Emilio Salgari
LA TIGRE DELLA MALESIA
CAPITOLO I
La mezzanotte del 20 aprile 1847, un acquazzone diluviale, accompagnato da scrosci di folgore e da impetuosi soffi di vento subissava la solitaria e selvaggia Mompracem, isola situata sulle coste occidentali di Borneo, e il cui nome bastava in quei tempi a spargere il terrore a cento leghe allintorno. Labitazione della Tigre della Malesia, posta come aquila su di una gran rupe tagliata a picco sul mare, a cinquecento passi dalle ultime capanne del villaggio di Gjehawem, quella notte, contro il solito, era illuminata. Dai vetri colorati di una stanza a pianterreno, uscivano getti di luce rossigna, che rischiaravano fantasticamente le asperità delle roccie e le trincee e le gabbionate sparse allesterno.
Diamo unocchiata a questa stanza, luogo favorito del terribile capo dei pirati di Mompracem. Era questo un salotto alquanto vasto, colle pareti sepolte sotto pesanti tessuti di broccatello, di velluto cremisi e di sete di Francia, qua e là sgualciti, macchiati e rattoppati, e col terreno coperto da morbidi tappeti di Persia, sfolgoranti doro e di colori.
Nel mezzo faceva bella mostra un tavolo intarsiato debano e fregiato dargento, destinato forse un tempo, a qualche sfondolato riccone delle Filippine, e tutto ingombro di bottiglie e di calici del più puro cristallo di Venezia. Addossati agli angoli, grandi scaffali, coi vetri infranti, chi sa per qual capriccio del pirata, riboccanti di anelli doro, di arredi sacri contorti o schiacciati, di vasi di metallo prezioso, di perle e di cumuli di diamanti e di brillanti mescolati assieme, scintillanti come tanti soli, sotto i riflessi della gran lampada dorata sospesa al soffitto.
In un canto un divano turco, non meno ricco per dorature e sculture, colle frange strappate e le stoffe infangate e spesso insanguinate; in un altro un armonium incrostato doro, colla tastiera di avorio, che portava qua e là certi segni, da credere che fossero stati fatti a colpi di scimitarra, avventati forse dal pirata nei suoi momenti di delirio, e per ogni dove, ammonticchiati alla rinfusa, ricchi costumi, quadri dalle tele screpolate, dovuti forse a celebri pennelli, tappeti arrotolati, lampade rovesciate, bottiglie ritte o capovolte, porcellane infrante, moschetti indiani rabescati, brunite carabine, tromboni di Spagna, e spade, scimitarre, scuri, piccozze e pugnali, bruttati di sangue e di resti di cervella!
In quella sala, così stranamente arredata, su di una poltrona, colla testa fra le mani, come di chi medita, se ne stava Sandokan, il sanguinario capo dei pirati di Mompracem.
Questuomo, meglio conosciuto sotto il nome di Tigre della Malesia, che da dieci anni insanguinava le coste del mar malese, poteva avere trentadue o trentaquattro anni.
Era alto di statura, ben fatto, con muscoli forti come se fili dacciaio vi fossero stati intrecciati, dai lineamenti energici, lanima inaccessibile a ogni paura, agile come una scimmia, feroce come la tigre delle jungla malesi, generoso e coraggioso come il leone dei deserti africani.
Aveva una faccia leggermente abbronzata e di una bellezza incomparabile, resa truce da una barba nera, con una fronte ampia, incorniciata da fuligginosi e ricciuti capelli che gli cadevano con pittoresco disordine sulle robuste spalle. Due occhi di una fulgidezza senza pari, che magnetizzavano, attiravano, che ora diventavano melanconici come quelli di una fanciulla, e che ora lampeggiavano e schizzavano fiamme. Due labbra sottili, particolari agli uomini energici, dalle quali, nei momenti di battaglia, usciva una voce squillante, metallica, che dominava il rombo dei cannoni, e che talvolta si piegavano a un melanconico sorriso, che a poco a poco diventava un sorriso beffardo fino al punto di trovare il sorriso della Tigre della Malesia, quasi assaporasse allora il sangue umano!
