La città del re lebbroso - Emilio Salgari 5 стр.


Lakon-tay, pallidissimo, coi lineamenti solo un po alterati, dormiva o pareva dormisse profondamente. Il suo respiro però era affannoso e attorno ai suoi occhi cominciava ad apparire un cerchio azzurrastro.

«Che cosa può aver bevuto il mio padrone?» si chiese Feng con angoscia.

Si precipitò verso il tavolino su cui stava ancora la tazza, e un grido gli sfuggì: Aveva scorto la palla di materia brunastra tagliata in due, che Lakon-tay non aveva più ricollocata nel vaso di porcellana.

«Ha bevuto delloppio disciolto nellacqua!» esclamò. «Disgraziato padrone!»

Si precipitò fuori della stanza, attraversò in un lampo la veranda ed entrò come una bomba nel salotto.

Len-Pra, inquieta per i discorsi fatti dal padre, vi era tornata, non essendo riuscita ad addormentarsi. Anchessa aveva udito le grida delluccello notturno e, superstiziosa al pari delle sue compatriote, le era balenato il pensiero che una disgrazia stesse per piombare sulla casa.

Vedendo entrare Feng cogli occhi dilatati dal terrore, il viso sconvolto, ansante, mandò un grido.

«Feng!» esclamò. «Che coshai?»

«Un medico, signora tuo padre suicidato loppio»

«Qui! di fronte! dallo straniero dalla pelle bianca Ah! Padre mio!»

Feng era già nel vestibolo, urtando i servi che accorrevano da tutte le parti perché avevano udito il grido di Len-Pra. Scese a precipizio i gradini e si slanciò nella via.

Di fronte alla phe del generale, salzava unelegante palazzina di legno, col tetto acuminato e le grondaie arcuate, di stile più cinese che siamese, e colla solita veranda.

Feng salì rapidamente i tre gradini, e col manico del coltello, che teneva nella fascia, percosse fragorosamente ed a più riprese il disco di bronzo sospeso sopra la porta, gridando contemporaneamente:

«Aprite, signor uomo bianco! Il mio padrone muore!»

Alla seconda battuta la porta si aperse e comparve un uomo vestito di bianco, con in capo un casco di flanella pure bianca, come usano glinglesi e gli olandesi nelle loro colonie doltremare, e con in mano una lanterna cinese coi vetri di talco.

Era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura piuttosto alta, di forme eleganti ed insieme vigorose, dalla pelle un po abbronzata, cogli occhi nerissimi ed i capelli e la barba pure neri.

«Chi muore?» chiese in buon siamese.

«Il mio signore, Lakon-tay.»

«Il ministro dei Shen-mheng?» esclamò leuropeo con stupore.

«Si è avvelenato, signore.»

«Attendi un istante.»

Leuropeo rientrò nella palazzina, in preda ad una visibile emozione, poi ne uscì di nuovo tenendo in mano una cassetta di legno laccato, contenente probabilmente degli antidoti.

«Presto, precedimi,» disse brevemente.

Attraversarono velocemente la via e salirono nellabitazione del ministro, facendosi largo fra i servi, che gridavano e piangevano sulle scale, strappandosi le vesti e graffiandosi i volti.

«Ordina a questi uomini che stiano zitti,» disse leuropeo allo Stiengo. «Non è colle grida che si guarisce un moribondo.»

Preceduto da Feng, attraversò la veranda ed entrò nella stanza del ministro.

Len-Pra, cogli occhi pieni di lacrime, in preda ad una disperazione straziante, vegliava sola al capezzale di suo padre, sforzandosi, ma invano, di destarlo da quel sonno che a poco a poco lo traeva verso la morte.

Vedendo entrare leuropeo, gli si precipitò incontro, gridandogli con voce singhiozzante:

«Salvatelo, signore, e tutto il tesoro di mio padre sarà vostro.»

Il giovane si limitò a sorridere ed a scoprirsi il capo, figgendo i suoi occhi nerissimi in quelli della graziosa fanciulla. Poi savvicinò al letto e tastò il polso di Lakon-tay.

