La favorita del Mahdi - Emilio Salgari 2 стр.


Infatti quella stupenda donna era unalmea araba. Le almee, sono danzatrici e cantanti sparse per lEgitto e pel Sudan, che per la loro coltura e studiata grazia si considerano come il fiore delle donne egiziane. Esse conoscono le regole della poesia e sanno improvvisare e comporre canzonette e balli a seconda delle circostanze e prendono parte a tutte le adunanze di giocondità e a tutti i festini in cui esse sono sempre il principale ornamento. Formano la delizia delle giovani donne degli harem, alle quali insegnano tutte le moal o elegie che sanno, raccontano storie galanti o danno lezioni di ballo; assistono alle pompe matrimoniali precedendo il corteggio della sposa e seguono persino i funerali cantando moal lamentevoli, piangendo e dimostrando un tal dolore che qualcuno potrebbe credere che facciano ciò da senno e di cuore anzichè indotte dal prezzo della mercede.

Lalmea, entrata nel caffè, dopo di aver salutato gli astanti con un sorriso affascinante e daver dispensato baci colla punta delle sue manine, savvolse in un azzurro velo.

Quasi subito entrò un giovane schiavo munito di un cembalo. Egli si assise in un canto e, dopo di aver suonato per qualche minuto, gridò:

Nahbè ia (ecco lape!).

Lalmea che aveva di già cominciato a danzare con brevi passi e flessuosi molleggiamenti sui fianchi facendo ondeggiare graziosamente il velo e tintinnare i cerchietti doro delle braccia, a quel grido si era subitamente arrestata, guardandosi attorno con profondo terrore.

Ah! esclamò Notis. Eseguisce la danza dellape. Sta attento, Abd-el-Kerim, che merita di essere veduta.

Larabo non lo udì nemmeno. Colla testa stretta fra le mani e i gomiti appoggiati sul tavolo, egli fissava lalmea con due occhi fiammeggianti. La sua faccia era visibilmente alterata, le sue labbra di quando in quando fremevano e grosse gocce di sudore scorrevangli sullampia fronte. Non respirava quasi più; lo si avrebbe detto pietrificato.

Lalmea sera messa allora ad agitare le braccia come cercasse di respingere lape che voleva punzecchiarla, atteggiando il suo superbo volto ad una grande angoscia, ed agitava il leggero velo azzurro con una varietà di movenze voluttuose. Talvolta si soffermava come spossata e i suoi occhi, che scintillavano dun fuoco strano, selvaggio, si portavano su Abd-el-Kerim, il quale trasaliva come gli penetrassero in fondo allanima.

La lotta contro la supposta ape durò per un buon quarto dora animata dallincessante suono del cembalo, poi lalmea sarrestò angosciata e smarrita, gettando un grido acuto di dolore. Lape apparentemente le era penetrata fra le vesti e le faceva sentire lacuto suo pungiglione.

Essa cercò di liberarsene, poi con movenze agili, vertiginose si mise a rigirare su sè stessa, abbandonandosi spossata fra le braccia dello schiavo.

Gli astanti scoppiarono in un grande applauso.

Ira di Dio! esclamò il greco, battendo fortemente il pugno sul tavolo. Non ho mai visto una donna simile! È superba come un urì!

Abd-el-Kerim rialzò il capo, le sue mani si raggrinzarono rigando colle unghie la pelle dellangareb e lanciò una torva occhiata sul greco.

Lui! mormorò.

Lalmea si era avvicinata a loro tendendo le mani. Abd-el-Kerim trasse una manata di piastre e gliele porse. Il sorriso che ne ebbe lo sconvolse.

Notis li guardò entrambi con sorpresa e sentì una ondata di sangue montargli alla testa nel sorprendere lo sguardo che si scambiarono e al sospetto che gli balenò in mente.

Come ti chiami bellalmea? chiese egli sardonicamente.

Fathma, rispose con nobile alterigia, la danzatrice.

Tu sei bella! esclamò Oòseir, alzandosi. Tanto bella che io voglio posare le mie labbra sulle tue.

Lalmea si trasse indietro. I suoi occhi sinfiammarono per lira e lo sdegno.

Non toccarmi, dissella con tono di minaccia. Vi sono pugnali capaci di forare il petto anche a un basci-bozuk.

Volse bruscamente le spalle ed uscì dal caffè seguita dallo schiavo. Oòseir fe atto di slanciarsi dietro a lei, ma due mani di ferro lo curvarono sullangareb.

Non muoverti, gli disse Abd-el-Kerim gravemente.

Che ti salta in capo? chiese il basci-bozuk irritato.

Non muoverti, ti ripeto.

È forse la tua amante?

Il greco si levò coi capelli irti, guardando fissamente larabo.

Tua amante! esclamò con voce strozzata. Ed Elenka? E mia sorella?

Non aver paura, Notis, disse Abd-el-Kerim, pacatamente. È la prima volta che io vedo quella donna e sono incapace di tradire la mia fidanzata.

