La montanara - Anton Barrili 2 стр.


Così erano alienati dalla restaurazione gli animi di quei medesimi che l'avevano invocata. Frattanto, il giovane Piemonte reggeva contro le esortazioni e perfino contro le minacce dei consiglieri settentrionali. Generalmente, non s'intendeva come fosse spalleggiato, incuorato a resistere, e pareva strano quell'ardimento di un piccolo Stato che manteneva, unico in Italia, la sua costituzione liberale ed ospitava i fuorusciti, i naufraghi di tutte le rivoluzioni della penisola. Ma già tutti intendevano come da quella diseguaglianza di forme e d'indirizzi, che era visibile tra esso e gli altri Stati italiani, dovessero nascere attriti, malumori, quistioni grosse, e un giorno o l'altro ragioni di guerra.

E poi, quel piccolo Piemonte, che pochi anni addietro aveva dovuto rimettere la spada nel fodero, che aveva dovuto ricevere entro le mura di Alessandria un presidio nemico, sentendo suonare dalla sua musica schernitrice l'inno dei Fratelli d'Italia, quel piccolo Piemonte aveva sollecitamente provveduto a riordinare l'esercito. Un bel giorno, che è, che non è, quel piccolo Piemonte osava mandare ventimila uomini a combattere nella Crimea, accanto agli eserciti di Francia e d'Inghilterra. Le condizioni d'Europa incominciavano a chiarirsi: Francia e Inghilterra da un lato; Austria e Stati minori della Germania dall'altro. Si metteva da questo anche la Russia? Dall'altro si aggiungeva la Turchia. Erano ancora tre contro tre, e il Piemonte nel mezzo, il Piemonte, che, vincendo al ponte di Traktir, accennava di voler crescere ancora, e chi sa, di rifar esso l'Italia.

Questi i fatti d'allora; queste le ragioni per cui non era mestieri di cospirare, la rivoluzione essendo nell'aria, come l'ossigeno. Quind'innanzi non sarebbe più bisognato dare il proprio nome ad una società segreta, ordire focosi disegni di rivolta a giorno fisso, farsi spiare, correr pericolo di tradimenti e d'insidie. Una parola colta a volo, un'occhiata, una stretta di mano e un sorriso, dicendo le comuni speranze, affratellavano i cuori. Che bisogno c'era egli di dire il giorno e l'ora, se l'uno e l'altra erano vicini? Poteva battere da un anno, poteva battere da due; ma a chi aveva tanto sofferto, a chi ricordava tanti secoli di servitù e di vergogna, due anni, tre anni, anche quattro, si potevano aspettare, maturando i propositi della riscossa. Ormai questa non doveva mancare; i giovani di quella generazione sentivano istintivamente che ne sarebbero stati essi i soldati.

Il conte Gino era uno di questi cospiratori, senza giuramento e senza parola d'ordine. A Torino, dove la polizia s'immaginava ch'egli avesse preso accordi con qualcheduno, a Torino egli non aveva fatto altro che respirare un po' d'aria libera. Neanche s'era avvicinato a fuorusciti modenesi o parmensi, che egli, figlio di cortigiani ducali, conosceva solamente di nome. Per altro, aveva passeggiato sotto i portici di Po, dove si confondevano tutte le parlate d'Italia, quasi prenunziando l'unità della patria intorno all'aula del palazzo Carignano; aveva incontrato Giovanni Prati e Giuseppe Revere, i due poeti, i Diòscuri della nuova êra italiana, amati, seguiti, acclamati dalla gioventù pensante e volente; aveva udita la tribunizia eloquenza del Brofferio, e la diplomatica parola, qualche volta impacciata, ma sempre piena di pensiero, del conte di Cavour; aveva veduto per via, riverito universalmente, un re soldato, un re galantuomo, che pareva col mobile sguardo prometter sempre un'alzata di scudi per il giorno vegnente; a farvela breve, nei passeggi, nei ritrovi, nei parlamenti, nelle rassegne militari, dovunque, aveva indovinata la cura operosa dei tempi grossi; sentito quasi l'odor della polvere.

