Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar lanimo dei Pisani, mandando loro un altruomo per chiedere se il valido e sicuro aiuto dun gran signore genovese non potesse convenir loro assai più dellincerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti, occorreva che luomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente agli interessi del futuro padrone.
Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi e piccole, che gli argomenti tutti delloratore e tutti i lenocinii dellarte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il capitano Fiesco accettava di esser egli luomo per Pisa, il partito di soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune dItalia.
Ma il capitano Fiesco non voleva esser quelluomo. Più sentiva ragioni che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da sè stesso.
Ahimè! dissegli, quando vide venire quellaltro a mezza spada. Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce fuor dacqua, penso che nella parte militare dellimpresa fallirei per precipitazione, che è il guaio dellindole mia, e di cui non son mai riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.
Ma pensate, replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia, pensate che sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben sapete quantè. Lavreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.
Ripeto, non è il fatto mio; ribattè Bartolomeo Fiesco. Voi mi fate più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha comandato i cento, e magari i cinquecentuomini, può ritrovarsi con diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.
Eh via! sha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la lode e laffetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica perder la testa in una faccenda che deve andare da sè.
Se deve andare da sè come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che mostrate di stimare più chegli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia risolutezza, dovrebbe bastare.
Risolutezza e perspicacia; ripigliò Gian Aloise. E perspicacia ed ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?
No; rispose Bartolomeo Fiesco.
Per un Fiesco, è nuova; ribattè Gian Aloise. Per Bartolomeo delle Indie, è strana.
Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la pazienza non era mai stata il suo forte.
Ecco; dissegli, assumendo a suo modo una certaria di gravità e promettendo colla solennità dellaccento un lungo discorso; facciamo ad intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene. Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale. Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci, da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male, meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.
Spaziate come unaquila, cugino! esclamò Gian Aloise.
E sarò un nibbio, poi; rispose il capitano Fiesco. Ma vedo, se permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato di più in compagnia dun uomo grande, lunico grande che mi offrano le storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre vanità, quando vanno più alte. Il mio granduomo, col suo ingegno e colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quellaltro, con la sua forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.
Povero a voi, se foste vissuto a suoi tempi! neanche un paladino avreste voluto diventarci?
Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo, avendo la Riviera di Levante per via, e la foce dArno per meta, sia pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere lutilità, non ne vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia, niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del crescite et multiplicamini. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra millanni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno, ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un po del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.
Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri; notò Gian Aloise imbizzito.
E faran bene, vedete? ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco. I vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire, avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera, nellopera stupenda, indimenticabile, eterna, dun uomo nuovo, dun marinaio, dun lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete, oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che mera più a grado, e il cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la certezza duna pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco lonore e la sicurezza dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal posto mio non mancherei allappello. Ma questo per difesa, e sentendo la voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come lultimo deglimbecilli. Facciamo lobbligo nostro, cediamo alle necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei vincoli cari chegli stesso sè imposti. Non mi date ragione?
Siete un bel matto; disse Gian Aloise, ridendo.
La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebbegli potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, luomo che potesse andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto comera, leccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile, egli avrebbe perduta, non che limpresa, la fama.
Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando di parlar daltro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo; i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere leredità di tutti, avendo poi da Maria della Rovere lultimo dei Gian Luigi, e il più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone dun uomo nuovo, dun lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo. Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte avevano contratto parentado con essi, e da trecentanni si erano illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.
Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior doro, lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei, certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti alleccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da quellalzata dingegno del giovane innamorato!
Il capitano Fiesco aveva preveduto leffetto del suo rifiuto sullanimo di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.