Sintende che i due narratori non si fermavano alla magnificenza delle cose inanimate. Anche gli uomini, laggiù, erano duna specie insolita; e tra gli uomini il Prete Janni, favolosa figura del Medio Evo, ci aveva la sua parte non piccola. Guglielmo non lo aveva veduto; Battista nemmeno. Personaggi così alti come il Prete Janni non si lasciavano vedere da poveri marinai; ma il grande scopritore del nuovo Mondo sì, lo aveva veduto, gli aveva parlato a lungo, era stato suo ospite, accolto alla sua mensa, nella sua intimità. Quel gran monarca si era tanto innamorato delle virtù di Cristoforo Colombo, che lo avrebbe caricato di diamanti, se questi si fosse risoluto di prender servizio con lui. E si diceva a San Domingo che lodio di Aguado, di Bovadilla e di Ovando contro lammiraglio e vicerè delle Indie fosse nato appunto da questo, che il Prete Janni aveva fatto festa a lui, non volendo veder loro neanche come prossimo; ondera avvenuto che verdi dallinvidia fossero andati ad accusar lammiraglio presso Ferdinando il Cattolico, dipingendolo come uno che era già in via di tradirlo, sottraendo alla corona di Spagna i benefizi della grande scoperta. Sicuramente, lammiraglio poteva far ciò, solo che lo avesse voluto. Il prete Janni lo stringeva tanto colle sue offerte damicizia! Figurarsi, che voleva dargli in moglie sua figlia, ricca come il mare, bella come il sole, e buona come il pan di Natale. Ma il signor ammiraglio non si era lasciato prendere allamo; aveva resistito a tutte le offerte, a tutte le promesse più lusinghiere; tanto più che da genovese sottile sera accorto che la bella aveva un occhio di vetro. Bella, poi, la vantavano tutti alla Corte; ma Guglielmo e Battista non lavevano veduta mai. Unaltra, piuttosto; e quella bella era bellissima; e il loro capitano se lera portata via, quantunque regina, e laveva fatta contessa. Già, tutti i salmi finivano in gloria.
Qui poi luditorio poteva dar ragione ai parlatori, e in piena cognizione di causa. Un tal miracolo di donna non si era visto mai, neanche dai più vecchi, che pure avevano veduta entrare in casa Fieschi madonna Bianchinetta, nel primo fiore della sua gioventù. Che splendore di sposa, quella regina delle Indie! Per lei si era scomodata, e con ragione, tutta la casata dei Fieschi; ed anche gli altri rami minori dei conti di Lavagna, come gli Scorza, i Bianchi, i Della Torre, i Levaggi, i Leivi, gli Zerli, i Cogorno, i Cavaronchi, i Ravaschieri, i Penelli. Il capo dei Fieschi, in persona, leccelso conte Gian Aloise, aveva lasciato Genova e la sua reggia di Vialata, per assistere alla cerimonia, per condurre egli stesso quella regina del nuovo Mondo allaltare. E bella come il sole, poichè non si poteva trovare un paragone più alto; e buona come il pan di Natale, e dotta come un libro stampato. Come parlava litaliano! come il genovese, che è poi la madre lingua dogni buon Ligure, e certamente quella del Paradiso terrestre; specie colla giunta di quella sonora e dolce cantilena chiavarese! Difatti, anche queste finezze aveva imparate in pochi mesi la regina delle Indie. E si andava a sentirla, ma più ancora a vederla, senza stancarsene mai, nelle domeniche, quando la bellissima donna, ritornata dai divini uffizi, scendeva alla porta del castello per distribuire il pane ai poveri dei dintorni. Quei poveri si moltiplicavano come i pani e i pesci dellEvangelio. Cerano molti che si facevano poveri a bella posta: ma erano riconosciuti, e tenuti lontani. Solo alle donne, che usavano di questo sotterfugio per avvicinarsi alla signora contessa, non si faceva il torto di cacciarle; per rispetto al loro sesso si lasciavano accostar tanto, che la signora le riconoscesse da sè.
E voi, che cosa chiedete? diceva ella, ridendo dun risolino malizioso. Non siete già povere, voi!
Oh, signora, siamo bisognose la parte nostra; rispondevano le più ardite. E siamo venute, perdonateci siamo venute a prenderci unocchiata di sole.
Sorrideva, la bellissima donna, arrossendo; e dava un ceffone, con la sua morbida mano; ma tanto leggero, che pareva una carezza, ed era ricevuto con divozione, come la guanciata del vescovo alla cresima.