E questo, ritornando a Modena, questo aveva comunicato, senz'aria di mistero, come senz'ombra di millanteria, a giovani della sua età, sebbene, come diceva il direttore di polizia, «non convenienti al suo grado.» Dèi buoni! Quelli erano stati i suoi compagni di studio, i suoi colleghi d'università. Come mai avrebbe potuto egli non considerare uguali coloro che erano stati seduti con lui sulla medesima panca, a sentire le medesime lezioni? Più saggi dei moderni, quantunque niente più fortunati, i tiranni antichi avevano lavorato a rendere la nobiltà ignorante. L'istruzione, a tutti egualmente impartita, accomuna le classi, colma gli abissi e sopprime i confini. Che conti e che marchesi? Queste distinzioni, quando non sono una giunta particolare e naturalissima al nome di famiglie veramente storiche (nel qual caso si potrebbero anche ommettere, senza toglier lustro a que' nomi), non hanno più valore che per le dame, essendo dimostrato che una corona di tre fioroni, o di nove perle, fa ancora un bel vedere sui biglietti di visita e sugli sportelli delle carrozze. Povera feudalità, ridotta ad un semplice ufficio decorativo! Ma siamo giusti, perbacco, e non dimentichiamo che la corona sullodata sta anche bene sulla biancheria, come a dire sui capi delle tovaglie e dei fazzoletti da naso.

Ai suoi buoni amici plebei, compagni d'università e fratelli di fede, il conte Gino Malatesti non aveva nulla da scrivere. L'offerta di Giuseppe non poteva dunque favorire la politica. Ma il pensiero di Gino, svegliato da quella offerta inaspettata, corse subito ad altro.

 Tu, dunque,  diss'egli, dopo un istante di pausa,  mi servirai fedelmente? Ad ogni rischio? E mio padre non saprà nulla?

Ad ognuna di quelle domande aveva risposto con bella progressione di calore un sì del suo compagno di viaggio.

 Bene;  ripigliò il conte Gino;  tu puoi rendermi un servizio maraviglioso. Non mi hanno permesso di fare neanche un saluto, temendo forse che il saluto nascondesse Dio sa che cosa! Tu dunque andrai domani, o doman l'altro, al palazzo Baldovini, con un pretesto qualunque Potresti, per esempio, riportare un libro, che mi è stato imprestato: il Mauprat, di Giorgio Sand, che è per l'appunto rimasto sul mio tavolino. Con questa scusa cercherai di vedere la marchesa Polissena, e potrai consegnarle il biglietto che io ti scriverò alla prima fermata.

 Non dubiti, illustrissimo;  rispose Giuseppe;  farò la commissione a dovere. Anche la signora marchesa,  soggiunse poscia, abbassando la voce,  è della buona causa?

Gino trattenne in tempo una risata, che già gli faceva impeto alla gola. Ma era buio fitto, e Giuseppe non vide neanche la contrazione dei muscoli.

 Ah!  disse Gino.  È una dama di alto sentire. Tu le darai notizie di me, del modo in cui son dovuto partire da Modena. Forse domani la cosa sarà conosciuta; ma la marchesa deve sapere che io avevo tentato di vederla. Il biglietto, poi, come farglielo giungere?.. Se ti frugano, alle porte?.. Capirai che un sospetto può nascere

 Sospetti su me, illustrissimo? Non ne hanno.

 Bravo! E come lo sai?

 Ne ho avuta la prova;  rispose Giuseppe, sospirando.  Si figuri che m'hanno domandato di fare la spia. Ed io ho ricacciata la mia rabbia in corpo, ed ho lasciato credere che al bisogno avrei anche traditi i miei padroni. Volevano sapere chi bazzica in casa, che discorsi si fanno Ed io ho detto tutto; s'immagini; non c'è niente da nascondere.

 Lo credo bene!  esclamò Gino.  Ma è strano, sai! È strano che non si fidino neanche di mio padre.

 Che vuole, illustrissimo? Così è;  rispose il servitore.  Ma io li ho serviti bene, da vecchio carbonaro.

 Carbonaro, tu, Giuseppe?

 A quei tempi, sì.

 E in casa di mio padre?

 Ho sempre fatto il mio dovere, signor conte.

 Lo so, e non parlavo per questo;  disse Gino.  Ti esprimevo la mia meraviglia e nient'altro. Chi lo avrebbe mai immaginato che ci fosse un carbonaro, in casa Malatesti!.. E nel Quarantotto, poi, come hai fatto a tenerti in corpo il tuo segreto?

