Anton Giulio Barrili
Raggio di Dio: Romanzo
Capitolo I.
Un bel sogno avverato
E andando da Chiavari a Lavagna, occorre in poca distanza il fiume nominato dagli antichi Entella, e dai moderni Lavagna; il quale ha la sua origine nel monte Appennino, di qua dalla terra di Torriglia in le confine di Bargagli e di Roccatagliata: e muoiono in questo fiume, Graveglia, Ollo e Sturla, torrenti che alcuna volta vengono con furia. Grazie, monsignor Giustiniani, vescovo di Nebbio e annalista di Genova; grazie infinite, e basta così. È la fiumana bella di Dante Alighieri, certamente la più bella di Liguria; e bene lha dichiarata tale il divino poeta, che le vide tutte, quante ce nerano tra Lerici e Turbìa, ma su questa si trattenne più a lungo, guardandone dal ponte della Maddalena il largo specchio azzurrino, con le due file di pioppi che ne accompagnavano il corso. Ma noi non ci fermeremo qui, come il grandesule fiorentino; risaliremo la fiumana bella fino al confluente del Graveglia, dovessa fa una gran curva, per voltar poi risoluta a ponente maestro; e lì faremo alto ai Paggi, come ora si dice, e dove nellanno di grazia 1506 durava ancora in ottimo stato un castello dei Fieschi.
In altri tempi sera chiamato la Guaita; più tardi, con lieve mutamento, la Guardia. E meritava il suo nome, stando là come una scolta avanzata di tutte le terre Appenniniche ondera formato il dominio dei Fieschi, gran ventaglio di borghi e castella che dalla Scrivia si stendeva alla Magra, includendo Casella, Savignone, Montobbio, Torriglia, Valdetaro, Santo Stefano dAveto, Varese, Pontremoli; e chi più nha ne metta, andando fin oltre i cinquanta. Passavano infatti questo numero le terre murate dei Fieschi; tenute con varia fortuna, sintende, come in tempi guasti doveva accadere; onde i cinquanta e più feudi contigui scesero qualche volta a trentatrè, facendo ancora quel che si dice comunemente un bel numero.
Gran gente, quei conti di Lavagna! Disputata un pezzo al Comune di Genova la terra onde traevano il titolo maggiore e più caro, vedutosi fabbricare allincontro, nel 1167, il castello di Chiavari, indi a trentun anno cedevano quel feudo invidiato, diventando nobili genovesi, e ben presto una delle quattro grandi famiglie potenti e prepotenti della Repubblica. Ricchi di capitani e dammiragli, come di cardinali e di papi, ora ripigliavano le terre perdute, ora altre ne acquistavano, a ristorarsi dei danni. Al tempo di cui raccontiamo, erano già molti rami di Fieschi, ma tutti strettamente collegati dinteressi, sotto gli auspicii del ramo principale, rappresentato allora da Gian Aloise, signor di Pontremoli, di Varsi, di Loano, di Montobbio; principe di Valdetaro e conte di San Valentino; marchese di Torriglia, Varese, Santo Stefano dAveto, Calestano, Vigolzone, Gremiasco, San Sebastiano, e via discorrendo per un pezzo; un gran signore, a farla breve, superiore nel tempo suo agli altri tutti dItalia per ampiezza di dominio, e quasi un piccolo re. In Genova, tanta era la sua autorità, sedeva per decreto sugli anziani, e gli si davano i titoli dillustre e di eccelso, come ai principi di corona.
Con queste fortune al casato e con le politiche necessità che ne conseguivano, la Guardia aveva riconquistata una parte dellantica sua importanza militare. Il padrone era un valoroso; ma in patria non aveva fatto niente di notevole, e per quello che aveva fatto in terre lontane si poteva dire che riposasse sugli allori. Avrebbe difesa strenuamente la sua rocca, se mai fosse stata minacciata: per intanto laveva battezzata Gioiosa Guardia, in omaggio al cavalier Lancillotto di romanzesca memoria, ma più alla bellissima donna che da un anno aveva fatta signora del castello, impalmandola con rito solenne e con gran pompa comitale nella vicina chiesa di San Salvatore.
