E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri Shen-mheng ed hai irritato il nostro dio.
Levati dalla mia presenza e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i grandi vorranno giustizia e lavranno.»
«Grazia per Len-Pra,» gemette il disgraziato ministro.
«Tua figlia diverrà schiava, a meno che»
«Prosegui, mio signore,» disse Lakon-tay, nei cui sguardi brillò lampo di speranza.
«a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un Shen-mheng.»
«Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore.»
«Tu sei maledetto da Sommona Kodom e la tua vita non vale, oggi, quella del mio ultimo servo. Vattene e attendi a casa tua il mio castigo.»
Ciò detto Phra-Bard, che pareva in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di ebano, incrostate davorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e laperse violentemente.
«Oh mio signore, grazia per Len-Pra,» gridò il disgraziato ministro.
Il re richiuse la porta con fracasso, senza degnarsi di volgersi, e scomparve.
Lakon-tay si alzò in piedi, coi lineamenti sconvolti da un intenso dolore.
«Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore dei Birmani e dei Cambogiani, non ha paura della morte.»
Si diresse verso la gradinata che conduceva ai giardini reali, con passo calmo. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia dinanzi alla porta, che probabilmente non aveva perduto una parola di quel burrascoso colloquio, non gli rese il solito saluto.
Ormai era un uomo caduto in disgrazia, che valeva meno dellultimo paggio di corte.
Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei Shen-mheng.
Feng, il suo fedele paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala, presso il gong sospeso sulla soglia. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.
«Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor elefante bianco è morto dunque?»
«Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»
«E il re?»
Invece di rispondere, Lakon-tay entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé lalto cappello a punta, di stoffa bianca, adorno dun largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste di seta gialla dalle maniche larghissime e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli.
«Che cosa fai, mio signore?» chiese Feng, spaventato.
«Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Lakon-tay, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei Shen-mheng; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame.
Ma Lakon-tay non poserà la testa sotto le larghe zampe dellelefante carnefice e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione.
Il vecchio generale mostrerà a tutti come sa morire un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re.
Maledette insegne del mio grado Che il vento vi disperda.
Feng, dammi unaltra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei Shen-mheng.»
«Mio signore»
«Taci e obbedisci!»
Feng, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa dette pagne, di varie lunghezze e di varie tinte, che i Siamesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe e alle braccia; e dei calzoni larghissimi, nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o dimbuto.
Lakon-tay si vestì frettolosamente, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.
«Mio signore,» gli disse Feng, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»
«No,» rispose seccamente il generale. «Va ad attendermi a casa mia e non dire nulla a Len-Pra.»
Scese una ricchissima gradinata di marmo, percorse un corridoio e aperse una porticina, slanciandosi nella via.
Era uscito dal palazzo reale.
Capitolo III. Len-Pra
Lakon-tay era il vero tipo del siamese, ma non aveva però quel portamento cascante, molle, snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti di quel regno e che produce su noi una pessima impressione.
Era un belluomo, piuttosto alto, ancora vigoroso malgrado i suoi cinquantanni, dal petto ampio e dalle braccia muscolose che indicavano luomo abituato a maneggiare la pesante catana dei comandanti.
Aveva invece, al pari dei suoi compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature rossastre, gli zigomi assai sporgenti, la fronte un po stretta, che terminava in alto quasi a punta al pari del mento, le labbra grosse e rosse. Ma i suoi occhi non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente giallo: erano invece due bellissimi occhi neri, dal lampo vivacissimo e dal taglio perfetto, che anche le dame Siamesi gli avrebbero invidiato.
Lakon-tay si era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore.
Di temperamento ardente e battagliero, era entrato giovanissimo nellesercito, pensando che forse sarebbe stato quello lunico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo padre, un modesto costruttore di velieri, non gli aveva lasciato che una piccola fortuna.
Il giovane, che aveva coraggio da vendere ai suoi compatrioti, i quali hanno invece la brutta fama di essere pusillanimi, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri, poiché il Siam era allora in guerra cogli stati vicini.