 Amavo la casa, illustrissimo; amavo i figli del mio padrone, che erano cresciuti così belli e fiorenti sotto i miei occhi. Ma anche tenendomi il segreto in corpo, come Ella dice, ho fatto quanto era in me, per servizio della buona causa. Fu bene che avessi nascoste con tanta cura le mie opinioni, perchè, quando venne la restaurazione, nessuno dubitava del vecchio servitore di casa Malatesti, ed ho potuto rendere qualche grosso servizio ai patrioti.

 Bravo Giuseppe! Tu mi parli con una confidenza!

 Signor conte, Ella è dei nostri;  rispose Giuseppe.  Non la mandano in esilio, per questo?

 È vero;  disse Gino, che a quella parola «esilio» si sentiva crescere di qualche cubito nella propria estimazione.  Tu dunque sei per me l'inviato della provvidenza. E mi porterai il biglietto. Ma se ti frugano, laggiù?

 Se mi frugano, non troveranno un bel nulla. Ci son tanti modi di nascondere un pezzettino di carta! Lasci fare a me, signor conte; e nella rivolta della giacca, o nella fodera delle maniche

 Bene, bene!  interruppe Gino.  Ne parleremo a Paullo. L'essenziale è di far sapere ciò che mi è occorso alla marchesa Polissena.

L'idea di poter mandare un biglietto alla bella Baldovini calmò gli spiriti esacerbati del conte Gino, il quale finì con pigliar sonno. Quando si svegliò, la carrozza entrava a Paullo.

Il servitore avrebbe potuto accompagnarlo fino a Pievepèlago ed anche fino a Fiumalbo, dove, per andare a Querciola, sarebbe bisognato abbandonare la strada maestra. Ma il conte Gino preferì che Giuseppe ritornasse a Modena, tanto gli premeva di mandar sue notizie alla marchesa Polissena. E là, nell'osteria di Paullo, sopra un foglietto di carta, strappato dal suo taccuino, scrisse pochi versi a punta di matita. Avrebbe potuto scrivere una lettera; ma sarebbe riescita troppo voluminosa, e il vecchio carbonaro non avrebbe saputo dove nasconderla, mentre un bigliettino, convenientemente arrotolato, poteva celarsi da per tutto, anche in una cucitura ribattuta degli abiti.

Il biglietto del conte Gino alla marchesa Polissena diceva brevemente così:

«Saprete il caso che mi è toccato. Mi mandano a confine in Querciola, alle falde del Cimone, fuor del consorzio dei viventi peggio ancora, lontano da Voi. Ne perderò la ragione; non mi parrà di vivere, fino a tanto non riceverò una vostra lettera. Il portatore di questo foglio mi è affezionato, e in qualunque modo mi farà avere i vostri caratteri. Addio! Mi si spezza il cuore, nel dover scrivere questa triste parola. Speriamo di mutarla in un arrivederci, e presto! Vi amo.»

Suggellò il biglietto, dopo averlo piegato più stretto che potè, e lo consegnò al fido Giuseppe.

 E dimmi,  gli soggiunse,  potrai farmi avere ad ogni modo la risposta?

 Non dubiti, illustrissimo; se una risposta ci sarà, gliela manderò certamente.

 Troverai persona fidata e sicura?

 Troverò tutto; Ella non si dia pensiero di ciò.

 Ad ogni modo, mi scriverai anche tu?

 Sì, illustrissimo; purchè Ella non rida della mia mano di scritto e dei miei errori d'italiano.

 Va là!  disse Gino.  Tu pensi da buon italiano, e questo è l'essenziale.

Dopo di che, il giovanotto abbracciò il servitore e s'incamminò per la via dell'esilio. Erano le cinque dopo il meriggio, quando egli giunse a Fiumalbo, e salutò la petrosa balza del Cimone, tinta di rosso dai raggi obliqui del sole, che andava a nascondersi dietro l'Alpe di San Pellegrino.

Capitolo II.

I re della montagna

Il Monte Cimone, alle cui falde era confinato il conte Gino Malatesti, è la più alta vetta dell'Appennino centrale. Duemila centocinquantasei metri sul livello del mare non sono ancora l'altezza del Monte Bianco; eppure il Cimone è debitore a questa sua elevatezza metrica di esser chiamato il Monte Bianco degli Appennini; modesto e generoso Monte Bianco, che per uno o due mesi dell'anno si lascia togliere dalla calva cervice il suo berretto di neve.