«Siamo in tempo,» disse. «La morte non sarebbe giunta prima dun paio dore. Non temete, fanciulla, io lo salverò.»

«Fatelo, e tutto vi apparterrà, ed io vi sarò riconoscente finché avrò un soffio di vita.»

Leuropeo per la seconda volta sorrise, dicendo a mezza voce:

«Mi basterà la riconoscenza della bella Len-Pra.»

Savvicinò al tavolo, su cui stavano ancora la tazza e la palla doppio che Lakon-tay aveva tagliato quasi per metà.

«È parna,» disse, «loppio migliore, ma anche il più pericoloso. Bah! Vinceremo la sua potenza mortale.»

Aperse la cassetta, ne estrasse una fiala contenente un liquido color del rubino e versò in una tazza alcune gocce, aggiungendovi poi dellacqua. Il liquido spumeggiò per qualche istante spandendo un odore acuto, poi tornò limpido.

«Ciò basterà per salvare vostro padre, Len-Pra,» disse il giovane medico.

Simpadronì dun coltello colla lama dacciaio e il manico doro che aveva veduto su una mensola, sappressò al letto, aperse a forza i denti del generale e gli versò in bocca la misteriosa miscela.

Tosto un fremito scosse il corpo di Lakon-tay, fremito che durò qualche minuto, e la respirazione, che poco prima era affannosa, divenne quasi subito regolare e tranquilla.

«Salvato?» chiese Len-Pra, alzando sulleuropeo i suoi begli occhi bagnati di lacrime.

«Aspettate un quarto dora o venti minuti, e vostro padre aprirà gli occhi.

Ah! Quegli indiani hanno degli antidoti veramente meravigliosi, che gli Europei, con tutta la loro scienza, non hanno potuto ancora trovare. È stata una vera fortuna, Len-Pra, che abbiate pensato a me. Non so se un altro medico, e specialmente uno dei vostri, avrebbe potuto strappare vostro padre alla morte. La dose doppio era forte, ma»

«Dite, signor dottore.»

«Quale dispiacere può aver spinto vostro padre, ministro potente ed invidiato, favorito del re, valoroso fra i valorosi, a cercare la morte?»

«Non lo so, signore. Era tornato questa sera assai turbato e triste.»

«Che sia morto lultimo Shen-mheng?» disse il medico. «Mi hanno detto che ieri mattina era assai ammalato e che alla corte regnava una profonda preoccupazione.»

«Il Shen-mheng morto!» esclamò Len-Pra facendo un gesto di disperazione.

«Sì morto» mormorò una voce presso di lei.

Lakon-tay aveva aperto gli occhi e si era alzato, appoggiandosi sui gomiti.

Len-Pra gettò un grido di gioia.

«Ah! Padre mio!»

Il generale rimase immobile, cogli occhi dilatati, guardando ora la figlia ed ora lo straniero, certo stupito di trovarsi ancora vivo.

«Padre mio!» gridò nuovamente Len-Pra. «Non rimproverarmi daverti strappato alla morte.»

La fronte del generale, che prima si era aggrottata, si rasserenava.

Gettò ambe le braccia al collo di Len e se la strinse al petto con un moto improvviso, dicendo:

«Perdonami, mia dolce Len, se io avevo cercato fra le braccia della morte di sottrarmi alla disgrazia che piomberà sulla nostra casa, ma al vecchio generale era mancato il coraggio di sfidare il disprezzo della corte e la collera del re.»

«Voi, il più prode guerriero del Siam!» esclamò leuropeo.

Lakon-tay guardò il medico, poi gli tese la mano, dicendo:

«Lo straniero nostro vicino. È a voi che debbo la vita, vero? Grazie per la mia Len, alla quale avete conservato il padre, che era risoluto a morire.»

«Sono ben lieto di avervi salvato, generale,» rispose leuropeo. «I valorosi come voi sono ben rari nel Siam.»

Un mesto sorriso sfiorò le labbra di Lakon-tay.