A trentanni, dopo aver respinto e battuto sanguinosamente i Peguani che erano tre volte superiori di numero, aveva già ricevuto dal re la prima scatola doro per conservare il betel, distintivo di nobiltà, giacché nel Siam la nobiltà non è ereditaria.
A trentacinque, già generale, dopo aver battuto le truppe birmane che avevano già varcato le frontiere, minacciando dinvadere tutto il Siam, aveva ricevuto la seconda, più grande e più elegante, ed il cerchio doro con fiori cesellati da mettersi sul cappello, che gli conferiva il titolo di oya, ossia di grande personaggio.
Cessate le guerre, il valoroso generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Bangkok, per godersi finalmente un po di tranquillità e crearsi una famiglia prima di diventare troppo vecchio.
Phra-Bard invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua casa prima, poi ministro della corte dei Shen-mheng, la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili Siamesi.
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Lakon-tay, in preda a cupi pensieri, si allontanò dal palazzo reale camminando come un ebbro, cogli occhi socchiusi e la testa china sul petto, seguendo la riva del Menam, le cui acque riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo.
Bangkok è la Venezia delloriente e la principale città del Siam dopo la decadenza di Ajuthia, lantica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Siamesi, i quali, al pari di quelli Birmani, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori.
Bangkok è la Venezia delloriente e la principale città del Siam dopo la decadenza di Ajuthia, lantica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Siamesi, i quali, al pari di quelli Birmani, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori.
Bangkok, quantunque salita agli onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi quaranta chilometri di sviluppo e un milione di abitanti e gode fama di essere opulenta se non inespugnabile, malgrado i suoi nomi fastosi.
Ed infatti Krung-tlepha-mahasi-ayuthaja-mahadilok-rascathani, come la chiamano i Siamesi, che ci tengono ai nomi lunghissimi e che significa «la grande regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile», non potrebbe resistere unora sola al fuoco duna delle nostre moderne corazzate, quantunque, per renderla imprendibile, i Siamesi abbiano bagnato le fondamenta delle sue porte con sangue umano.
Al pari di Venezia, la città sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio principale del Menam.
La città che si estende sulla riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che sinnalza sulla sinistra è veramente magnifica e cinta da mura merlate con torri e bastioni, e vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila abitanti.
È là che sorge il palazzo reale, dinanzi a cui tutti i passanti devono scoprirsi e chiudere lombrello, per non correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da durissime pallottole di terra, che gli arcieri di guardia scagliano con ammirabile maestria.
Ed è pure là che sinnalzano la grandiosa piramide di phrachedi, che lancia la sua cima a oltre cento metri, edificio ammirabile per linee architettoniche e sotto la cui mole si crede siano sepolte le reliquie preziose di Sommona Kodom; i templi grandiosi dei talapoini, dai tetti a tre piani, coperti di lamine doro che brillano ai raggi del sole; la pagoda di vatbaromanivat colle sue magnifiche porte debano ad intarsi di madreperla scolpite e lavorate con unarte che non ha leguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di dorature che sono costate somme favolose; ed è là finalmente che si ammira la pagoda di vat-scetuphon che racchiude una colossale statua di Budda, ossia di Sommona Kodom, tutta coperta doro e dun valore inestimabile.
Lakon-tay, sempre assorto nei suoi pensieri, continuava a seguire la riva del fiume, insensibile alla pittoresca grandiosità di quel superbo corso dacqua, che vince tutti gli altri in bellezza.
Migliaia e migliaia di case galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene di canna dIndia e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento, ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nellinterno si udivano chiacchierii di donna, risate di fanciulli e voci di uomini.
Ondate di fumo sfuggivano dai camini e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case, mentre la fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille strani odori delle cucine Siamesi.
Lakon-tay seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi che ardevano fra una pagoda ed un tumulo gigantesco, una vera montagna di mattoni di forme strane, come se ne ritrovano sovente disegnate sulle lacche giapponesi, e che rappresentano il Fusi-yama, la montagna di fuoco.