Alpestre, poco agevole ai piedini d'una bella signora delle nostre città, è il fianco del vecchio Cimone; ma la sua salita non offre difficoltà all'alpinista che all'ultimo passo, quando occorre, per guadagnarne la vetta, inerpicarsi sul petroso cono formato dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. Ho detto il petroso cono, e infatti il Cimone presenta da lungi la forma di un cono, rozzamente tagliato, con la vetta spuntata in un pianoro, che ha forse cento metri di giro. A greco il balzo è più scosceso che dalle altre parti, e al piè della roccia, dove incomincia a distendersi il Pian Cavallaro, sgorga la Beccadella, una ricca fonte che basterebbe da sola a far girare la ruota d'un mulino. E quella fonte non è la sola, nè la più alta del monte. Ce n'è qualche altra più in su, verso levante, dalla parte del Cimoncino, con grande meraviglia dei signori naturalisti, a cui, più della salita, riesce arduo di spiegare una così alta origine di copiose sorgenti.

Invito i miei lettori ad una ascesa che non sarà senza compensi. Bolognesi e Modenesi non si terrebbero per alpinisti, se non fossero andati almeno una volta lassù. Le limpide mattinate son rare, pur troppo; ma quando il vecchio Cimone non ha il suo cappello di nuvole, quando sul piano, dintorno a lui, si diradano le nebbie, la veduta è stupenda, dall'Adriatico al Tirreno, dalle Alpi tirolesi, svizzere e francesi, fino alle Maremme e alle isole dell'Arcipelago toscano.

Mentre noi abbiam fatta l'ascensione del monte, il nostro viaggiatore è smontato alle prime case di Fiumalbo. Di là, per andare a Querciola, il conte Gino doveva lasciare la strada maestra e piegare a sinistra, ma per una via meno agevole e con altri mezzi di trasporto. Perciò, consigliato dal vetturino, era disceso davanti alla porta d'un molino, dove una frasca indicava che il mugnaio faceva a ore avanzate anche l'oste, e dove molto probabilmente il nostro Gino avrebbe anche potuto trovare una cavalcatura e una guida per andare a Querciola. Smontato, adunque, e accolto con tranquilla urbanità dal mugnaio, chiese tutto ciò che gli bisognava, incominciando dal desinare.

L'oste mugnaio nuotava nell'abbondanza; ma non aveva lì per lì nulla di pronto. Se il viaggiatore poteva aspettare, egli sarebbe andato a cercare una gallina sul prato, dietro alla casa, e la sua donna non avrebbe indugiato troppo a fargli un brodo conveniente. Ma il conte Gino sentiva gli stimoli della fame, e di una fame da viaggiatore che ha ventisei anni. In pari tempo, sentiva dalla cucina un grato odore di lardo. Il mugnaio cuoceva la minestra per la famiglia. Orbene, e non si poteva mangiar di quella, senza aspettare il brodo di là da venire? Se c'erano delle galline, sicuramente non mancavano le uova. Egli dunque avrebbe sorbito un paio d'uova calde, e magari due paia. Un pezzetto di cacio sarebbe bastato per finire il suo pranzo, che a quell'ora, con quell'aria, e dopo tante ore di viaggio, si poteva chiamar luculliano.

 Se si contenta Lei, facciamo pure così;  disse il mugnaio.  Teodemira, una tovaglia di bucato e una posata al signore. Badi, sono di ottone, le posate.

 Tanto meglio;  rispose Gino.  Sembreranno d'oro.

La minestra fumante venne in tavola, e il nostro eroe assaggiò la minestra. Era buona, e sarebbe anche stata migliore, se dalla cappa del camino non fosse caduto un po' di fuliggine entro la pentola scoperchiata. Non crediate che il conte Gino la respingesse per così piccolo guaio. L'elegante giovanotto, lo stomaco delicato, che si era già adattato benissimo al condimento montanaro del lardo, si contentò di ritirare con la punta del cucchiaio i grumi di fuliggine galleggianti sulla liquida superficie. Che cos'è infine la fuliggine? Fumo di vivande, condensato lungo le pareti di un camino. Gli antichi, nei loro sacrifizî, in cui erano insieme sacerdoti e cuochi, non offrivano forse il fumo agli Dei?

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