«Un dimenticato, ormai,» disse con voce triste, «e forsanche un maledetto dai grandi e dal popolo, i quali mi accuseranno di essere stato io lautore della morte dei Shen-mheng, i protettori del regno.»

«Il quale regno potrà prosperare anche senza gli elefanti più o meno bianchi,» rispose leuropeo. «Credetelo, generale, sono vecchie superstizioni che un giorno spariranno anche dal Siam.»

«Forse avete ragione,» disse Lakon-tay, «ma nessuno potrà persuadere né i grandi né il popolo e nemmeno i talapoini.»

«Ecco un uomo moderno,» disse il dottore, sorridendo. «Per noi europei, perdonerete se parlo franco, gli elefanti, di qualunque colore siano, sono tutti animali né superiori né inferiori agli altri.»

«E voi, europei, ne sapete ben più di noi,» disse il generale.

«Condividete dunque la mia opinione?»

«Come uomo, sì, come siamese, no. Dovrei rinnegare la mia religione e le credenze dei miei avi.»

«E noi crediamo in Sommona Kodom,» mormorò Len-Pra.

«Avete veduto il re?» chiese leuropeo.

«Ieri sera, dopo la morte dellultimo Shen-mheng

«Sapete, generale, che mi sembra per lo meno strana la morte di quei sette elefanti in così breve tempo?»

Lakon-tay fissò sulleuropeo uno sguardo riconoscente.

«Anche voi sospettate che quella morte non sia naturale?» chiese.

«Sì, generale. Avete qualche nemico potente alla corte?»

«Tutti ne hanno: linvidia ne fa sorgere dovunque.»

«Qualcuno che aspirasse al vostro posto?»

«Ve nè più duno, ma io non credo che costoro abbiano osato sfidare lira di Sommona Kodom.»

«Comunque, un sospetto voi lavete.»

«Sì,» rispose il generale.

«Frugate bene nella vostra memoria: quel nemico può venire a galla.»

«Ah!»

«Lavete trovato?»

«Len-Pra,» disse il generale, «lasciaci soli. La confidenza che devo fare a questo europeo deve essere, per ora, ignorata da te.»

La fanciulla tese la sua piccola mano verso il medico, che gliela strinse sorridendo, e uscì, dicendo: «La mia riconoscenza, finché avrò un soffio di vita.»

«Parlate adagio, non stancatevi,» disse leuropeo, volgendosi verso il generale. «Siete ancora un po debole.»

«Non provo che un po di sonnolenza.»

«Non ritenterete la prova, spero.»

«No, ve lo prometto, perché ora ho un desiderio terribile di vendicarmi dei nemici che hanno giurato la mia perdita.»

«Parlate.»

«Le vostre domande mi hanno fatto nascere un sospetto, che prima non mi era mai balenato nel cervello. Sì nella morte degli elefanti bianchi deve esserci entrata la mano di Mien-Ming.»

«Chi è costui?»

«Un Cambogiano che dal nulla è riuscito a diventare, non so per quali male arti, puram, ed a guadagnarsi il favore del re.»

«Un avventuriero?»

«Che era stato prima ai servigi del re di Birmania, un uomo falso, doppio, capace di commettere qualsiasi delitto, assetato dambizione e tuttavia temuto, perché è protetto dal re.»

«Aveva qualche motivo per tentare la vostra perdita?»

«Sì, quello di vendicarsi davergli io negato la mano di Len-Pra.»

«Ve laveva chiesta?»

«Tre mesi or sono.»

«Ed ecco che un mese dopo il primo Shen-mheng moriva,» disse leuropeo, che era diventato pensieroso. «Non avete però alcuna prova che possa essere stato lui.»

«Nessuna e poi, anche avendone qualcuna, nemmeno io avrei potuto lottare contro un uomo così potente.»

«È buddista?»

«Io credo che sia un adoratore di Fo o di Confucio, come la maggior parte dei Cambogiani.»

«Ecco una preziosa informazione,» disse leuropeo. «Un confuciano può ridersene di Sommona Kodom, a cui non crede. Deve però aver avuto dei complici.»