Da dove mai era uscito questo terribile uomo, che alla testa di duecento tigrotti, non meno intrepidi di lui, aveva saputo in poco volger danni farsi una fama sì funesta? Nessuno lo avrebbe potuto dire. I suoi fidi stessi lo ignoravano, come ignoravano pure chi egli si fosse.
Qualcuno, che voleva saperla più lunga di tutti, o che forse realmente sapeva qualche cosa, opinava che fosse un Sambas delle coste settentrionali del Borneo, qualche altro invece, opinava che fosse un Malese, o un Giavanese, o un Dajacho.
A ogni modo si sapeva che egli era il più terribile e il più capriccioso dei pirati della Malesia, un uomo che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succiare le cervella dei moribondi. Un uomo che amava le battaglie le più tremende, che si precipitava come un pazzo nelle mischie più ostinate dove più grande era la strage e più fischiava la mitraglia; un uomo che, nuovo Attila, sul suo passaggio non lasciava che fumanti rovine e distese di cadaveri.
Però se questa belva, se questo uomo-tigre era così sanguinario, non mancava di una certa generosità, che lo rendeva più attraente.
Quante e quante volte egli aveva rimandato, rifiutando persino il riscatto, dei prigionieri, nemici suoi personali. Quante e quante volte, dopo aver lottato ore e ore contro una nave ostinatamente difesa, con gran strage dei suoi pirati e con gran pericolo di sé stesso, vintala, la lasciava ripartire senza nulla esigere in compenso, e senza che i suoi tigrotti osassero alzare la voce.
Così, come era generoso, questo strano selvaggio, era pur cavalleresco. Il singolar uomo, quando gli veniva dato di fare prigioniere delle donne, usava verso di esse mille cortesie, improvvisando feste e banchetti, e continuando in tal modo fino a che la smania della guerra lo riprendeva. Allora, una bella notte, le faceva imbarcare a bordo dei suoi prahos, e senza chiedere uno spillo che fosse uno spillo, senza voler accettare un ringraziamento, le conduceva alla costa più vicina, e prima che potessero riaversi dalla sorpresa di quella strana generosità, le sbarcava, per ripigliare di poi la sua vita libera e avventuriera.
Erano già parecchie ore che il pirata se ne stava lì, sdraiato sulla poltrona, colla fronte stretta fra le mani, lo sguardo cupo e le labbra contratte. Il primo tocco della mezzanotte, suonato da un orologio della stanza vicina, venne a trarlo da quella immobilità più che strana.
Si levò girando allintorno lo sguardo ancor più torvo, tracannò dun fiato una tazza ricolma dun liquore color ambra, e calcandosi ben in capo il verde turbante cosparso di piccoli diamanti, aprì la porta e uscì.
Egli sinoltrò in mezzo a un labirinto di trincee sfondate che parevano aver sostenuto più di un assalto, fra terrapieni che non conservavano che lombra di sé stessi, dantiche armi infrante e da rottami dogni sorta, in mezzo ai quali facevano lugubremente capolino scheletri umani dalle vuote occhiaie e monti dossami.
Nel passare, il pirata mise i piedi su di un teschio umano, che sinfranse crocchiando.
Maledetto! esclamò la Tigre.
Sarrestò sullorlo della rupe. La notte era tempestosa; il vento ruggiva fra le trincee e sul tetto accuminato della capanna sfilacciando la bandiera color di sangue che ondeggiava sulla cima di una grande antenna, e il mare muggiva furiosamente ai piedi delle scogliere, e i tuoni rombavano orrendamente fra le masse vaporose.
Diede uno sguardo al villaggio di Gjehawem che stendevasi ai suoi piedi, lasilo dei suoi cari tigrotti, poi guardò attentamente il mare aspettando che un lampo lo rischiarasse.
Stette cinque minuti immobile, sullorlo della rupe, colle braccia incrociate aspirando voluttuosamente il vento infuocato del sud, lasciandosi flagellare dalla pioggia e collo sguardo fisso sullo sconvolto oceano, poi ritornò senza affrettarsi allabitazione. Vuotò unaltra coppa e tornò a sdraiarsi sulla poltrona. Non vi restò che un istante, parve indeciso, ritornò alla porta tendendo lorecchio e facendo un brusco voltafaccia si portò dinanzi larmonium.
