baniano. «Non lo so, Altezza. Quando mi ha chiamato, il bramino era già spirato».
«Ormai non era che un ingombro» disse il portoghese. «Comincio a diventare cattivo, ma è necessario. Tutti questi tradimenti, che mi stringono fra le loro spire, senza nulla poter opporre in tempo, cominciano a farmi diventare un tiranno. E sia! Sindhia lo era, ed ora minaccia di riconquistare tutti i suoi sudditi ai quali noi abbiamo dato le più ampie libertà. Si vede che nellIndia, per governare, bisogna essere cattivi».
«Tu hai ragione, Yanez» disse Tremal-Naik. «Solo i rajah sanguinari hanno fortuna in questo disgraziato paese». «Che cosa pensi di fare, mio signore?» chiese Surama.
«E me lo domandi? Se non avessimo un figlio lascerei andare anche la corona dellAssam che mi ha dato più noie che soddisfazioni, e andrei a riposarmi a Mòmpracem, a fianco del mio fratello bruno, il terribile Sandokan. Ma vi è il piccino, e per Giove, farò il possibile per lasciargli limpero che io e tu, Surama, abbiamo guadagnato col nostro valore. Bel mestiere fare il maharajah! Siamo già ridotti a mangiare delle uova sode o crude per non prenderci delle coliche terribili a base di veleno di bis cobra. Che il diavolo si porti tutti i regni del mondo, Io ne ho abbastanza».
«Mio signore», disse Surama, «vuoi che prima che scoppi la rivoluzione andiamo a Mòmpracem?»
«Io! Io fuggire dinanzi a Sindhia!» gridò Yanez. «Ah, no! Quel pazzo che ha riacquistata la ragione mercé le cure prestategli a Calcutta e pagate coi denari nostri, non metterà le sue mani sulla tua corona, mia piccola rhani. Sandokan lhanno chiamato la Tigre della Malesia; laggiù chiamavano me la Tigre bianca. Siamo nel paese delle tigri, e per Giove, come abbiamo vinto Suyodhana, spero di vincere anche Sindhia».
Vuotò il bicchiere di birra, poi scagliò il vetro contro la parete, mandandolo in dieci pezzi. «Lo spezzerò come ho fracassato questa tazza». Non era più luomo tranquillo.