Qui non voglio altri che poveri, avete capito?
Così conchiudeva, volendo parere sdegnata. Ma cera tanta soavità daccento nel rimprovero, e tanto sorriso nello sfolgorìo di quegli occhi scorrucciati, che le buone valligiane di Carasco, di Graveglia e di Paggi levavano le mani in atto di adorazione, come se avessero veduta la Madonna, e in cuor loro promettevano di ritornarci la domenica vegnente.
Gioiosa Guardia, davvero, sotto la benefica luce di quegli occhi celestiali. Ma qualche volta su quei begli occhi si stendeva un velo di mestizia. Passavano allora le immagini di un altro popolo, assai più numeroso, amante anche quello e devoto, ma che aveva la sua quiete, la sua sicurezza da lei, e non era avvezzo a provare più gran gioia nella vita, di quando si raccoglieva estatico ad ascoltarla, rapito ai suoni del maguey, agli accenti soavi dellareìto Povero popolo dItiba! come lo avevano ridotto allo stremo quei feroci conquistatori spagnuoli, deludendo i nobili disegni del Giocomina, del venerando condottiero dei Figli del Cielo! Ma se il ricordo dItiba era triste, la bella ed infelice regina di Xaragua aveva imparato molte cose nella terra di Azatlan. Era disceso su questa terra un altruomo dolce, buono, compassionevole ai mesti, un uomo divino, e avevano voluto sperimentarne la virtù infinita mettendolo in croce come un malfattore; poi si erano pentiti, lo avevano riconosciuto in ispirito e verità, gli avevano eretto altari, e lo adoravano, e lo mettevano in croce ogni giorno, disconoscendolo, bestemmiandolo, negandolo nei giorni della spensierata allegrezza, per invocarlo nellora della paurosa avversità, superbi a vicenda e codardi, sopra tutto eternamente fanciulli.
Perciò qualche volta accadeva anche a lei desser mesta. Ma quelle erano le nubi passeggere, candidi fiocchi vaganti, che macchiavano allorizzonte un bel cielo destate, senza turbarne il sereno. Ed era felice, oramai, quanto è dato a creatura umana sulla terra; felice per quelluomo che viveva adorandola, e non si muoveva di là, dove laveva condotta a rifugio. Che amasse la sua rocca e il suo poetico Entella, non si poteva dubitare, poichè tante volte lo diceva egli stesso. Ma non così aveva amato quel fiume e quelle mura negli anni della adolescenza, quando animoso cacciatore batteva le macchie, ed era sullAntola o sul Penna più spesso e più volentieri che in casa. In quel castello era nato; su quelle rive beate era cresciuto, ricco, orgoglioso del nome e della potenza che confortava quel nome; e giovane si era mescolato in Genova alle zuffe micidiali del tempo, avendone presto la sazietà. Curioso di dottrina, o più vago di novità, aveva atteso agli studi nella università di Pavia, riportandone come un fastidio danni sciupati; ondegli non aveva cercato nella quiete della sua terra il rimedio alle pene del cuore, ma si era buttato per morto alle imprese del mare. E quali imprese! Non già per diventarci padron di galere, e da fortunati scontri aver lustro e potenza come tanti altri suoi pari e consorti, per vantaggio di una casata che omai ridiventata padrona dellantico dominio, lo aveva allargato quasi a reame, dallAppennino al mare e dalla Scrivia alla Magra; bensì per tentare un cammino ignoto, col rischio di giungere ad un punto donde il naviglio si sprofondasse nel vuoto. Orribile chiusa, e creduta allora certissima! Il guaio non gli era occorso; aveva potuto ritornare, e con la sua parte di gloria. Pure, ricondottosi a casa, non aveva potuto star fermo; viaggi su viaggi, fortunali e vitacce da cani; spesso in pericolo dandar pastura ai pesci, più spesso di buscarsi un colpo di freccia avvelenata; prigionia tra i selvaggi, condanna a morte, agonia a fuoco lento, nulla aveva potuto corregger lumore vagabondo del gentiluomo marinaio, di quellargento vivo. Ed ecco, di punto in bianco, il gran cambiamento: quellumor vagabondo, quellargento vivo, sera chetato ad un tratto: lui tutto casa, lui tutto fiumana bella, lui tutto moglie, e innamorato per giunta, come un ragazzo di ventanni. Ma ecco, il segreto del mutamento era qui.
