Sandokan comprese che lultima ora stava per suonare per le tigri di Mompracem.
La sconfitta era completa. Non era più possibile far fronte a quel gigante che vomitava ad ogni istante nembi di proiettili. Non rimaneva che tentare labbordaggio, una pazzia, poiché nemmeno sul ponte dellincrociatore la vittoria poteva arridere a quei valorosi.
Non restavano in piedi che dodici uomini, dodici tigri però guidate da un capo il cui valore era incredibile.
A me, miei prodi! gridò egli.
I dodici pirati, cogli occhi stravolti, schiumanti di rabbia, colle pugna chiuse come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni, gli si strinsero attorno.
Il vascello correva allora a tutto vapore addosso al praho, per affondarlo collo sperone, ma Sandokan, appena lo vide a pochi passi, con un colpo di barra evitò lurto e lanciò il suo legno contro la ruota di babordo del nemico. Avvenne un urto violentissimo. Il legno corsaro si piegò sul tribordo imbarcando acqua e rovesciando morti e feriti in mare.
Lanciate i grappini! tuonò Sandokan.
Due grappini darrembaggio sinfissero nelle griselle dellincrociatore. Allora i tredici pirati, pazzi di furore, assetati di vendetta, si slanciarono come un sol uomo allarrembaggio.
Aiutandosi colle mani e coi piedi, aggrappandosi agli sportelli delle batterie e alle gomene, sarrampicarono su per la tambura, raggiunsero le murate e si precipitarono sul ponte dellincrociatore, prima ancora che gli inglesi, stupiti da tanta audacia, avessero pensato a ributtarli.
Colla Tigre della Malesia alla testa si scagliarono contro gli artiglieri, massacrandoli sui loro pezzi, sbaragliarono i fucilieri che erano accorsi per sbarrare loro il passo, poi, tempestando colpi di scimitarra a destra e a sinistra, si diressero verso poppa.
Colà, alle grida degli ufficiali, si erano prontamente radunati gli uomini della batteria. Erano sessanta o settanta, ma i pirati non si fermarono a contarli e si gettarono furiosamente sulle punte delle baionette impegnando una lotta titanica. Avventando colpi disperati, troncando braccia e spaccando teste, urlando per spargere maggior terrore, cadendo e rialzandosi, ora indietreggiando ed ora avanzando, per alcuni minuti tennero testa a tutti quei nemici, ma, moschettati dagli uomini delle coffe, sciabolati a tergo, incalzati dinanzi alle baionette, quei valorosi caddero.
Sandokan e quattro altri, coperti di ferite, colle armi insanguinate fino allimpugnatura, con uno sforzo poderoso si aprirono il passo e tentarono di guadagnare la prua, per arrestare a colpi di cannone quella valanga duomini.
A metà del ponte Sandokan cadde colpito in pieno petto da una palla di carabina, ma subito si rialzò, urlando: Ammazza! Ammazza! Gli inglesi si avanzavano a passo di carica colle baionette calate. Lurto fu mortale.
I quattro pirati che si erano gettati dinanzi al loro capitano per coprirlo, sparvero fra una scarica di fucili, rimanendo stecchiti; ma non così accadde alla Tigre della Malesia.
Il formidabile uomo, malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, con un salto immenso raggiunse la murata di babordo, abbattè col troncone della scimitarra un gabbiere che cercava di trattenerlo e si gettò a capofitto in mare, scomparendo sotto i neri flutti.
LA «PERLA DI LABUAN»
Un tale uomo dotato di una forza così prodigiosa, di una energia così straordinaria e di un coraggio così grande, non doveva morire.
Infatti, mentre il piroscafo proseguiva la sua corsa trasportato dalle ultime battute delle ruote, il pirata con un vigoroso colpo di tallone risaliva a galla e si portava al largo, per non venire tagliato in due dallo sperone del nemico o preso a colpi di fucile.
Rattenendo i gemiti che gli strappava la ferita e frenando la rabbia che lo divorava, si rannicchiò, tenendosi quasi del tutto sommerso, in attesa del momento opportuno per guadagnare le coste dellisola.