Era dunque gioiosa, la Guardia, per decreto recente del suo felice padrone. Ma non corrispondeva alla bellezza dellepiteto la faccia smunta del suo custode, o gastaldo che vogliam dirlo, non potendo, per la presenza del legittimo signore, decorarlo del sonoro titolo di castellano. E nondimeno, quel gastaldo decorava lufficio con la misurata gravità dellaspetto; a cui, nel pomeriggio del 5 marzo 1506, si poteva aggiungere la composta dignità dellatteggiamento, quantunque egli fosse modestamente seduto sovra una panca, entro la prima cinta del castello, assistendo ad una partita di pallone, caldamente impegnata fra sei giuocatori. Diciamo di passata che cinque di essi erano uomini darme del castello, e il sesto un frate francescano, come appariva dalla tonaca, saviamente raccorciata a mezza gamba collaiuto del fido cordone, su cui ella veniva a far grembo.
Quanto al nostro personaggio, vediamo di abbozzarne in pochi segni lasciutta figura. Appoggiate le mani scarne ma forti sul pomo della spada; accavalciate le gambe lunghe, che mettevano in mostra due stivaloni di cuoio cordovano e due calze divisate di bianco e dazzurro; ritto il busto nel suo giubbone attillato di cuoio, donde uscivano le maniche di lana, divisate anchesse dei due colori di casa Fiesca; ritta la testa che pareva tutta in fiamme pel colore della barba e dei capelli rosseggianti al sole; tirata un po indietro sul cocuzzolo la berretta, anchessa di cuoio, con larghe frappe di bianco e dazzurro, sormontata da una gran penna lionata di pavone, il nostro personaggio aveva una bellaria di vecchio soldato in licenza, felice dun po di riposo, ma pronto a gittar la berretta per calzar la barbuta. Non era bello, no davvero; aveva troppo scarno il viso lungo, e gli occhi grigi, quasi bianchi, sotto le ispide sopracciglia rossigne: il naso, poi, che incominciava colla buona intenzione di parere aquilino, finiva in una pallottola rossa, non conveniente di certo alla severità dellaspetto, e molto meno alla dignità della carica. Ahimè, non si nasce perfetti. Ma don Garcìa, che tale era il nome del personaggio, non si dava un pensiero al mondo di queste fisiche imperfezioni. Era passato il tempo, se mai; ed egli godeva della vita quel tanto che se ne può godere di là dai cinquanta. Per allora, si dilettava di veder giuocare al pallone; era tutto nelle belle battute e nelle pronte rimesse, nelle volate e nelle cacce vinte; accennava del capo ai bei colpi, batteva le labbra ai falli. A lui si rimettevano nei casi dubbi, ed egli dava il responso, con calma e buon giudizio, senzombra di parzialità. Pure, come ogni fedel cristiano, egli avrebbe potuto pendere più di qua che di là, ed averne ancora la scusa, poichè uno dei giuocatori, il frate, era spagnuolo al pari di lui.
Perchè quella spagnuoleria là dentro? E come andava che non dispiacesse a nessuno? Diciamo subito che quei due spagnuoli, don Garcìa e frate Alessandro, e per terra e per mare erano stati compagni di ventura al signore del castello; e soggiungiamo che dei cinque giuocatori genovesi, tutti uomini darme della Gioiosa Guardia, tre erano stati coi due spagnuoli ai medesimi incontri, ricordando altresì che più di tutti aveva rischiata la pelle quel vecchio, non solamente per far servizio al loro signore, ma ancora per salvare la bellissima donna, diventata da un anno cristiana e contessa, col nome di Giovanna del Fiesco.
Queste erano ragioni da bastare là dentro, rendendo cari, non che tollerabili, i due forestieri. Ma della ammissione dun di loro in ufficio tanto geloso dovevano pur fare le meraviglie taluni di fuori, che non sapevano bene le cose. Ed uno di costoro, Filippino Fiesco, passato due mesi prima da Gioiosa Guardia, non aveva potuto trattenersi dal farne cenno al signore del luogo.
Cugino Bartolomeo, gli aveva detto, temperando con un suo risolino limpertinenza della domanda, che vè saltato in mente di prendere per servitore uno spagnuolo? Siamo per Francia, noi, non per Castiglia e Leone.
