Le figlie dei faraoni - Emilio Salgari 4 стр.


Il giovane parve che non lavesse nemmeno udito.

Cogli sguardi sempre sfavillanti, fissi in quelli della fiera, savanzava colla spada alzata, rossa di sangue fino alla guardia.

«Bisogna che ti uccida,» disse.

E si slanciò sul leone, che non osava più affrontare quel giovane avversario, che aveva dapprima disprezzato e che pareva lo magnetizzasse colla potenza dei suoi occhi.

Lurto fu breve e terribile. Ounis vide per alcuni istanti sollevarsi intorno ai due combattenti come una nube di sabbia, che glieli nascose, poi si udì un ruggito soffocato ed un grido che gli parve di trionfo:

«Muori!»

Quando la sabbia finissima cadde al suolo, vide Mirinri ritto, colla fronte alta, la spada grondante sangue in pugno ed un piede posato sul corpo della belva, che sussultava ancora fra gli ultimi spasimi della morte.

«Sì, mio» gridò Ounis, «degno allievo! Sì, sei il figlio di Teti, il fondatore duna dinastia che darà la gloria e la potenza alla terra dei Faraoni. Solo un uomo creato da lui avrebbe potuto compiere una simile impresa. Osiride ti protegge ormai e tutto puoi osare.»

Mirinri si volse e dopo daverlo guardato per qualche istante in silenzio, rispose:

«Ora io non dubito più che lanima dei Faraoni si sia trasfusa in me. Come io ho ucciso il re dei deserti, ucciderò lusurpatore, che rapì a me ed a mio padre il trono. Vedi, Ounis, se si può essere audaci anche quando il cuore vibra per una fanciulla. La prova ultima, la prova!»

«Sei grande,» rispose il sacerdote. «Partiamo subito. Gli astri cominciano ad impallidire e anche la coda della cometa va spegnendosi. Vieni, Figlio del Sole!»

Il giovane asciugò la lama sulla criniera del leone, se la rimise lentamente nella fascia che gli stringeva le anche e raggiunse il sacerdote collindifferenza tranquilla dun uomo che avesse compiuta una cosa di nessuna importanza.

«Sangue freddo, forza ed audacia,» disse Ounis, la cui ammirazione non pareva che fosse ancora cessata. «Tu sei luomo del destino.»

Mirinri sorrise senza rispondere.

Gettò un ultimo sguardo sulla belva, che non aveva più alcun sussulto e che sembrava addormentata, alzò per un istante gli occhi verso la cometa, che cominciava a smorzarsi e seguì il sacerdote, ricadendo nei suoi pensieri.

Non si udiva più alcun rumore fra le dune sabbiose. La voce formidabile del morente leone aveva allontanato jene e sciacalli, ed un profondo silenzio regnava sulla sterile landa,

Camminarono così, senza parlare, per qualche mezzora ancora: poi Ounis ruppe pel primo quellimmensa calma.

«La vedi? La piramide fatta costruire da tuo padre sorge laggiù.»

Mirinri si scosse, alzò il capo, che fino allora aveva tenuto curvo sul petto e spinse lo sguardo dinanzi a sé.

Due masse enormi si delineavano fra le dune, spiccando vivamente sullorizzonte, che cominciava ad imbianchirsi sotto i primi riflessi dellalba.

«Le due statue di Memnone!» esclamò, sussultando.

«Questa è lora.»

Mirinri girò lo sguardo verso settentrione e scorse una massa ancora più enorme, tutta nera, giganteggiante fra le semioscurità e che sinnalzava in forma di piramide.

«Il sepolcreto della mia dinastia,» disse.

«Dove troveremo il fiore sacro dOsiride. Affrettati, o giungeremo troppo tardi. La pietra suona solo quando nasce e tramonta il sole.

CAPITOLO QUARTO. Il Figlio del Sole

Le statue di Memnone godevano presso gli antichi egizi una venerazione grandissima, che non cessò nemmeno dopo, quando i romani, quei formidabili conquistatori del mondo allora noto, ebbero invase le rive del sacro Nilo, anzi ebbero anche essi una vera venerazione pel fatto, allora straordinario ed inesplicabile, che una di esse, sia allo spuntare del sole che al tramontare dellastro, dava un suono.