Qual contrasto! esclamò egli. Al di fuori il ruggito del vento e del mare e qua io!
Fece scorrere le magre dita sulla tastiera traendone alcuni suoni che a poco a poco presero lapparenza di una romanza suonata con lentezza estrema, appena appena distinta fra lo scatenarsi della tempesta. A poco a poco andò accelerandosi quasi volesse esprimere il veloce pensiero del suonatore, per poi ritornare lenta e melanconica fino a morire tra i soffi del vento. Sandokan si arrestò nel momento che riprendeva la bizzarra romanza. Il suo occhio brillante si fissò sulla porta semiaperta per la quale si introducevano sprazzi di pioggia, e parve ascoltare. Quasi nel medesimo istante un fischio acuto e prolungato risuonò al di fuori.
È lui! mormorò il pirata e si diresse verso luscita colla dritta appoggiata sullimpugnatura del kriss.
La tempesta si scatenava allora con tutta violenza, ma erano gli ultimi sforzi che faceva. Già una tinta chiara sintravvedeva alloriente, segno che le nubi spossate cominciavano a lasciar un varco.
Il pirata si spinse fino alla scala, accostò le dita alle labbra e, aspettando un momento in cui tutti quei fragori parevano acquetarsi, mandò un fischio prolungato, modulato, a cui vi rispose un secondo del tutto simile partendo fra le piante della pianura sottostante.
Il mio uomo è arrivato in buon punto. Perdeva la pazienza brontolò Sandokan.
Unombra si disegnò appié della tortuosa scala, che a poco a poco prese laspetto di un uomo avvolto in un gabbano di tela cerata. Aiutandosi colle mani e coi piedi come scimmia e lottando contro il vento che minacciava portarlo via per precipitarlo nellabisso, giunse fino alla piattaforma.
Sei tu, Yanez? domandò Sandokan movendogli incontro.
In persona rispose quelluomo, con laccento straniero.
I due valentuomini entrarono assieme nellabitazione rinchiudendo la porta. Sandokan prese posto dinanzi la tavola empiendo due bicchieri, mentre laltro, gettando in un canto il gabbano grondante acqua e una ricca carabina indiana, faceva altrettanto.
Alla tua salute, Sandokan! esclamò egli tracannando in un sol fiato il liquore.
Alla tua, Yanez rispose il pirata, ma non lo vuotò che a metà.
Il nuovo arrivato non era abbronzato come il formidabile pirata, né si bello. Era un uomo di mezzana statura, ma agile come unanguilla, allegro come lo poteva essere un marinaio che nuota nel lusso e si avvoltola nelloro e con un misto di fierezza e di cortesia che lo facevano apparire a prima vista un nobile cavaliero. E infatti locchio non poteva ingannarsi; Yanez de Gomera era un nobile portoghese delle Celebe, uno di quegli uomini che emigrando aveano centuplicato il patrimonio e con che, divoratolo in pazzie e ridotto sul lastrico, aveva avuto il coraggio di farsi marinaio, trafficando con un piccolo prahos di poco valore fra le isole della Malesia. Era giunto ancora a raccozzare un po di oro col quale pensava dimpiantare una nuova fattoria a Borneo, quando cadde sotto le unghie di Sandokan, che per una di quelle bizzarrie inesplicabili, gli aveva lasciato la vita e, non contento di condurselo a Mompracem, aveva finito col farsene un amico, un confidente. Yanez de Gomera, un discendente degli antichi avventurieri del Portogallo, aveva finito col diventare un pirata come il suo padrone e amico. Non vi era arrischiata spedizione che egli non vi partecipasse quando Sandokan la guidava e lordinava, non vi erano ostacoli che lo arrestassero quando egli ve lo mandava. Era come un anello del formidabile pirata, pronto a farsi ammazzare per lui alla prima occasione, un uomo che aveva le medesime bizzarrie e i medesimi capricci e che aveva finito col chiamarlo fratello. Tra lui e il pirata non vi erano secreti; quei due uomini parevano nati lun per laltro: la morte sola avrebbe potuto dividerli.