Come sei buono, Damiano! gli bisbigliava Fior doro.
Sfido io! rispondeva egli, con quel suo piglio che volentieri girava al comico. Son buono, perchè sono felice. E sono felice
Perchè? domandava lei, con accento di cara malizia.
Perchè ripigliava Damiano, girando un po largo, per voglia di ridere. Perchè ci ho la mia Gioiosa Guardia che amo tanto
Giustissimo; e la tua fiumana bella suggeriva lei, prestandosi al giuoco assai volentieri. Con queste due cose
Con queste due cose ci sarebbe anche da morir di noia; proruppe Damiano. Le avevo, e non mi sono bastate. Diciamo dunque, per essere nel vero, che ci ho te, cara donna adorata. La più bella donna, nel verde più vivo, sotto il più dolce azzurro del mondo, ecco la felicità vera ed unica. Ed ecco quello che io volevo dire, contessa Juana, se voi mi aveste lasciata fare la mia progressione ascendente.
E non ve lho lasciata fare, da quella gran cattiva che sono! Ma voi me ne punite tanto severamente, che avrei voglia di rifarmi da capo. Per altro, soggiunse ella, mettendosi sul grave, dicono che un bene posseduto non sia più un bene.
Vedete che logici da strapazzo! replicò Damiano, ridendo. Il bene è il bene, di qui non si esce. Se si mutasse, sarebbe unaltra cosa, ne convengo. Ma come potrei volerlo mutato? In più no, perchè io ho tutto quello che desideravo. In meno, neanche, perchè quello che desideravo lo desidero ancora: e questo è il fatto, la condizione su cui possiamo fondare il nostro ragionamento. Ho io studiata bene la mia logica?
Eh, non voglio dire di no. Il mio signore ha sempre ragione. Ed era il bel sogno, questo, dissella traendo un sospiro, il bel sogno che ho sognato con te. Il bel sogno si è finalmente avverato; o Dio, tra quanti pericoli, tra quante angosce mortali! Se cè giustizia in terra, il bel sogno non dovrebbe finire.
Così dico io; conchiuse Damiano. Non dovrebbe, non deve, non dovrà. Dimmi, Fior doro; sei tu sicura di te?
Oh sì, di me gridò ella, levando gli occhi al cielo. Ed anche di te, soggiunse tosto, anche di te, conte Fiesco, che sei così nobile spirito e così candido cuore. Ma non presumi troppo delle tue forze e della natura umana? È della donna amare, e saperlo far bene, non sapendo far altro: è delluomo loperare, il faticare in qualche utile impresa, per deludere la sazietà per vincer la noia E per questo, me lo lasci dire?.. per questo, bisognerebbe forse mettersi a far qualche cosa.
Tremava un pochino, parlando così, e mendicava le parole. Ma ebbe il pronto conforto di sentirsi dar ragione da lui.
Sicuramente; dissegli. Ci pensavo appunto stanotte, mentre tu riposavi, Fior doro. Bisognerà far qualche cosa. Ed ho trovato.
Ah sì? E che sarà?
Continuare ad amarti; rispose gravemente Damiano, facendo cadere dallalto, luna dopo laltra, le sillabe. Vi ho lungamente contemplata, amica mia; vi ho pure abbracciata, ma guardingo, sapete, con mano leggera leggera, per non rompervi il sonno, che era così dolce; ed ho pregato Dio che non mutasse niente, che lasciasse tutto così, come ha tanto saviamente disposto, nella sua misericordia infinita.
E voleva dare in una risata; ma non nebbe il tempo. La contessa Juana rideva già più di lui, non senza lagrime; quelle care lagrime che tanto abbelliscono ogni profonda allegrezza. E un po tardi, ma in tempo, gli ricambiava labbraccio.
Capitolo II.
Ambasciator non porta pena
Ma ritorniamo una seconda volta, e sia la buona, al nostro don Garcìa, che con tanta attenzione seguiva le vicende di un bellissimo giuoco. Proprio si arriva al punto che la piacevole occupazione gli era interrotta dallavvicinarsi dun famiglio, le cui prime parole ebbero virtù di farlo balzar subito in piedi. Molestie dellufficio, naturalmente; e la Guardia non poteva esser sempre gioiosa, pel suo degno custode.
Ci abbandonate? gli chiese frate Alessandro, che per fortuna di giuoco veniva ad essergli più vicino, e lo vedeva muoversi di scatto dalla panca.
