Raggio di Dio: Romanzo - Anton Barrili 8 стр.


Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi il parere.

 È cortesia lo andare;  disse madonna Bianchinetta.  Se tu non puoi accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per iscritto.

Si volse egli allora a sua moglie, e nebbe queste parole:

 Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si verrebbe meno alla fede di un tantuomo, non andando alla chiamata.

 Ah! siate lodata, madonna Juana;  gridò Filippino giubilante.  Sarete voi la fortuna di casa Fiesca.

Fior doro non potè trattenersi dal ridere.

 Vedete,  dissella,  da che distanze doveva ella venire!

 Eh!  rispose Filippino.  Le vie della Provvidenza son tante! Si partirà dunque domattina;  soggiunse.  Gian Aloise sarà così lieto di riverirvi!

Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.

 Voi mi mettete dun viaggio che io non farò certamente;  rispose Fior doro.  È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni che vorrà durarne lassenza.

 E se durasse di più?  domandò Filippino, che non voleva darsi per vinto.

 Allora allora, si vedrebbe;  rispose conchiudendo Fior doro.

Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva alla moglie:

 Filippino mi annoia.

 Annoia anche me;  rispose Fior doro.  Ma è giovane; si cheterà. Intanto bisogna riderne.

 Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno, e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dalleccelso Gian Aloise Fiesco, potentissimo tra i signori dItalia, ed amicissimo del re di Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.

 Vedi?  gli disse sorridendo Fior doro.  Bisogna andare, perchè non nabbia a scrivere altrettante.

 Andare,  riprese Damiano, più Damiano che mai in quellora,  e dirgli quel no, che avrei potuto mettere in carta?

 Non è certo,  replicò la bellissima donna,  che quel no si possa scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più forte, che toccasse lutilità della casa e lonor del tuo nome. La ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato lasprezza le parole cortesi e la stessa tua condiscendenza allinvito.

Damiano guardò Fior doro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.

 Bella bocca!  le mormorò.  Bella bocca, che parla così bene!

 Bella!  ripetè ella con accento malizioso.  E non cara?

 E bella e cara,  gridò Damiano, con uno de suoi impeti di passione,  e, se vi piace di saper tutto, adorata.

Capitolo V.

Al soccorso di Pisa

Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale Viovâ per rifarsi ancora italiano in Violato e dar occasione a qualche moderno di derivarlo dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza diffondevano intorno. Chi sente larcana poesia dei fiori può anche contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di suscitare graziosi pensieri.

Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la mole dellantico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di vele, che uscivano dal porto o venivano allapprodo, passando sotto i suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle dAlbaro, colla imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.

Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che dallAcquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente, ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato appena il convento e la chiesa de Servi, si levava pel dorso della Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale delledifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica, onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre, inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con bellarte dintagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro, rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto, certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare dun capo daquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli scudi e larme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè mancava la conoscenza ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era murata la targa indicante il privilegio dimmunità dalla forza della giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli delledifizio, si vedevano scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni ultra quae non licebat satellitibus homines infestare.

Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nellanno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dellarte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone lorgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.

Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII, che alloggiò in Vialata nellanno 1502, ebbe a dire, certamente prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia. Io, per amore dellarte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove; motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata, abbattendone lorgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo fastoso.

Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dellAquila, finalese, e da Giacomo Serfoglio, da Salto, leccelso Gian Aloise ricevette il parente aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce, alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale. Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna, riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo; idrie, guastade dargento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti dargento istoriato, confettiere dargento niellato alla barcellonese. Ma più assai delle opere dorefice, più ancora duna collana di grosse perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi onderano coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal piede dargilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.

Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò leccelso Gian Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin dallora si chiamava da consigli poichè già si fabbricava a quelluso, di coprir tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno debano intarsiato, nel manico dargento del temperatoio, e sul pernio delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il consapevole orgoglio dun principe. Non ci maravigliamo se mirasse al dominio di Pisa.

Dallanno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero maggiormente limperio, poichè non solo questi agognavano loccupazione di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si accoglieva lambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi. Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso, salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quellaltre, che pur da talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dallaltro. Ma lappoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro, e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali, lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV, in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel primo trentennio del secolo XVI andar pienamente daccordo i Fieschi coi Doria.

Tornando alle offerte di Pisa, comerano fatte solennemente al Senato genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa. Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante. Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che la Riviera di Levante aperta a quellesercito; onde per allora scemata lautorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto lutil dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei Fieschi.

Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa. E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse lui, se nesplorasse lanimo, prima di deliberare il soccorso di Pisa. Così nascevano le due ambasciate dufficio; una ai Pisani, per dar buone parole, laltra al re Luigi, per averne il parere.

Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar lanimo dei Pisani, mandando loro un altruomo per chiedere se il valido e sicuro aiuto dun gran signore genovese non potesse convenir loro assai più dellincerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti, occorreva che luomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente agli interessi del futuro padrone.

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