«Ah!»mormorò. «E Len-Pra?»
«Ti aspetterà nella sala da pranzo.»
Con una mossa lenta, quasi automatica, Lakon-tay aperse la porta debano incrostata di madreperla e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, con un globo sottilissimo di porcellana azzurra, che proiettava sulle pareti, tappezzate di seta di Cina dello stesso colore, e sul lucidissimo pavimento di legno di tek, una luce scialba e dolce come quella dellastro notturno.
Vi erano pochi mobili, tutti di fattura squisita. Una tavola debano già apparecchiata, con tondi e vassoi dargento cesellato, delle sedie di bambù dalla spalliera assai inclinata e duna leggerezza straordinaria, delle mensole sostenenti vasi della Cina e del Giappone, pieni di peonie color fuoco, dei tavolini laccati ed incrostati di madreperla, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse dei profumi o degli unguenti meravigliosi, di pallottole davorio traforato e di piccole statue di bronzo e doro raffiguranti Sommona Kodom.
«Dovè Len-Pra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona.
Una voce armoniosa, dolcissima, si fece subito udire dietro le tende di seta che si gonfiavano sotto i soffi profumati dellaria notturna, poi una fanciulla entrò, muovendo rapidamente verso il generale.
Era Len-Pra.
La figlia del vincitore dei Birmani e dei Cambogiani aveva una figurina graziosa, sottile come un giunco, squisitamente modellata; una bella testolina, un viso dai lineamenti perfino troppo regolari per una indocinese, un profilo quasi caucasico, una boccuccia perfetta, occhi nerissimi e lampeggianti come quelli di suo padre, leggermente obliqui.
La bella capigliatura, nera e abbondante, le cadeva in pittoresco disordine sulla larga veste di seta azzurra a ricami doro; la pelle, quasi mai esposta al sole, era appena abbronzata, con sfumature che ricordavano certi riflessi dellalba; aveva le braccia nude e adorne di ricchissimi braccialetti, e i piedi racchiusi in babbucce di seta gialla con ricami di perle, così piccoli da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne Cinesi.
Vedendo suo padre così accasciato, quasi interamente abbandonato sulla poltrona, col viso cupo e lo sguardo semispento, Len-Pra mandò un grido.
«Che coshai, padre mio?» gli chiese.
«Nulla, fanciulla mia,» rispose il disgraziato generale, risollevandosi con uno sforzo supremo. «Sono semplicemente preoccupato per la malattia del Shen-mheng.»
«Tu stai male e sei oppresso da qualche cosa di più grave duna preoccupazione,» disse la giovane.
«No, non è nulla.»
«È dunque gravemente ammalato anche lultimo dei Shen-mheng?» chiese Len-Pra impallidendo.
«È un po triste, tuttavia noi lo salveremo.»
«Se dovesse morire?»
«Non vi è alcun pericolo per ora. Fa portare la cena, e siedi presso di me, mia piccola Len-Pra. Desidero ritirarmi presto questa sera. Domani questa stanchezza sarà scomparsa.»
La fanciulla percosse con un martelletto debano un piccolo gong sospeso sotto la lampada, e poco dopo entrarono due giovani valletti portando, su dei grandi vassoi dargento, parecchi tondi pieni di vivande fumanti, di frutta e di tuberi di varie specie.
Il popolo siamese passa per uno dei più frugali della terra e anche per il meno esigente, quantunque, in quel regno fortunato, i viveri costino una vera miseria, così poco anzi che per un fund, ossia per circa cento lire, si possono comperare, su qualunque mercato, tre polli!
Il popolo si nutre ordinariamente al pari del cinese di riso, condito con un miscuglio puzzolente che somiglia, in peggio, al curry indiano, composto di gamberetti di mare lasciati prima putrefare e di parecchie erbe e droghe fortissime. Non sdegna però, specialmente il popolo campagnolo, i topi, le lucertole, le locuste, i vermi di terra. In ciò è eguale, per gusto, al cinese.
I ricchi preferiscono invece i pesci freschi o salati che si vendono in quantità prodigiose sul mercato galleggiante di Bangkok, gli steli di bambù, i fagiolini ricciuti, conditi con olio di cocco, che se fresco, ha un sapore gradevolissimo, degno dei migliori olii della Riviera genovese e della Provenza; raramente invece mangiano polli e quasi mai carni danimali, perché la loro religione proibisce di ucciderli, quantunque permetta loro di mangiarne se uccisi da altri che non siano Buddisti.
Lakon-tay, che voleva nascondere le sue angosce e anche il triste disegno che meditava, si mise ad assaggiare le vivande portate, inaffiandole abbondantemente con tazze colme di trau, un liquore distillato dal riso, mescolato a calce ed a sciroppo di canna da zucchero, che i Siamesi pretendono sia atto a riparare le energie fisiche estenuate dalla continua traspirazione.
Il disgraziato cercava di stordirsi e di acquistare unallegria fittizia.