Degli uomini seminudi, armati di lunghe picche, saggiravano silenziosamente intorno a quei fuochi, ora apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di fumo denso, mentre dallalto calavano pesantemente stormi di grossi avvoltoi neri, che gracchiavano sinistramente.
Quel luogo era la necropoli di Bangkok; la pagoda era quella di vat-saket; lenorme ammasso di mattoni la Phuk-kao-thong, ossia la montagna doro, e quegli uomini bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata.
Lakon-tay si fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con stupore quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai crematori sui tizzoni ardenti.
Una voce lo trasse da quella contemplazione.
«Padrone, che cosa fai qui?»
Era Feng, il quale da lontano lo aveva seguito, spaventato dallaspetto tetro del generale.
Lakon-tay si voltò senza rispondere.
«Che cosa vieni a fare qui, padrone?» chiese nuovamente il giovane. «Non è qui la tua casa.»
«Non lo so,» rispose Lakon-tay. «Camminavo senza vedere né sapere dove andassi, e mi sono trovato fra questi morti.
Triste presagio. Quegli avvoltoi scarneranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono uomo da sopravvivere alla disgrazia che mi ha colpito. La mia morte calmerà la collera del re e salverà dalla schiavitù mia figlia.»
«Scaccia questi funebri pensieri, mio padrone,» disse Feng, che aveva le lacrime agli occhi. «Forse la tua innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale dolore proverebbe la dolce Len-Pra, se tu morissi.»
«Mia figlia ha nelle vene sangue di guerrieri, perché anche sua madre era figlia dun prode condottiero, e saprà rassegnarsi alla sua sventura.
No, Lakon-tay non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani accusato di aver fatto morire i protettori del regno, i Shen-mheng? Un miserabile, in patria, disprezzato dai grandi e dal popolo, un essere maledetto.»
«Tu che hai salvato il regno dalle invasioni dei Cambogiani e dei Birmani e che hai domato i miei compatrioti? O mio signore!»
«È passato troppo tempo da allora,» rispose Lakon-tay con voce cupa.
«Vieni a casa tua, padrone: Len-Pra, non vedendoti, sarà inquieta.»
Lakon-tay soffocò un gemito e si lasciò condurre da Feng, senza più opporre resistenza.
Risalirono silenziosamente la riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da capanne, bensì da phe elegantissime, quelle graziose palazzine che si specchiano nelle limpide acque del Menam, e che, quantunque esteriormente non offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati bungalow di Calcutta.
Sono piccoli lavori darchitettura puramente siamese, colle travature graziosamente scolpite, con porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate, onde si possa vedere laltare di Sommona Kodom; e sono circondate da una larga e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltrone di bambù e di vasi contenenti arbusti tagliati in forma danimali più o meno fantastici.
Ad un tratto, Feng si arrestò dinanzi a una phe di dimensioni più vaste delle altre, situata proprio sulla riva del fiume, coi muri di legno scolpito, abbelliti da strati di lacca, una vasta veranda che correva in giro, e un giardinetto chiuso da una elegante cancellata di legno dipinto in rosso.
«Ci siamo, padrone,» disse dolcemente a Lakon-tay.
Il generale, che pareva si fosse allora risvegliato da un triste sogno, alzò gli occhi verso la veranda che la luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di porcellana dorati e niellati, entro cui crescevano delle peonie di Cina e delle camelie.
«Ah!»mormorò. «E Len-Pra?»
«Ti aspetterà nella sala da pranzo.»
Con una mossa lenta, quasi automatica, Lakon-tay aperse la porta debano incrostata di madreperla e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, con un globo sottilissimo di porcellana azzurra, che proiettava sulle pareti, tappezzate di seta di Cina dello stesso colore, e sul lucidissimo pavimento di legno di tek, una luce scialba e dolce come quella dellastro notturno.