Posso crederti?

Lo devi credere.

E allora, che importa a te se io voglio baciarla? chiese Oòseir.

Larabo si tacque, non sapendo certamente che cosa rispondere.

Hai forse paura che quellalmea mi pugnali.

Ne sarebbe capace, disse un sennarese, che fumava lì vicino.

La conosci tu? chiese Notis, con vivacità. Dove abita?

Non so chi sia. È giunta a Machmudiech due giorni fa e si è subito fatta temere. Un barcaiuolo che voleva abbracciarla fu da essa pugnalato e precipitato nel Bahr-el-Abiad.

È una jena questalmea?

Forse peggio, rispose il sennarese.

E dove credi che sia andata ora? domandò Oòseir.

Ho veduto di fuori il suo cammello. Deve essere partita in direzione di Hossanieh, giacchè parlava di volersi recare al campo egiziano.

Abd-el-Kerim che aveva prestato molta attenzione a quelle risposte, si levò in piedi come spinto da una molla.

È notte dissegli, con voce leggermente alterata.

E che importa! esclamò Oòseir.

Abbiamo da percorrere molta via prima di giungere a Hossanieh.

Non avete dei mahari?

I mahari non impediscono alle fiere di uscire dai loro covi. Andiamo, Notis, andiamo.

Hai ragione, Abd-el-Kerim, rispose il greco alzandosi.

Gettarono una manata di parà al wadgi, cinsero le scimitarre che avevano deposte in un angolo e strinsero la mano al basci-bozuk.

Addio, Oòseir, disse larabo.

Buona fortuna, amici miei, rispose il basci-bozuk. Che Allàh e il Profeta tengano lontani i leoni e le iene.

Arabo e greco salutarono gli astanti e uscirono dal caffè.

CAPITOLO II. Lalmea

Le tenebre allora erano calate. Al nord, sulla cima delle creste del monte Auli, appariva la luna la quale vedevasi spandere un incerto chiarore al di sopra delle oscure boscaglie del Gemanje, e in cielo salivano le stelle che riflettevansi vagamente sullazzurra e placida corrente del Bahr-el-Abiad. Alcuni Sennaresi ed alcuni Arabi gironzavano ancora o sedevano in mezzo alle vie o a ridosso ai muricciuoli delle capanne, fumando nel scibouk o nei narghilèh.

I due ufficiali scesero verso la riva presso la quale galeggiava una dahabiad a sei remi montata da alcuni barcaiuoli. Vi entrarono e si fecero traghettare alla sponda opposta, sbarcando ai piedi delle foreste, i cui rami giganteschi e fronzuti si curvavano graziosamente sulle acque.

Dove sono i cammelli? chiese Notis.

A cinquecento passi da qui, rispose Abd-el-Kerim, distrattamente.

Hai preso con te il mio schiavo Takir?

No, lho lasciato al campo onde preparasse la tua tenda.

Allora chi li guarda? Se tu gli hai lasciati soli non so se li troveremo ancora. Gli Arabi, amico mio, non sono fiori di galantuomini.

Non aver timori, Notis. Gli ho affidati ad un sudanese di mia conoscenza.

Sarrampicarono sulla riva che veniva giù quasi a picco, tutta cosparsa di canneti e di enormi radici che sintrecciavano confusamente le une colle altre e sinternarono sotto le oscure vôlte della foresta. Notis prese un sentieruzzo appena appena visibile, ed Abd-el-Kerim gli si mise dietro in silenzio e colla fronte aggrottata, come se un grave pensiero lo tormentasse.

Quanto il greco procedeva con passo spedito, altrettanto larabo camminava lento e come svogliato. Anzi questultimo di tratto in tratto si fermava, voltavasi indietro e mirava con occhio triste e cupo le rive del fiume e i dintorni, tendendo attentamente lorecchio.

Dopo una ventina di minuti, il greco scorse, semituffato fra le piante, una zeribak, specie di recinto formato da pali nei quali si radunano usualmente gli armenti per proteggerli contro gli assalti delle bestie feroci. Egli si arrestò, armando per precauzione il suo revolver.

Olà, Abd-el-Kerim, dove siamo noi? chiese egli.

Larabo che era lontano, non ludì e per conseguenza non rispose. Notis si volse indietro e lo vide fermo in mezzo al sentiero che guardava fissamente le rive del Bahr-el-Abiad.

Che può avere Abd-el-Kerim? mormorò egli. Poco fa, quando gli parlai di mia sorella era diventato gaio e pareva felice. Come ora è diventato triste? Si direbbe che ha lasciato qualche cosa a Machmudiech si direbbe che sallontana a malincuore.

Egli tornò indietro in punta di piedi e osservò minutamente il compagno. Saccorse che aveva gli occhi rivolti al villaggio e precisamente verso il caffè. Fece un gesto di sorpresa e forsanco dimpazienza.

Oh! esclamò egli.