Terminato il pasto, si fece portare la scatola doro regalatagli dal re, piena di noci di areche e di betel con un po di calce, e si mise a masticare lentamente quel miscuglio piccante, che annerisce i denti e che fa sputar saliva color del sangue, mentre Len-Pra preparava il tè, versandolo in microscopiche chicchere di porcellana cinese, sulle quali era dipinto, nello stile nazionale, il cielo degli Indù colle falangi dei thevada.
«Mia dolce Len,» disse ad un tratto il generale, che da alcuni minuti era ricaduto nei suoi tristi pensieri. «Tu hai compiuto già da tre settimane i tuoi quindici anni, mentre io sono vecchio, e mi potrebbe da un momento allaltro toccare qualche disgrazia.»
«Che cosa dici, padre mio? Quali neri pensieri turbano questa sera il tuo cervello?»
«Nessuno,» rispose il generale, soffocando un sospiro. «Prendo precauzioni, in vista di certi avvenimenti che potrebbero verificarsi.»
«Tu mi spaventi, padre.»
«No, Len-Pra.»
«Che cosa vuoi concludere allora?»
«Che alla tua età devi sapere dove si trovano le ricchezze che un giorno ti dovranno spettare in eredità.
Allestremità del nostro giardino, in un forziere che io ho immerso nella vasca, si trovano rinchiuse tutte le gioie della famiglia e le verghe doro che ho accumulato in tanti anni di economia.
Vi è là dentro tanto da farti ricca, giacché, nei saccheggi delle città cambogiane e birmane, mi è toccata come mia parte una fortuna considerevole.
Nessuno sa che le mie ricchezze si trovino immerse in quel bacino, che è guardato dai due gaviali onde garantirle dai ladri. Ecco quello che volevo dirti.»
«Potevi dirmelo un altro giorno, o fra parecchi anni, padre,» disse Len-Pra. «Tu sei ancora robusto e nessuna malattia ti minaccia.»
«È vero, ma per precauzione ho preferito dirtelo questa sera.»
Si alzò, voltando le spalle alla lampada per nascondere la profonda emozione che gli alterava il viso, e si diresse verso un angolo della stanza, dove stava un gran bacino dargento pieno dacqua, con entro un altro bacino di rame sottilissimo, già quasi tutto sommerso.
Era un orologio ad acqua, usato anche oggi dai Siamesi. Nel secondo bacino, più piccolo del primo e leggerissimo, vi è un buco quasi invisibile che permette allacqua di entrare a poco a poco finché lo fa colare a picco.
«Unaltra ora è passata,» disse, mentre il bacino simmergeva.
In lontananza, i gong del palazzo reale echeggiavano rumorosamente, invitando gli abitanti a spegnere i lumi ed a coricarsi.
«È tardi,» disse Lakon-tay con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va a coricarti mia dolce Len.»
«È tardi,» disse Lakon-tay con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va a coricarti mia dolce Len.»
Saccostò alla fanciulla, che lo guardava con una profonda mestizia, la fissò un momento, poi le depose un bacio sulla fronte.
«Va, fanciulla,» le disse. «Avrò ancora da fare un po prima di coricarmi.»
Mentre Len-Pra si ritirava nella sua stanza, Lakon-tay uscì sulla veranda, aspirando avidamente laria fresca della notte, carica di profumi deliziosi.
Il Menam, illuminato dalla luna salita ormai in cielo, svolgeva la sua immensa curva, scintillante come se le sue acque fossero dargento, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti e mormorando dolcemente, in un incessante scricchiolio di zattere e di barche che si alzavano per la marea montante.
I lumi delle case acquatiche a poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri morivano sulla superficie dellimmenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i dolcissimi suoni dun tro.
La città saddormentava a poco a poco, mentre la luna saliva sempre fra miriadi di stelle scintillanti in un cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati delle pagode e le punte ardite delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i campanelluzzi delle phra-chedi e tremolare le immense foglie dei cocchi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.
Lakon-tay, appoggiato alla ricca balaustrata della veranda, laccata e dorata, teneva gli sguardi fissi su un punto lontano, dove si vedevano talora brillare dei fuochi ed innalzare nubi nerissime. Guardava verso la necropoli.
«Domani anche il mio corpo sarà là,» disse. «No, Lakon-tay non deve sopravvivere alla sua disgrazia. Siano maledetti i vili che hanno uccisi i Shen-mheng! Che la maledizione di Sommona Kodom li perseguiti in questa e nellaltra vita. Len-Pra mi perdonerà di averla privata del padre e comprenderà che la mia morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che lattende.»
Un grido che echeggiò in quellistante proprio sopra il tetto della casa lo fece trasalire.
«Luccello della notte si è posato sulla mia phe,» disse con un triste sorriso. «Forse lanima di mia moglie. Sì, vengo a raggiungerti.»
Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.
Capitolo IV. Il dottore bianco
La stanza del generale era ampia e arredata con molto buon gusto, quantunque predominasse in tutti i mobili lo stile cinese piuttosto che il siamese.