Gli antichi egizi affermavano che solo quando un Faraone saccostava alle due statue, quella nota strana, che somigliava al crepitìo dello zolfo quando è riscaldato colla mano, ma infinitamente più forte, si faceva udire.

Che realmente suonasse la pietra, nessuno lo mette in dubbio, quantunque oggi sia muta come qualunque altra pietra.

Strabone fu il primo ad affermarlo, avendo udito quello strano crepitìo in compagnia dElio Gallo, che era governatore dellEgitto, quantunque non potesse discernere se quella vibrazione partisse dal piedistallo o dalla statua. Giovenale, che meno dun secolo dopo fu esiliato a Sienne, nellalto corso del Nilo, pure lo udì e anche Plinio parlò di quel prodigio.

Se agli Egiziani la cosa sembrava meravigliosa, si trattava invece dun fatto semplicissimo che fu più tardi spiegato.

La statua parlante, come la si chiamava, e che sembra rappresentasse un Faraone delle prime dinastie, in seguito ad un terremoto, era stata spezzata allaltezza del ventre, mentre la sua vicina aveva resistito alla formidabile scossa. Da quellepoca cominciò a suonare.

La natura del sasso, formato da materiali eterogenei, tenuti insieme da una pasta silicea durissima, era tale che sotto le repentine variazioni della temperatura crepitava. Ora quella variazione non accade che al sorgere del sole, dopo le notti freschissime di quel clima, e un po dopo il tramonto.

Ed infatti, durante il giorno e la notte, la statua non faceva udire alcun suono.

Quando Settimio Severo, forse per superstizione o per onorare Memnone, figlio dellaurora, secondo le antiche leggende egiziane, fece restaurare il colosso con cinque enormi massi di marmo di grès, che si vedono tuttora, perché quelle due statue hanno resistito, al pari delle poche piramidi, alle ingiurie del tempo, la voce cessò dun tratto. Quei massi furono una sordina: la vibrazione fu inceppata e Memnone, con grande dispiacere degli egizi, non parlò più: daltronde i Faraoni erano ormai scomparsi e non erano più là per imporle di farsi udire.

Ounis e Mirinri, non scorgendo nessuno nei dintorni dei due colossi, savvicinarono rapidamente, cominciando il cielo a prendere, verso levante, una leggera tinta rossa che indicava limminente sorgere del sole.

Quelle due statue, che erano quattro o cinque volte più alte dun elefante, rappresentavano due uomini seduti sulle ginocchia ed erano formate di massi enormi, di forma quadrata, saldamente cementati fra di loro.

Sul capo avevano una specie di fichu triangolare, che cadeva lungo i lati della faccia, allargandosi al di sopra delle spalle ed avevano sotto il mento quelle strane barbe, formate da una specie di dado, più stretto in cima e più largo sotto, che si osserva in tutti gli antichi monumenti egiziani.

Il basamento, che era di proporzioni enormi e tanto alto che Mirinri non vi poteva giungere nemmeno allungando le mani, era tutto coperto di lettere e adorno dibis, gli uccelli sacri degli antichi egizi ed emblema dei Faraoni delle prime dinastie.

Sulla statua di destra si scorgeva distintamente la spaccatura prodotta dalla scossa del terremoto, allargantesi a circa metà del ventre.

Mirinri si era arrestato, guardando con visibile emozione i due colossi. Se egli era veramente un Faraone, il suono doveva udirsi; se rimaneva muto quale delusione!

Guardò con un po dansietà Ounis e lo vide tranquillo, come un uomo sicuro del fatto suo. Quella calma lo rassicurò.

«Vieni,» disse il sacerdote, dopo aver guardato il cielo. «Questo è il momento.»

Girarono intorno alla statua che era offesa e trovata una gradinata salirono sul piedestallo mettendosi fra le gambe che il colosso teneva aperte. Era quello il punto migliore per udite il suono.

«Parlerà il figlio dellaurora?» chiese Mirinri che era diventato pallido e che pareva nervosissimo.