Ah, sì? aveva risposto Bartolomeo Fiesco. E meglio per noi, che non fossimo per nessuno. Quanto alla gente fidata, si raccatta dove si trova. Il mio gastaldo io lho conosciuto tra Spagnuoli, e di dovunque egli sia, me lo tengo caro. Del resto, che ci trovate di strano? Io non faccio altro che imitare il re Cristianissimo.
In che modo?
Nellunico che sia possibile a me. Chi ha messo egli a comandarci, che Iddio lo benedica?
Monsignor Filippo di Cleves, signore di Ravenstein, rispose Filippo Fiesco, regio governatore e luogotenente generale dei Genovesi, come cantano tutte le gride.
Dimenticate ed ammiraglio del Levante; ripigliò Bartolomeo Fiesco. Ma forse egli pare anche a voi un ammiraglio dacqua dolce. Quello, del resto, è il capo della gente di Francia, mandato qui per figura e per indorarci la pillola. Io intendevo parlare del comandante vero, di quello che fa tutto in casa nostra. Non è questi il Roccabertino? E chi è il Roccabertino? non è forse un Aragonese? Ed io ho per luogotenente un Catalano. La differenza è qui tutta.
Largomento non ammetteva risposta; e messer Filippino potè anche pensare che ognuno in casa sua si governa a suo modo. Nè altre molestie ebbe don Garcìa, che veramente non le meritava. E tutti sapendo chegli era stato buon compagno di rischi del capitano Fiesco, nessuno conobbe mai quale alto ufficio avessegli esercitato in Haiti. Tacevano le sue gesta i pochissimi che avrebbero potuto parlarne; frate Alessandro, ad esempio, suo conterraneo e suo introduttore alla mensa soldatesca nel bosco di Xaragua; Giovanni Passano e Pietro Gentile, che di aiutanti del Fiesco essendosi mutati in aiutanti di don Garcìa per una lugubre impresa, non avevano nessuna ragione di vantarsene, quantunque nella brutta occasione avessero imparato a stimare quelluomo. Senza di lui, come si sarebbe salvata la infelice regina di Xaragua? Senza i casi che necessariamente nerano seguiti, come si sarebbe salvata Higuamota, la graziosa fanciulla, diventata moglie a Giovanni Passano un mese dopo che sua madre era diventata contessa del Fiesco?
Fortunato, il Passano! Restava luogotenente del conte; ma in tempo di pace, comerano allora i nostri reduci del nuovo Mondo, faceva dellaltro, vivendo molto a Genova e curando glinteressi del suo protettore. Lo chiamavano già Da Passano. E perchè no? Forse era della stirpe onorata di quei nobili della Riviera di Levante, e il nome voleva pur dire qualche cosa, anzi più di qualche cosa, in un tempo che quei de e quei da non si usavano con norme fisse. Era il tempo, o giù di lì, che un gran capitano di ventura, dantico ceppo parmense, signor di Berceto, di Torchiara e di San Secondo, si sentiva chiamare promiscuamente Pier Maria Rossi e Pier Maria De Rossi; ed egli poi, a farlo a posta, sullingresso di Torchiara faceva scolpire il suo nome nella umilissima forma di Pietro Rosso. È vero che lo metteva in fin di verso, per far rima a modo suo con due finali in orso. Ma, per trovare esempi più prossimi, gli stessi conti di Lavagna non avevano sempre creduto, coi genealogisti di casa, dessere stati chiamati Fieschi, per una ottenuta prefettura del Fisco imperiale in Italia, donde sarebbe venuta la più o meno naturale storpiatura del Fliscus. Il nostro Bartolomeo, che gradiva anche alle sue ore il nome di Damiano, lasciava correre un Bartholomeus Frescus in atti notarili; e questo forse in omaggio ad una più modesta genealogia del 1171, quando due conti di Lavagna avevano preso a far cognome dai lor soprannomi di Fresco e di Secco, trovati buoni a distinguere le loro due nobili persone, che portavano il medesimo nome di Ugo. Non troppo dissimilmente i contèrmini Malaspina si erano spartiti in due rami, il fiorito ed il secco.
