La città del re lebbroso - Emilio Salgari 2 стр.


La dolce Parvati raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più favorevoli, Sivah non sollevò alcun dubbio sullinnocenza della diletta sposa.

«Sono stato un po vivace,» le disse. «Ho labitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»

Appena pronunciate quelle parole, con un colpo della sua formidabile scimitarra fece saltare la testa del suo elefante da guerra e la posò sulle spalle del bimbo decapitato.

Grazie a quel miracolo di chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Ganesha, la cui testa delefante si dondola sul suo corpo duomo, fu annoverato fra gli dei dellIndia.

Protetto da una tale divinità, lelefante non doveva mancare di essere considerato come un animale superiore allo stesso uomo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza, sia per la sua forza prodigiosa.

Dovevano i popoli confinanti o quasi confinanti collIndia rimanere insensibili ad un tale avvenimento? Assolutamente no, e lelefante fu senzaltro accettato dai Birmani prima e dai Siamesi poi, come una divinità protettrice di quegli stati.

Fecero però delle eccezioni. Possedendo quei paesi fortunati degli elefanti bianchi, quantunque rarissimi, invece di innalzare agli onori gli elefanti più o meno grigi, diedero la preferenza a quelli ammalati! Ormai è noto che i famosi elefanti bianchi non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei lebbrosi, sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! Ma la scelta degli elefanti bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di venerazione aveva unorigine religiosa.

Sia i Birmani che i Siamesi sono tutti adoratori di Budda, dio che i primi venerano sotto il nome di Gautama ed i secondi sotto quello di Sommona Kodom.

Ora le antiche leggende narrano che questo Sommona era nato dio per sua propria virtù, che, perfettamente istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti.

Un giorno il dio, essendosi seduto allombra duna pianta chiamata tampo, salì in cielo su un trono sfolgorante doro e di pietre preziose, e si dice che gli spiriti celesti, abbagliati da tanto splendore, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si prostrarono dinanzi per adorarlo.

Tanta gloria avrebbe eccitato la gelosia e il furore del fratello Thevetat, che doveva essere una specie di Caino; quellinvidioso, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio, fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi.

Il mondo si divise allora in due grandi fazioni, luna delle quali seguiva Sommona Kodom come modello di virtù, e laltra lo scellerato Thevetat che colle sue massime ree istigava gli uomini al vizio.

Arse la guerra, ed il malvagio fu precipitato, al pari di Satana, in un abisso fiammeggiante.

Narrano ancora le antiche leggende Siamesi e birmane che il dio, per perfezionare meglio la sua anima, passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vani animali, fra cui quello dun elefante bianco.

Era dunque naturale che quei popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse lanima del dio.

Ecco spiegato il motivo per cui Siamesi e Birmani hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari animali, che per i primi rappresentano Sommona Kodom, e per gli altri Gautama ossia Budda.

Perciò la morte dellultimo Shen-mheng non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sullanimo del re, bensì dellintera popolazione; ed era il settimo che spirava nello spazio di poche settimane!

Quali catastrofi, quali tremendi disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?

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Lakon-tay uscì dal palazzo dei Shen-mheng colla morte nel cuore, pallido, disfatto, per recarsi dal re a dargli il terribile annuncio. Non era uomo che avesse paura della morte il ministro degli elefanti bianchi, oh no!

Prima di essere innalzato a quella carica, da tutti i grandi della corte ardentemente agognata, Lakon-tay era stato uno dei più famosi generali del regno, ed aveva combattuto valorosamente contro i Cambogiani, gli Stienghi e i Birmani che avevano violato le frontiere.

Quello che tormentava il suo animo era la triste sorte che forse era serbata alla dolce Len-Pra, la sua unica figlia che egli adorava pazzamente e che certo doveva venire travolta nella disgrazia che colpiva il padre.

Era certo che il re non avrebbe mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette Shen-mheng e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse speso puntualmente, fino allultimo tical, le rendite della provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri pachidermi, e nulla avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.

Uscì solo, senza guardare in viso nessuno, come un delinquente ormai condannato, cupo e affranto, a testa bassa, le unghie conficcate nel petto, e cominciò a percorrere, camminando quasi a zig-zag, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui cupole scintillavano agli ultimi raggi del sole morente, sullo sfondo di un cielo fiammeggiante.

Nessuno aveva osato seguirlo, nemmeno il mahut favorito dal povero Shen-mheng, perché tutti temevano dessere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il ministro.

Dopo aver percorso parecchi viali che costeggiavano dei graziosi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti barchette ricche di dorature e coi cuscini di seta, e dove si bagnavano in gran numero le gru coronate dalle lunghe gambe e bande di aironi, Lakon-tay, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si trovò, quasi senza saperlo, dinanzi al palazzo abitato dal re.

Nel 1865 epoca in cui comincia questa storia il palazzo reale di Bangkok era ancora annoverato fra le meraviglie del reame.

Era cinto tutto da muraglie altissime, che si prolungavano per parecchi chilometri, rivestite internamente da lastre di marmo bianco.

Nel centro di quellimmenso recinto sorgeva il mahapregat, ossia la gran sala dove il re usava ricevere gli ambasciatori delle potenze occidentali ed orientali, e dove si conservavano per un anno, racchiuse in unurna doro, le ceneri dei defunti re; sala ricca di dorature meravigliose, eseguite dai più valenti artisti non solo del Siam bensì anche della Cina.

Più oltre si trovava un altro ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da gigantesche statue Cinesi, e nel quale si trovava il trono a forma di altare, ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.

Lakon-tay si diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e della regina.