«Sì, perché tu sei il figlio di Teti,» rispose il sacerdote.

«E se ti avessero ingannato?»

Un sorriso comparve sulle labbra dOunis.

«Ascolta,» disse poi. «Dopo mi dirai se tu sei o no un Faraone.»

Il sole salzava in quel momento radioso, sfolgorando sui due colossi i suoi raggi, che appena sorti erano già diventati ardenti.

«Ascolta! Ascolta!» ripetè Ounis.

Mirinri, curvo verso la massa della statua, tendeva gli orecchi. Il cuore, che dinanzi al leone non si era alterato nemmeno un istante, ora gli batteva forte come quando aveva stretta fra le braccia la fanciulla che aveva strappato al coccodrillo, la prima donna che aveva veduto da quando il sacerdote laveva portato nel deserto.

Il sole salzava rapido, allungando i suoi raggi sulla sconfinata pianura, ma la statua rimaneva muta. Anche Ounis aveva aggrottata la fronte.

Ad un tratto si fece udire un leggero crepitìo, che andò aumentando dintensità, poi una nota limpida, un do echeggiò.

Un grido era sfuggito dalle labbra del giovane.

Si era alzato rapidamente, cogli occhi accesi, il viso trasfigurato da una gioia inesprimibile. Guardò il sole e gridò con voce tuonante:

«Sì, io discendo da te, Osiride, sono un Faraone! LEgitto è mio!»

Ounis sorrideva, lieto di quellimprovviso scatto dentusiasmo. Anche egli sembrava profondamente commosso.

«Ounis, amico mio, alla piramide!» disse poscia il giovane, con esaltazione. «Dammi lultima prova che io sono il figlio di Teti, che il mio corpo è divino ed io andrò a uccidere, con questo istesso ferro che spense il re dei deserti, lusurpatore.»

«Così ti volevo vedere,» rispose il sacerdote. «Il sangue della stirpe guerriera, che io temevo si fosse addormentato per sempre, si è finalmente risvegliato.»

«Alla piramide, Ounis» ripetè il giovane, il cui entusiasmo non si era ancora calmato. «Andiamo ad interrogare il fiore dOsiride.»

«Lo vedrai dischiudere le sue corolle millenarie,» rispose il sacerdote.

La piramide, come abbiamo detto, che avrebbe dovuto servire di tomba alla dinastia iniziata da Pepi, non era lontana.

La sua mole imponente si ergeva appena ad un mezzo miglio dalle due gigantesche statue, lanciando la sua cima a centocinquanta metri.

Tutte le piramidi, fatte innalzare dalle diverse dinastie che regnarono in Egitto migliaia danni prima della nascita di Gesù Cristo, avevano proporzioni colossali.

Molte furono distrutte, per edificare coi loro materiali Tebe ed altre città sorte dopo la gloriosa Menfi, tuttavia ne sussistono anche oggidì parecchie e le più celebri e le più visitate sono quelle di Cheope, di Chefrèn e di Micerino, le quali sono daltronde le più gigantesche che si conoscano, coprendo suppergiù ciascuna cinque ettari di terreno ed avendo unaltezza che varia fra i centoquaranta ed i centoquarantasei metri.

Si calcola che per costruire quelle tombe, siano occorsi per ciascuna 250.000 metri cubi di materiali!

Quali somme poi abbiano costato e quante migliaia e migliaia di operai siano stati necessari per innalzarle, sarebbe impossibile dirlo. Si sa solo, consultando gli antichi papiri, che per erigere quella di Cheope non si spesero meno di quattro milioni di talenti egiziani, pari a più di dieci milioni di lire in solo aglio, prezzemolo e cipolle, vegetali che costituivano però il principale nutrimento di quegli infaticabili lavoratori reclutati, sempre per maggior economia, fra i prigionieri di guerra.

La piramide fatta innalzare da Teti, come abbiamo detto, non poteva rivaleggiare con quelle tre sopra menzionate; tuttavia era ancora così enorme da far arrossire se fosse possibile i più grandi edifizi moderni, anche i palazzoni a venti piani che costruiscono oggidì i nord-americani.