Il legno da guerra virava allora di bordo, a meno di trecento metri. Si avanzò verso il luogo dove si era inabissato il pirata, colla speranza di sbranarlo sotto le ruote, poi tornò a virare.
Si arrestò un momento, come se volesse scrutare quel tratto di mare da lui agitato, poi ripigliò la marcia tagliando in tutti i versi quella porzione dacqua, mentre i marinai, calatisi nella rete della delfiniera e sulle bancazze, proiettavano per ogni dove la luce di alcuni fanali.
Convinto dellinutilità delle ricerche, alla fine sallontanò in direzione di Labuan.
La Tigre emise allora un grido di furore.
Va, vascello esecrato! esclamò. Va, ma verrà il giorno in cui ti mostrerò quanto sia terribile la mia vendetta!
Si passò la fascia sulla sanguinante ferita, per arrestare lemorragia che poteva ucciderlo, poi, raccogliendo le proprie forze, si mise a nuotare, cercando le spiagge dellisola.
Venti volte però il formidabile uomo si arrestò per guardare il legno da guerra che appena appena distingueva e per lanciargli dietro una terribile minaccia. Vi erano certi momenti in cui quel pirata, ferito forse mortalmente, forse ancora assai lontano dalle coste dellisola, si metteva ad inseguire quel legno che gli aveva fatto mordere la polvere e lo sfidava con urla che più nulla avevano di umano.
La ragione finalmente la vinse, e Sandokan riprese il faticoso esercizio scrutando le tenebre che gli nascondevano le coste di Labuan. Nuotò così per parecchio tempo, fermandosi di tratto in tratto per riprendere lena e sbarazzarsi delle vesti che lo impacciavano, poi sentì che le forze gli venivano rapidamente meno.
Gli si irrigidivano le membra, la respirazione gli diventava sempre più difficile, e per colmo di disgrazia la ferita continuava a gettar sangue, producendogli dolori acuti pel contatto collacqua salata.
Si raggomitolò su se stesso e si lasciò trasportare dal flusso, agitando debolmente le braccia. Cercava di riposare alla meglio per riprendere lena. Ad un tratto sentì un urto. Qualche cosa lo aveva toccato. Era stato un pescecane forse? A quellidea, non ostante il suo coraggio da leone, si sentì accapponare la pelle.
Allungò istintivamente la mano e afferrò un oggetto scabroso che pareva galleggiasse a fior dacqua.
Lo tirò a sé e vide che si trattava dun rottame. Era un pezzo di coperta del praho a cui erano ancora appese delle funi e un pennone.
Era tempo mormorò Sandokan. Le mie forze se ne andavano.
Si issò faticosamente sul rottame, mettendo allo scoperto la ferita, dai cui margini, gonfi e rosi dallacqua marina, usciva ancora un filo di sangue. Per unaltra ora, quelluomo che non voleva morire, che non voleva darsi vinto, lottò colle onde, che volta a volta sommergevano il rottame, ma poi le forze gli vennero meno e saccasciò su se stesso, colle mani però chiuse ancora intorno al pennone.
Cominciava ad albeggiare quando un urto violentissimo lo strappò da quellaccasciamento, che poteva anche chiamarsi quasi uno svenimento. Si alzò faticosamente sulle braccia e guardò dinanzi a sé. Le onde si frangevano con fracasso intorno al rottame, accartocciandosi e spumeggiando. Pareva che rotolassero su dei bassifondi.
Attraverso come ad una nebbia sanguigna, il ferito scorse a breve distanza una costa.
Labuan mormorò. Approderò qua, sulla terra dei miei nemici?
Ebbe una breve esitazione ma poi, radunate le forze, abbandonò quelle tavole che lo avevano salvato da una morte quasi certa e sentendo sotto i piedi un banco sabbioso, si avanzò verso la costa.
Le onde lo urtavano da tutte le parti, urlandogli intorno come molossi in furore, tentando di abbatterlo ed ora spingendolo, ora respingendolo. Pareva che volessero impedirgli di giungere su quella terra maledetta. Savanzò barcollando attraverso i banchi di sabbia e, dopo daver lottato contro le ultime ondate della risacca, raggiunse la sponda coronata di grandi alberi, lasciandosi cadere pesantemente al suolo.