Uno strano lampo guizzò nei suoi neri occhi. Quasi nel medesimo istante Abd el-Kerim si volse. La sua faccia si alterò, atteggiandosi a meraviglia e a dispetto.

Che vuoi, Notis? chiese egli colla maggior calma del mondo.

Ho veduto una zeribak, rispose il greco con egual tranquillità.

Non temere, che è quella del sudanese. Là vi sono i nostri mahari.

Notis non si mosse; aspettò che egli fosse vicino, poi gli chiese bruscamente.

Che hai Abd-el-Kerim?

Larabo lo guardò come cercasse leggergli negli occhi lo scopo di quella domanda.

Tu guardavi fisso fisso Machmudiech, continuò Notis quasi distrattamente. Perchè?

Bah! per curiosità.

Ti dispiacerebbe per caso allontanarti da quel villaggio?

Perchè, e larabo lo guardò ancor più attentamente e con sospetto.

Non so, mi pareva

Non ho alcuna cosa che minteressi a Machmudiech. Tiriamo innanzi, Notis, che è tardi. Dobbiamo fare più di 40 miglia per giungere a Hossanieh.

Essi si rimisero in cammino e giunsero vicini alla zeribak, in mezzo alla quale vedevansi sorgere due lunghe aste sostenenti uno stracciato vessillo egiziano.

Al primo fischio che mandò Abd-el-Kerim, un sudanese uscì, abbigliato con una semplice farda bianca gettata graziosamente su di una spalla e dun tarabisc rosso sul capo.

I mahari? chiese brevemente lufficiale.

Sono pronti.

Entrarono nella zeribak, in mezzo alla quale stavano inginocchiati i due animali. Questi mahari o hadjin, meglio conosciuti per dromedari, sono cammelli riservati per le corse, docili come cani, più intelligenti dei cavalli, più sobri e più pazienti dei djemel o cammelli comuni, dal portamento nobile, altero, e che alla menoma pressione della guida legata allanello incastrato nelle nari, vanno rapidi come il vento percorrendo persino settanta miglia al giorno. Saccontentano di un nulla, dun pezzo di pane, dun pugno dorzo o di datteri o di un fastello derbe secche e spinose, e son felici quando larabo lascia a loro aspirare il fumo del scibouk prima che passi dalla cannuccia e doppiamente felici duna parola affettuosa, duna semplice carezza.

Il sudanese li aveva già insellati, accomodando sulla loro gobba una sella di pelle di montone cava nel mezzo e fornita dinanzi e di dietro di un pezzo di legno rotondo, posto orizzontalmente, che serve di appoggio al cavaliere, e appendendo ai loro fianchi i fucili remingtons, le borse di cuoio e le otri contenenti il cibo o lacqua, viveri indispensabili in Africa, dove le città sono rarissime e i villaggi assai scarsi.

Nel mentre che il greco esaminava le cinghie della sua cavalcatura, Abd-el-Kerim con un cenno impercettibile chiamava a sè il sudanese,

Hai veduto passare alcuno? chiese rapidamente e sotto voce.

Sì, disse il sudanese.

Chi?

Due persone su di un mahari dal mantello fosco.

Erano?

Lignoro, ma una pareami una donna.

Abd-el-Kerim sussultò. La sua faccia, che poco prima era tetra, silluminò di un raggio di gioia. Con un gesto congedò il sudanese.

In sella Notis, dissegli.

I due ufficiali fecero inginocchiare i mahari emettendo un semplice khh! khh! sospirato e sarrampicarono sulle gobbe sedendosi colle gambe incrociate.

Allàh vi guardi, disse il sudanese,

Ih! ih! gridò Notis.

I due mahari, obbedienti al segnale, uscirono dalla zeribak e partirono seguendo il sentiero che menava allovest, prendendo un lungo trotto, alzando e abbassando bruscamente la testa e la coda, andatura assai malagevole per chi non vi è abituato, il quale crede sempre di perdere lequilibrio e per le continue e violenti scosse prova forti dolori al capo, dolori alle mani che si gonfiano e dolori alle reni che si pestano e pare che si spezzino.

Loscurità allora erasi fatta assai più fitta, specialmente sotto la foresta, le cui grandi vôlte di verzura impedivano che trapelassero quasi i raggi lunari. Appena appena scorgevansi i colossali tronchi di tamarindi i cui rami flessibili sostenevano enormi quantità di frutta sei volte più lunghe che larghe e ripiene di una polpa molle e acida; le grandi camerope a ventaglio dal fusto cilindrico coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un magnifico ciuffo di trenta o quaranta foglie disposte a ventaglio; le acacie mimose alte come un olmo, sui cui tronchi risaltavano le grossissime bolle della preziosa gomma che trasuda; le palme deleb coi fusti rigonfi nel mezzo e tutti i centomila arrampicanti che sattortigliavano come serpi attorno ai tronchi degli alberi e che sarrampicavano sui rami formando spesso dei pergolati naturali veramente ammirabili.

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