Una gradinata, di nove metri per lato, misura tenuta per tutte le piramidi, conduceva sulla cima, ove doveva trovarsi, al pari che nelle altre, una piccola piattaforma.

Ounis, che doveva aver visitato ancora, in altri tempi, lenorme sepolcreto, mosse sollecito verso due colossali sfingi, che pareva fossero state collocate a guardia duna porta di bronzo, che andava restringendosi verso lo stipite come tutte quelle costruite dagli antichi egizi.

La esaminò per qualche istante, come se volesse accertarsi che la serratura non fosse stata guastata, poi trasse di sotto la lunga veste una chiave di forma strana, che rassomigliava ad un serpente aggrovigliato e introdusse una estremità in un buco intagliato, in modo da sembrare una foglia di loto.

«Come possiedi tu quella chiave?» chiese Mirinri, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

«Me lha data tuo padre prima di morire» rispose laconicamente il sacerdote. «Se tu fossi per caso morto dove vorresti che ti avessi sepolto? Un Faraone dormire fra le sabbie?»

«Ma mio padre non riposa lì dentro.»

«Quando tu avrai conquistato il trono che ti spetta, anche lui dormirà, fra queste muraglie ciclopiche, il sonno eterno.»

Spinse la massiccia porta di bronzo, accese una piccola lampada dargilla, che aveva portato seco, adoperando due pietre nere che percuotendole luna con laltra sprigionavano fasci di scintille vivissime, poi, volgendosi verso il giovane, gli disse:

«A te spetta il diritto di entrare per primo, giacché tuo padre più non esiste.»

Con unemozione visibile Mirinri varcò la soglia e che entrò nellimmenso sepolcreto, destinato ad accogliere tutte le salme della sua dinastia.

Anche là dentro, come già nellimmensa caverna funeraria dove trovavasi il tesoro, regnava un tanfo di muffito e dumido, tuttavia laria, che penetrava forse per mille fessure invisibili, era più respirabile, sicchè i due uomini poterono avanzarsi liberamente.

Nelle pareti massiccie vi erano molti vani di forma quadrata, destinati a ricevere le bare, con sotto una tavola di marmo nero per ricevere le offerte destinate al morto, onde non dovesse soffrire la fame durante la traversata dellAmenti, per raggiungere il regno dOsiride o la «regione nascosta», il luogo di delizie.

Non erano quei vani, che daltronde erano tutti vuoti, che interessavano Ounis e tanto meno Mirinri. Il sacerdote cercava ansiosamente un masso enorme, che doveva trovarsi nel centro della piramide e che celava il famoso fiore dOsiride.

Essendo la luce della lampadina troppo fioca e lo spazio immenso e tenebroso, dovette percorrere parecchie centinaia di passi prima di scoprirlo.

«Eccolo,» disse finalmente.

Un gran dado di pietra bianca sormontato da una statua rappresentante Toth, il dio ibis, era comparso nel cerchio proiettato dalla luce.

Ounis saccostò e rimosse colla mano un cumulo di vegetali che copriva la superficie, dei fiori di loto bianco ed azzurro, dei crisantemi, dei mazzi di trifoglio, dei sedani e dei melloni dacqua seccati, che conservavano tuttavia ancora il loro color verde e dopo daver frugato entro una cavità trasse una piccola pianta disseccata, mostrandola trionfalmente al giovane.

Quella pianta meravigliosa, che doveva migliaia danni dopo far stupire i botanici europei ed americani, che la chiamarono il fiore della risurrezione e che fu scoperta da un beduino nel seno duna principessa faraonica e donata dal possessore al dottor Deck nel 1848, era quella che gli antichi Egizi chiamavano il fiore dOsiride.

Era una pianticella magra, esile, con dei bottoncini ingialliti dal tempo e ormai completamente disseccati.

«È proprio quella che il grande Osiride lasciò ai suoi successori?» chiese Mirinri, guardandola cogli occhi luccicanti.

«La stessa,» rispose Ounis, dopo averla osservata attentamente. «La riconosco benissimo perché io lho portata qui assieme a tuo padre.»

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