«Certo, signore, fra i paggi, i servi od i mahut dei Shen-mheng

«Sono amico di alcuni grandi della corte,» disse leuropeo, alzandosi. «Spero di ottenere il permesso di visitare lelefante bianco che è morto ora. Conosco bene i veleni io: vedremo.»

«Lalba sta per spuntare e voi siete ormai fuori pericolo.»

«Come potrò ricompensarvi per avermi conservato alla mia dolce Len?» chiese il generale con voce commossa.

«Accettandomi come vostro alleato, per combattere i vostri misteriosi nemici,» rispose leuropeo. «Gli italiani amano la lotta e qui vi sarà ben da lottare, generale. Un valoroso come voi non deve cadere così sotto i colpi dun avventuriero.

Daremo battaglia, mio generale, e spero che vinceremo e che smaschereremo quelluomo, se potremo provare che sia realmente colpevole.

Ci rivedremo più tardi, dopo il mezzodì.»

Capitolo V. Il puram del re

Lultimo dei Shen-mheng era appena spirato e Lakon-tay era appena uscito per recare al re la triste notizia, quando un uomo, approfittando della commozione generale che regnava nella sala degli elefanti, usciva inosservato per una porticina che metteva dietro le mura della cinta reale.

Quelluomo era uno dei servi incaricati di vegliare lultimo Shen-mheng, e che nel momento in cui Lakon-tay manifestava al mahut favorito i suoi sospetti, si era trovato così vicino a loro da non perdere una sola parola.

Camminava rapidamente lungo la cinta, guardandosi di frequente alle spalle, come se temesse di essere seguito da qualcuno, e pareva in preda ad un profondo orgasmo.

I suoi occhi obliqui, che tradivano in lui un Cambogiano, scrutavano i viali, e la sua pelle giallastra diventava livida al minimo rumore.

Giunto presso una delle tante porte della cinta, trasse dalla sua larga fascia una chiave e laperse con precauzione.

Al di fuori un giovane dalla pelle scurissima pareva lo attendesse, tenendo per la briglia uno di quei piccoli e ardenti cavalli del paese, bardati allorientale, con staffe corte e larghe e gualdrappa rossa e infioccata, trapunta in oro.

«È in casa il tuo padrone?» chiese il servo con precipitazione.

«Sì, e ti attende,» rispose il giovane.

Con un salto il servo fu in sella e raccolse le briglie, dicendo:

«Lascia andare».

Il cavallo, sentendosi libero, partì di carriera, sollevando un nembo di polvere.

Luomo seguì per qualche chilometro la cinta del palazzo reale, poi si slanciò fra le tortuose e fangose vie della vecchia città, atterrando tre o quattro passanti che non avevano avuto il tempo di evitarlo, finché sbucò sul gran viale costeggiante il Menam, fiancheggiato da bellissime phe colle verande illuminate da enormi lanterne cinesi, di carta oliata variopinta o coi vetri di talco.

Il Cambogiano lo lasciò galoppare per alcune centinaia di metri, poi con una violenta strappata lo arrestò dinanzi ad una phe grandiosa, darchitettura cinese, coi tetti arcuati ed irti di punte e di comignoletti scintillanti doro.

Alcuni servi, sfarzosamente vestiti di seta gialla a fiorami di vari colori, stavano chiacchierando e masticando del betel sulla gradinata marmorea della palazzina.

«Il vostro padrone?» chiese il Cambogiano, balzando a terra con unagilità da cavallerizzo perfetto.

«È nel suo gabinetto,» rispose un valletto.

«Solo?»

«Solo: devo annunziarti?»

«Non occorre: ho troppa premura.»

Entrò, salendo una gradinata di legno di tek, coperta da tappeti di feltro variopinti e colle ringhiere di metallo dorato e, senza nemmeno bussare, aperse una porta di ebano con laminette dargento.

In un elegante salotto, tappezzato tutto in seta cinese ricamata in rosso, un uomo stava sopra un immenso cuscino, fumando una pipa formata da una conchiglia, dal cui camino si sprigionavano nuvolette di fumo oleoso e punto profumato.

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