Ebbene, Yanez, sono sei ore che ti aspetto disse Sandokan, empiendo il bicchiere di lui.
La tempesta mi ha sorpreso alle Romades rispose Yanez. Vedi, Sandokan, il cattivo genio vi aveva messo la sua coda e soffiava come unanima dannata sollevando il mare a prodigiosa altezza, sbattendo il povero prahos fino alle nubi. Si sudava sangue per impedire che il legno affondasse.
Il formidabile pirata sorrise guardando suo fratello, il Portoghese, come lo chiamava lui.
Ti confesso che per poco vi lasciava la pelle. Eravamo sui frangenti dellisola tanto da credere che il povero prahos vi si sfasciasse sopra, quando il buon genio ci ha spinti alla baia.
E la crociera? Tu, Yanez, mi promettevi dei prahos da saccheggiare, non è vero?
Il Portoghese fece scoppiettare le dita come uomo contento, e tracannando il secondo bicchiere continuò:
Non aver fretta Sandokan; avrai la tua parte di cadaveri. Ieri mattina un Malese che pescava alle Romades, un pirata dalla faccia verde come un alligatore, è venuto a trovarmi a bordo del mio prahos con fare misterioso. Il bravuomo, sicuro di guadagnarsi qualche bella perla, mi disse che al largo delle isole si vedevano delle vele. Non aveva terminato che già ripigliava il mare colla prua al sud; i miei uomini fremevano già come tigri, che fiutano del sangue.
Sandokan si fece più attento. Le sue labbra poco prima sorridenti si ritrassero mostrando i denti.
Oh! Oh! esclamò egli a mezza voce. Tira innanzi, Yanez.
È presto fatto. Il vento a mezzodì, cangiò girando al sud e non fu più possibile avanzare che a forza di remi. Solamente verso sera, unora prima che la tempesta cominciasse a ruggire, giungemmo alla vista delle Romades, malaugurate terre che paiono protette dai cattivi geni. Le tenebre calavano come uno stormo di corvi, il mare montava spumeggiando, il vento ringhiava, ma la caccia non per questo si abbandonò. Tutti volevano vedere sangue.
E lhanno veduto? domandò Sandokan fattosi pensieroso.
No, per mille milioni di diavoli. Potemmo vedere al largo uno dei prahos che, a tutte vele spiegate, cercava approdare. Ti giuro, Sandokan, che aveva ventre rigonfio e portamento rispettabile. Ma il maledetto fu perduto di vista, ancor prima che si potesse abbordarlo. Le tenebre e la tempesta andavano allora daccordo per aiutarlo, e chi sa ora dove si è cacciato.
Tanto meglio! Tanto meglio! ripeté Sandokan sorridendo.
E perché, di grazia? chiese Yanez lasciando andare un pugno sulla tavola.
Perché domani pure io prenderò parte alla festa. Mimmagino ormai qual via tenevano quei legni e indovino quale sia il loro carico. Lo vedrai, Portoghese, almeno uno cadrà in nostre mani. I nostri tigrotti potranno bere sangue.
Bene, e poi dove si andrà? chiese Yanez versandosi da bere.
Il pirata parve pensasse, poi si alzò, fece due o tre volte il giro della stanza e toccò per la seconda volta la tastiera dellarmonium.
Il Portoghese si accontentò di crollare la testa, e di sorseggiare il trasparente liquore, guardando distrattamente nel fondo del bicchiere.
Accadeva spesso che la Tigre, per uno di quei capricci inesplicabili, suoi proprii, lasciasse sospesa la domanda e si racchiudesse in un ostinato silenzio, che alcuno sarebbe stato capace di rompere.
Lasciamolo suonare mormorò lavventuriero e, per non annoiarsi del tutto, andò a staccare una vecchia mandola, collintenzione senza dubbio di accompagnarlo.
Non aveva ancor toccate le corde, che Sandokan cessò dal suonare. Savvicinò bruscamente al tavolo, e guardando fissamente il Portoghese, gli domandò con voce alquanto sorda:
Hai veduto alcun pirata delle coste del Borneo?
Sì, ho veduto Akamba rispose il Portoghese.