Le onde lo urtavano da tutte le parti, urlandogli intorno come molossi in furore, tentando di abbatterlo ed ora spingendolo, ora respingendolo. Pareva che volessero impedirgli di giungere su quella terra maledetta. Savanzò barcollando attraverso i banchi di sabbia e, dopo daver lottato contro le ultime ondate della risacca, raggiunse la sponda coronata di grandi alberi, lasciandosi cadere pesantemente al suolo.
Quantunque si sentisse sfinito per la lunga lotta sostenuta e per la grande perdita di sangue, mise a nudo la ferita e la osservò a lungo. Aveva ricevuta una palla, forse di pistola, sotto la quinta costola del fianco destro e quel pezzo di piombo, dopo di essere scivolato fra le ossa, si era perduto nellinterno, ma senza toccare, a quanto sembrava, alcun organo vitale. Forse quella ferita non era grave, ma poteva diventarlo se non si curava prontamente, e Sandokan, che se ne intendeva un po, lo sapeva. Udendo a breve distanza il mormorio dun ruscello, si trascinò fino là, aprì le labbra della ferita diventate gonfie al prolungato contatto con lacqua marina, e le lavò accuratamente comprimendole poi fino a far uscire ancora alcune gocce di sangue.
Le riunì per bene, le fasciò con un lembo della sua camicia, unico indumento che ancora teneva indosso, oltre la fascia sostenente il kriss.
Guarirò mormorò egli quandebbe finito, e pronunziò quella parola con tanta energia da credere quasi che egli fosse larbitro assoluto della propria esistenza. Quelluomo di ferro, quantunque abbandonato su quellisola, dove non poteva trovare altro che nemici, senza un ricovero, senza risorse, sanguinante, senza una mano amica che lo soccorresse, era certo di uscire vittorioso da quella tremenda situazione.
Bevette alcuni sorsi dacqua per calmare la febbre che cominciava a prenderlo, poi si trascinò sotto un arecche le cui foglie gigantesche, lunghe non meno di quindici piedi e larghe cinque o sei, proiettavano allintorno una fresca ombra. Vi era appena giunto che si sentì mancare nuovamente le forze. Chiuse gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno e dopo daver tentato, ma invano, di mantenersi ritto, cadde fra le erbe rimanendo immobile. Non si riebbe che molte ore dopo, quando già il sole dopo daver toccato lostro, scendeva verso occidente.
Una sete bruciante lo divorava e la ferita non più rinfrescata, gli produceva dolori acuti, insopportabili.
Cercò di rialzarsi per trascinarsi fino al ruscelletto, ma subito ricadde. Allora quelluomo che voleva essere forte come la fiera di cui portava il nome, con uno sforzo potente, si rizzò sulle ginocchia, gridando quasi in tono di sfida:
Io sono la Tigre! A me mie forze!
Aggrappandosi al tronco del betel, si rizzò in piedi e, mantenendosi su per un prodigio dequilibrio e denergia, camminò fino al piccolo corso dacqua, sulla cui riva ricadde.
Estinse la sete, bagnò nuovamente la ferita, poi si prese il capo fra le mani e fissò gli sguardi sul mare che veniva a frangersi a pochi passi, gorgogliando sordamente.
Ah! esclamò egli, digrignando i denti. Chi avrebbe detto che un giorno i leopardi di Labuan avrebbero vinte le tigri di Mompracem?
«Chi avrebbe detto che io, linvincibile Tigre della Malesia, sarei approdato qui, sconfitto e ferito? Ed a quando la vendetta? La vendetta! Tutti i miei prahos, le mie isole, i miei uomini, i miei tesori pur di distruggere questi odiati uomini bianchi che mi disputano questo mare!
«Cosa importa se oggi mi hanno fatto mordere la polvere, quando fra un mese o due tornerò qui coi miei legni a lanciare su queste spiagge le mie formidabili bande assetate di sangue?
«Cosa importa se oggi il leopardo inglese va superbo della sua vittoria? Sarà lui allora che cadrà moribondo ai miei piedi!
«Tremino allora tutti gli inglesi di Labuan, perché mostrerò alla luce degli incendi la mia sanguinosa bandiera!»