Ma torniamo a don Garcìa, che in tutte queste minuzie non ha niente a vedere. Era un bravuomo, che si sapeva contentare, avendo un pane onorato per la vecchiaia. Faceva un po di tutto, alla Gioiosa Guardia. Antico soldato, insegnava anche il mestier delle armi ai vassalli del conte; nei giorni festivi metteva in ordinanza un centinaio di fanti a piedi, e una diecina duomini a cavallo, che facessero bella mostra battendo le strade da Chiavari a Carasco, a San Colombano e più oltre. Invigilava, nelle stagioni opportune, ai raccolti dei poderi, e riscuoteva in nome del conte tutti i diritti feudali, facendo qui, come del resto, assai bene le cose, con gravità, senza rigore, con giustizia che non escludeva la umanità, persuaso dopo tutto di far piacere al padrone, e più ancora alla padrona.
Quella donna era amata, adorata per tutta la valle dellEntella e per le vicine convalli dello Sturla, della Graveglia, dellOllo. Bisognava vedere che calca di gente, quando, insieme colla nobilissima suocera, la veneranda madonna Bianchina, scendeva ai divini uffizi nella chiesa di San Salvatore. Ricordavano tutti che ne suoi paesi di là dallAtlantico era stata regina; e naturalmente si magnificava il suo lontano reame. Quello che non si poteva ingrandire, perchè già troppo grandeggiava da sè, era la sua stupenda bellezza. La sua carnagione dun color caldo oltre il tipo europeo, non appariva neanche tale, smorzata comera e condotta al vermiglio dallo strano onnipotente fulgore delle pupille nerissime. E ferivano, quelle pupille, dovunque si volgessero a caso; e molti si sarebbero lasciati ferir volentieri, a patto di sentirle rivolte a sè con qualche pietosa intenzione. Ma la contessa, nel fatto, non aveva occhi se non per il suo dolce marito, che spesso le accadeva di chiamare Damiano. E a lui più spesso accadeva di chiamarla Fior doro: Giovanna non mai; piuttosto, alla spagnuola, Juana, che riteneva molto del suono di Anacoana. I nomi, si sa, non hanno piccola importanza, in amore.
Anche a lui volevano bene quei terrazzani, più ancora che non lo rispettassero come vassalli. Già, non lo tenevano quasi più per un Fiesco; tanto che, allusanza di Genova, lo chiamavano Bartolomeo delle Indie. Sicuro, e bene prendeva egli il nome da quelle Indie occidentali, dovera stato quattro volte ad ogni sbaraglio, prode soldato, esperto navigatore, singolarmente caro a quellaltro Genovese, così grande e così maraviglioso uomo, che le aveva scoperte per potenza dingegno e di fede. Quanti erano stati con lui partecipavano un poco della sua epica grandezza; perfino i due umili marinai, Guglielmo e Battista, che si erano ridotti a vivere anchessi nel recinto ospitale della Gioiosa Guardia, e che tutti i giorni di festa, infallantemente, seduti allombra fuor della porta del castello, tenevano cattedra di geografia transatlantica. A quei discorsi accorreva sempre più gente che non alle prediche dei frati, i quali pure descrivevano qualche volta le magnificenze del regno di Dio. Ma in queste si sentiva sempre lo sforzo di fantasia di chi non cera mai stato; laddove le magnificenze del nuovo Mondo avevano avuto quei due semplici marinai per testimoni recenti.
Che fossero egualmente veridici non si potrebbe giurare. Raccontavano le cose come se le avessero ancora davanti agli occhi, e raccontandole ne davano il barbaglio agli occhi delluditorio. Si trattava doro, infatti; oro a mucchi, in pagliuole ed in polvere, da tuffarci dentro le braccia fin sopra il gomito; oro ad ogni piè sospinto, a colonne, a pilastri, a scaglioni, a piramidi; oro a bizzeffe, in quel paese di Veraguas, dove bastava smuovere un pochettino le zolle, per trovar le radici degli alberi affondate in quel coso giallo lucente; oro nel fiume dello Yaque, presso San Domingo, ove del prezioso metallo non erano fatte solamente le arene del fondo, ma i ciottoli delle due rive, e i massi e le scogliere delle svolte. Che poesia, quella delloro! E come è nata? Tutta per amore della sua bellezza in sè, o non per lacquisto, che rende così facile, dogni desiderata fortuna?