Per forza; rispose don Garcìa. Ed anche, diciamolo pure, con un certo piacere. Arriva il nostro Giovanni Passano.
La nuova si sparse fra gli altri giuocatori, e la partita fu subito interrotta, come la piacevole occupazione di don Garcìa. Il Passano aveva amici da tutte due le parti; e se si contentavano di piantar lì la giuocata quei che avevano il disopra, con quaranta e la caccia, era naturale che non si dolessero quelli che savviavano a perdere, non avendo che un quindici.
Giovanni Passano, al suo smontar da cavallo nel cortile della Gioiosa Guardia, fu accolto a festa dai suoi vecchi compagni dHaiti e della Giamaica.
Che buon vento vi porta? gridavano a gara, stringendogli la mano. Finalmente! Bisognerà metterci il segno per ricordo, stamparla, toccarsene un occhio. Sapete che ci mancate da un mese?
Eh, si fa come si può; rispondeva il Passano, commosso da tutte quelle dimostrazioni damicizia. Appena levati i piedi dagli impicci, eccomi qua. Pietro Gentile! Guglielmo! Battista! frate Alessandro, che per riverenza alla tonaca dovevo metter primo di lista!.. Quantunque, soggiunse ridendo, al vedere tutti quei grembi e sboffi fuor dal cordone di san Francesco, mi pare che la portiate sempre alla diavola. Giuocate al pallone, vedo. È un bel giuoco; ma non da frati.
Chi ve lha detto, messer Giovanni? Nessun testo lo proibisce; e ce nè uno che forse li permette tutti. Ma sì. Servite Domino in laetitia; lo raccomanda il Salmista. Volete giuocare anche voi?
Eh! se non fossero quattrore che mangio polvere, e che mi fiacco le reni col cavallo più indiavolato della cristianità A proposito, mi fareste un gran piacere ad esorcizzarlo collacqua santa.
O voi col vino di Vernazza, piuttosto.
Il vino di Vernazza fa bene alluomo; conchiuse gravemente il Passano, mentre si avviava colla brigata verso lingresso della seconda cinta. Qui, infatti, ci ho un testo sacro ancor io; vinum bonum laetificat cor hominis. E il signor conte? ripigliò, con accento mutato, parlando a don Garcìa. E la signora contessa?
Benissimo; rispose lo Spagnuolo. E vi direi che sono là bene accostati sul medesimo ramo, come due tortore innamorate, se fosse almeno ora di giardino. Saranno invece nella caminata, lei col suo tombolo a far merletti, lui a metter del nero sul bianco.
Ma anche a far merletti e a scrivere si può star molto vicini, non è vero?
Oh questo poi sì; alla medesima tavola, per non perdersi docchio. Vi faccio annunziare, mentre bevete un bicchiere?
No, non occorre; rispose pronto il Passano. Non dico per il bere, intendiamoci; dico per il farmi annunziare. Non cè premura; è una visita senza impegno, la mia. A presentarmi, ci sarà sempre tempo per la cena.
Ah, mi levate una spina dal cuore; disse quellaltro, mentre lo faceva entrare nel tinello, al pianterreno della rocca. Avrei giurato a tutta prima che veniste per portarci via il padrone. Che ci volete fare? Presentimenti; e fortuna che qualche volta ingannano! Laltro giorno, passando di qua messer Filippino, che, sia detto con la debita reverenza al casato, ha sempre la lingua un po amara, si lasciò sfuggire certe parole! Che Gioiosa Guardia! diceva; che Gioiosa Guardia! Dormigliosa, dovreste chiamarla. Con Ercole che fila ai piedi di Onfale. Io, per dirvi la verità, non conoscevo questa signora, ed ho dovuto farmi spiegare larcano da frate Alessandro. Ne sapeva poco più di me, quel bravo figliuolo; ma tanto da capire che si trattasse duna donna, la quale faceva perdere il tempo al dio della forza. Il nostro conte, veramente non fila, e nemmeno la contessa; quantunque, se filasse, vi so dir io che con quelle sue dita darebbe dei punti alle fate. Ma io ho bene inteso, dopo la spiegazione di frate Alessandro, che cosa volesse dire messer Filippino. Il padrone non si occupa se non della padrona, e lascia che gli altri della casata facciano e disfacciano a modo loro le cose della Repubblica. Ma di che si lagnano, se mai? Egli tira le mani e i piedi fuori del giuoco; li lascia dunque padroni; non vi pare?