Il pirata, così parlando, si era nuovamente rialzato cogli occhi fiammeggianti, agitando minacciosamente la destra come se stringesse ancora la terribile scimitarra, fremente, tremendo. Anche ferito era pur sempre lindomabile Tigre della Malesia.
Pazienza per ora, Sandokan riprese egli, ricadendo fra le erbe e gli sterpi.
Guarirò, dovessi vivere un mese, due, tre in questa foresta e cibarmi di ostriche e di frutta; ma quando avrò ricuperate le mie forze tornerò a Mompracem, dovessi costruirmi una zattera o assalire una canoa ed espugnarla a colpi di kriss. Stette parecchie ore disteso sotto le larghe foglie dellarecche, guardando cupamente le onde che venivano a morire quasi ai suoi piedi con mille mormoni. Pareva che cercasse, sotto quelle acque, gli scafi dei suoi due legni colati in quei paraggi o i cadaveri dei suoi disgraziati compagni.
Una febbre fortissima intanto lo assaliva, mentre sentiva ondate di sangue salirgli al cervello. La ferita gli produceva spasimi incessanti, ma nessun lamento usciva dalle labbra del formidabile uomo.
Alle otto il sole precipitò allorizzonte e, dopo un brevissimo crepuscolo, le tenebre calarono sul mare ed invasero la foresta.
Quelloscurità produsse uninesplicabile impressione sullanimo di Sandokan. Ebbe paura della notte, lui, il fiero pirata, che non aveva mai temuto la morte e che aveva affrontato con coraggio disperato i pericoli della guerra ed i furori delle onde!
Le tenebre! esclamò egli sollevando la terra colle unghie. Io non voglio che scenda la notte! Io non voglio morire!
Si compresse con ambo le mani la ferita, poi si alzò di scatto. Guardò il mare ormai diventato nero come se fosse di inchiostro; guardò sotto gli alberi indagando la loro cupa ombra; poi, preso forse da un improvviso assalto di delirio, si mise a correre come un pazzo, internandosi nella selva. Dove andava? Perché fuggiva? Certamente una strana paura laveva invaso. Nel suo delirio gli pareva di udire in lontananza labbaiare di cani, grida duomini, ruggiti di fiere. Egli credeva forse di essere già stato scoperto e di venire inseguito. Ben presto quella corsa divenne vertiginosa. Completamente fuori di sé, si precipitava innanzi allimpazzata, scagliandosi in mezzo ai cespugli, balzando sopra tronchi atterrati, varcando torrenti e stagni, urlando, imprecando ed agitando forsennatamente il kriss, la cui impugnatura, tempestata di diamanti, mandava fugaci bagliori.
Continuò così per dieci o quindici minuti, internandosi sempre più sotto gli alberi, destando colle sue grida gli echi della foresta tenebrosa, poi sarrestò ansante, trafelato.
Aveva le labbra coperte duna schiuma sanguigna e gli occhi sconvolti. Agitò pazzamente le braccia, poi rovinò al suolo come un albero schiantato dalla folgore.
Delirava; la testa gli pareva che fosse lì lì per iscoppiare e che dieci martelli gli percuotessero le tempie. Il cuore gli balzava nel petto, come se volesse uscirgli e dalla ferita gli sembrava che uscissero torrenti di fuoco.
Credeva di vedere nemici dappertutto. Sotto gli alberi, sotto i cespugli, in mezzo alla frane ed alle radici che serpeggiavano per suolo, i suoi occhi scorgevano uomini nascosti, mentre per laria gli sembrava di veder volteggiare legioni di fantasmi, e di scheletri danzanti intorno alle grandi foglie degli alberi.
Degli esseri umani sorgevano dal suolo gementi, urlanti, chi colle teste sanguinanti, chi colle membra tronche e coi fianchi squarciati. Tutti ridevano, sghignazzavano, come se si beffassero dellimpotenza della terribile Tigre della Malesia. Sandokan, in preda ad uno spaventevole accesso di delirio, si rotolava al suolo, si alzava, cadeva, tendeva le pugna e minacciava tutti.
Via di qua, cani! urlava. Cosa volete da me? Io sono la Tigre della Malesia e non vi temo! Venite ad assalirmi se losate!