Era sicuro di trovare il re senza dover troppo attendere.

Salì col cuore trepidante la scala di marmo, appoggiandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, varcò la soglia senza rispondere al saluto del soldato di guardia che gli aveva presentato larchibugio, e forse senza nemmeno vederlo.

Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito di seta rossa a fiori gialli, e aveva ai polsi numerosi braccialetti doro e ai piedi babbucce a punta rialzata con perle e ricami dargento, vedendo entrare Lakon-tay si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.

Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito di seta rossa a fiori gialli, e aveva ai polsi numerosi braccialetti doro e ai piedi babbucce a punta rialzata con perle e ricami dargento, vedendo entrare Lakon-tay si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.

«Il re?» gli chiese brevemente il ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo.

«È appena tornato nelle sue stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento della missione francese e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di spogliarsi.»

«Va a dirgli che mi urge vederlo.»

«Lakon-tay è sempre gradito a Sua Maestà Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei trasfigurato.»

«Disgrazia, disgrazia,» gemette il generale.

«Il Shen-mheng

«Morto»

Il ciambellano fece rapidamente alcuni passi indietro, come se temesse al pari degli altri di venir coinvolto nella disgrazia che stava per piombare sul povero ministro.

Fece un inchino meno profondo del solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti riservati al re.

«Tutti mi abbandonano e mi sfuggono come un lebbroso,» mormorò Lakon-tay. «Ieri erano vili servi, ora che sto per perdere la mia carica e forse la vita, sono tanti principi.»

Sappoggiò a una delle colonne, fissando le lastre di marmo bianco che coprivano il pavimento della vasta sala.

Lo strepito duna porta che sapriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.

Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del grande costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.

Phra-Bard-Somdh-Pra-Phara-Mendr-Maha-Monghut, re del Siam, era ancora un belluomo, quantunque di età già matura, dalla pelle un po abbronzata e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dellIndocina.

Indossava ancora, come abbiamo detto, labito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere unambasciata straordinaria inviatagli dal governo francese.

Sandet-Pra-Paramindr-Maha, suo figlio, che gli successe sul trono nel 1868, adottò, anche nei grandi ricevimenti, il costume dei generali inglesi; ma i suoi avi ci tenevano invece a fare pompa dellabito regale siamese, il quale, se non era troppo comodo, faceva colpo sugli stranieri per la sua straordinaria ricchezza e per la sua strana forma.

Phra-Bard aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide doro massiccio, alta più dun piede, ornata allintorno di diamanti e di rubini, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine doro, che sincrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva delle babbucce che avrebbero potuto far felice una sultana, tanto erano ricche di rubini e di smeraldi.

Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dellultimo dei sette Shen-mheng, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra.

Lakon-tay, facendo uno sforzo supremo, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:

«Se mi credi colpevole, o mio re, uccidimi: sei nel tuo diritto.»

Phra-Bard rimase silenzioso, dardeggiando però sul disgraziato ministro uno sguardo che non prometteva nulla di buono.

Ad un tratto la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.

«Sei un miserabile!» gridò il re. «Io avevo affidato a te i miei elefanti bianchi, perché ti credevo luomo più atto a coprire quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti. Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Sommona Kodom!»

«Giacché tu, o mio re, mi credi colpevole, uccidimi,» ripeté il disgraziato ministro, senza osar alzare gli sguardi verso il monarca. «Però ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino allultimo tical, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei Shen-mheng, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse.

Che colpa ho io se qualcuno, che non teme la punizione di Sommona Kodom, che sfida la giusta collera del suo re e che si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sugli elefanti bianchi?»

«Credi, con questa stolta accusa, di stornare da te la mia collera?» chiese il re.

«Lakon-tay ti ha mostrato, allorché combatteva contro i Cambogiani e contro i Birmani, come non avesse paura della morte. Perché dovrei temerla ora che non sono più giovane?»

Phra-Bard, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.

«Tu hai un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.

«La morte dei Shen-mheng, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.

«E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui Shen-mheng? Dove trovare nel mio regno un uomo che abbia tanto coraggio da sfidare lira di Sommona Kodom?»

«E se quelluomo fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Lakon-tay, che saggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.

«Uno straniero!» esclamò Phra-Bard, che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.

«Tu sai, o mio signore, che molti tinvidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Sommona Kodom.»

«E i miei Shen-mheng,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca.» Il mio vicino, il re di Birmania, che possiede un solo elefante bianco e già molto vecchio, mi aveva proposto, or non è molto, una somma favolosa perché gli cedessi uno dei miei Shen-mheng

Ma subito dopo, quasi si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un cattivo sorriso:

«No, non può essere possibile, il re di Birmania è buddista al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare la collera di Sommona Kodom, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari del mio. Se ciò fosse avvenuto, Sommona ci avrebbe fatto ritrovare altri elefanti bianchi, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote.

Tu solo sei colpevole di aver causato la morte dei Shen-mheng per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; grandi e popolo ti accusano, e domani chiederanno giustizia.»

«Allora fammi uccidere,» rispose Lakon-tay. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura.»

Phra-Bard, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per lampia sala, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi duna collera violentissima.

Ad un tratto si fermò dinanzi a Lakon-tay, che era rimasto sempre in ginocchio sul primo gradino del trono, dicendogli con voce aspra:

«Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione degli elefanti bianchi, che racchiudevano lanima di Sommona Kodom? Quali tremende sventure piomberanno sul Siam? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri inenarrabili, inondazioni e terremoti; e forse suonerà lultima ora per la mia dinastia.

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