Le pareti erano coperte di quella meravigliosa carta di seta, con fiori, uccelli, lune e draghi, così cara ai Cinesi; il soffitto era tutto scolpito e dorato, il pavimento di porcellana a disegni stravaganti, che raffiguravano animali fantastici. Alle finestre ricche tende di seta verde cupe, nel mezzo un ampio letto di forme massicce, con coperte di seta e una zanzariera poi qua e là, negli angoli e lungo le pareti, divanetti, mobili leggerissimi laccati ed incrostati davorio e dargento, poi vasi giapponesi e Cinesi, e vasi Siamesi doro, meravigliosamente cesellati; e di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Sommona Kodom.
Appesi alle pareti, disposti con un disordine pittoresco, si vedevano tondi istoriati di antichissima porcellana, armi di varie specie, e drappi preziosi tempestati di rubini, che ricordavano nei loro disegni e nelle loro tinte gli splendidi tessuti dei Birmani.
Lakon-tay, appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola dargento, si vedeva una larga spada dalla lama diritta a due tagli, colla guardia piccolissima, specie di enorme rasoio. Era la sua catana di guerra, unarma di fabbrica giapponese, taglientissima, già tinta e ritinta un tempo nel sangue dei Birmani e dei Cambogiani.
La impugnò con mano ferma e la guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada azzurra che ardeva proprio sopra il letto; poi, senza che un muscolo del suo viso trasalisse, se laccostò alla gola.
Ad un tratto però abbassò larma, poi la gettò su uno dei divanetti.
«No,» disse. «Il sangue farebbe troppa impressione alla dolce Len-Pra.»
Stette un momento irresoluto, poi si diresse verso un tavolino giapponese, su cui stavano parecchi vasi di porcellana, delle tazze e delle caraffe piene dacqua e di liquori.
«La morte mi coglierà nel sonno,» mormorò.
Aprì uno di quei vasetti e ne tolse una palla di colore brunastro, grossa come una piccola noce di cocco, che tagliò a metà con un coltello dal manico doro. Levò dallinterno, che era un po molle, un pezzetto che gettò in una tazza già piena dacqua.
Mescolò per alcuni minuti finché quel pezzetto di pasta fu sciolto, alzò la tazza e la vuotò dun fiato.
Poi attraversò la stanza, sempre calmo, sempre impassibile, e si adagiò sul letto, mormorando: «Addio, mia dolce Len-Pra. Possa la mia morte placare la collera del re e salvarti dalla schiavitù.»
Un tremito scosse il suo corpo.
«Ecco il sonno eterno che si avanza,» mormorò ancora.
E chiuse le palpebre divenute pesantissime, mentre sulla veranda luccello della notte faceva echeggiare per tre volte di seguito il suo funebre grido.
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Feng, il paggio affezionato, che nutriva verso il generale una devozione senza limiti, aveva intuito che Lakon-tay maturava nel suo cervello, eccitato dalla disgrazia che ormai stava per coglierlo, un triste disegno.
Già, nel Siam, il suicidio è cosa comune quanto nel Giappone. Un alto personaggio che cade in disgrazia, difficilmente osa affrontare la derisione dei personaggi che un giorno gli furono inferiori, e non sa rassegnarsi alla caduta.
Preferiscono suicidarsi, perché fra i Siamesi, cosa davvero inesplicabile per un popolo che si fa un dovere di non uccidere lanimale più nocivo e di non schiacciare il più vile insetto, il suicidio è considerato come un trionfo ed una sublime virtù.
Anzi colui che si impicca è perfino creduto degno di pubbliche lodi, chissà per quali strane e vecchie costumanze, e si decreta al suo cadavere unapoteosi.
Feng, che era stato raccolto ancora fanciullo sui confini del Laos, in un villaggio di selvaggi Stienghi devastato dalla guerra, conosceva ormai da troppo tempo il suo padrone per non indovinarne i pensieri. Il suo istinto duomo selvaggio laveva avvertito che una ben più grave disgrazia stava per piombare sulla casa e colpire soprattutto la dolce Len-Pra.
Quindi, appena terminata la cena, si era celato fra i vasi di peonie che abbellivano la veranda, deciso a impedire al padrone di sopprimersi.
Laveva veduto soffermarsi sulla terrazza, aveva udito le sue parole, aveva udito pure il funebre grido delluccello della notte che presagiva una imminente disgrazia.
Non osando però seguirlo appena era entrato nella stanza, non aveva avuto il tempo di vederlo prendere la catana; era giunto invece dinanzi ai vetri della porta quando il generale stava vuotando la tazza.
Dapprima credette che avesse trangugiato un bicchiere dacqua o di trau, ma vedendolo poco dopo sdraiarsi sul letto e rimanere immobile, come fulminato, il sospetto che avesse bevuto qualche veleno gli balenò istantaneamente nel cervello.
Risoluto a strapparlo a qualunque costo alla morte, il bravo giovane, in preda ad un profondo turbamento, spinse poderosamente la porta, la quale, non essendo stata chiusa internamente, cedette al primo urto. In due salti fu presso il letto.
Lakon-tay, pallidissimo, coi lineamenti solo un po alterati, dormiva o pareva dormisse profondamente. Il suo respiro però era affannoso e attorno ai suoi occhi cominciava ad apparire un cerchio azzurrastro.