La montanara - Anton Barrili 3 стр.


Mentre il conte Gino attendeva a quella cura, e non senza ridere un pochino del caso suo, un nuovo personaggio entrò nella sala. Era un giovinotto alto e bruno, vestito d'una cacciatora di velluto verde d'oliva; portava le uose di cuoio alle gambe, teneva ad armacollo un bel fucile a due canne, e sulla testa un cappellaccio nero di feltro. Ma questo, da uomo bene educato, se lo levò subito, alla vista del forastiero, scoprendo una capigliatura folta, ricciuta e nerissima.

 Oh, signor Aminta, buon giorno!  disse il mugnaio, andandogli incontro, con atto rispettoso.

 Buon giorno, Gasparino!  rispose quell'altro.  E il grano?

 Per domani, signor Aminta.

 Come? Ancora domani?

 Che vuole? Era tanto! Venga a vedere e si persuaderà.

Il cacciatore entrò nel mulino, seguendo il mugnaio, e il conte Gino non lo vide più ricomparire nella sala. Stava per finire la minestra, quando il mugnaio ritornò presso di lui.

 Ebbene,  gli disse Gino,  avete pensato alla cavalcatura e alla guida?

 Sissignore,  rispose il mugnaio,  e siamo abbastanza fortunati, perchè il signor Aminta ci pensa egli.

 Chi è il signor Aminta?

 Quel giovane cacciatore che ha veduto poco fa.

 Che, forse dà cavalli a nolo?

 Nossignore, non ne ha bisogno. È il figlio del re della montagna.

Gino credette lì per lì che il mugnaio gli raccontasse una favola da bambini.

 Caspita!  esclamò.  C'è un re della montagna, qui? E vive nei dominî di un semplice duca?

 Sicuro;  rispose il mugnaio, sorridendo alla celia.  I Guerri si chiamano così, nel nostro paese, tanto son ricchi. Tutto ciò ch'Ella vede dal monte Cimone all'alpe di San Pellegrino appartiene ai Guerri.

 Ah, capisco;  disse Gino.  Perciò li chiamate i re della montagna. E come mai il figlio del re, senza che io abbia avuto l'onore di essergli presentato, si degna di mandarmi una mula e una guida per Querciola?

 Gli ho detto che Vossignoria doveva andare lassù, e il signor Aminta s'è offerto a servirla. Quanto alla presentazione, non ce n'è proprio bisogno. In questi paesi ogni forastiero che arriva è un ospite dei Guerri. La conoscenza, poi, la faranno per istrada.

 Bene!  conchiuse Gino.  Seguitiamo gli usi di questo paese. E datemi le uova, frattanto; non vorrei far troppo aspettare il figlio del re.

 No, scusi;  replicò il mugnaio:  non le posso dar altro. Il signor Aminta se l'avrebbe a male.

 Perchè? Non devo dunque mangiar altro?

 Per ora no, se non le dispiace. Il signor Aminta è escito per mandare l'avviso a casa sua, dov'Ella troverà assai meglio di quello che può offrirle la nostra cucina.

 Oh diamine! È grossa. Eccomi dunque invitato per forza.

 Qui è l'uso, quando passa un forastiero sul territorio dei Guerri.

 Ma qui, scusate, sono in paese abitato.

 Ha ragione; ma il mulino appartiene ai Guerri.

 Ed io mi trovo sul territorio del re, non è vero?  disse Gino, ridendo.  Ma sapete che è un uso piacevolissimo, e che tutti i re dovrebbero introdurlo nei loro Stati? Ottima istituzione, questi re della montagna! Passa un forastiero, in queste gole, e lo invitano a pranzo. Una volta si usava altrimenti; il forastiero, che si arrisicava in questi passi, era invitato bensì, ma a buttarsi con la faccia a terra, e lo svaligiavano senza misericordia. A proposito, e le mie valigie?..

 Le ha fatte prendere il signor Aminta.

 E per che farne, di grazia?

 Per mandarle a casa sua.

 Di bene in meglio!  esclamò Gino, che non sapeva se dovesse ridere, o andare in collera.

Ma perchè andare in collera, poi? Era venuto a cascare nei dominii d'un re, e quel re non somigliava punto al duca di Modena, suo riverito padrone. Questi lo discacciava, quell'altro lo accoglieva. In una cosa sola si manifestava una specie di analogia tra loro; ambedue facevano quel che volevano, senza consultare l'intenzione dei sudditi.

 Io, per altro,  soggiunse Gino, come ultimo atto di protesta,  debbo andare a Querciola.

 Che ci vuol fare, a Querciola?  disse il mugnaio, crollando le spalle.  È un paesaccio.

 Sia quel che gli pare; debbo andarci e ci andrò;  rispose Gino.  Mettete che io abbia da farci degli studi.

 In questo caso potrà sempre inerpicarsi lassù ed arrivarci in un'ora di cammino. Ma, come abitazione, si troverà meglio dai Guerri.

 Dai Guerri? Chi sono i Guerri?

 Gliel ho detto poc'anzi: la famiglia del

 Ah sì, lo ricordo ora, del signor Aminta. Ed anche non ricordandolo, dovevo immaginarmelo.

 Hanno un alloggio molto comodo;  rispose il mugnaio.

 Lo capisco;  disse Gino.  Sarà una reggia, se i padroni sono i re della montagna. E voi mi dite che in un'ora si può andare a Querciola?

 Dalle Vaie, sicuro.

 Le Vaie! Che cosa sono le Vaie?

 Il luogo di abitazione dei

 Basta, ho capito anche questo;  interruppe Gino, ridendo.  Caro amico, vi ringrazio delle vostre informazioni, che finiscono tutte ad un modo, come i salmi. Non mi resta ora che di pagarvi il conto.

 Perdoni, signor mio;  disse il mugnaio, schermendosi.

 Come? Non si usa pagare il conto, alla vostra osteria?

 Si usa, sì; ma in questo caso Ella non ha mangiato che una cattiva minestra E poi, il signor Aminta non permetterebbe.

 Ah, per tutti i re della montagna, ed anche della pianura, questa è grossa davvero. E se io volessi darvi uno scudo

 Quando Vossignoria lo volesse ad ogni costo  rispose l'altro, facendo bocca da ridere.

 Ah, finalmente!  gridò Gino, mettendo mano alla borsa.  Ne vinco una io, sul vostro signor Aminta.

Pagato a quel modo lo scotto, il conte Gino escì dall'osteria, per avviarsi sulla strada che avevano già presa le sue valigie. Quasi sarebbe inutile il dire che lo guidava il mugnaio, poichè egli, ignaro affatto dei luoghi, non avrebbe saputo da qual parte voltarsi.

Passarono sopra un ponte di legno il ruscello che forniva l'acqua al mulino, e di là presero a salire un sentiero largo e sassoso in mezzo ad una boscaglia di cerri, rada nei tronchi, che apparivano grossi e diritti, ma folta in alto, per la diffusione dei rami.

I cerri sono le quercie delle alte convalli, dove il freddo regna più a lungo. Robusti e previdenti, hanno la corteccia più fitta, e le loro ghiande portano il cappuccio lanoso.

Il conte Gino aveva fatto appena un cento metri di strada, quando attraverso i radi tronchi dei cerri vide discendere dall'erta uomini e cavalli.

 To'!  diss'egli.  Una cavalcata. Com'è pittoresca!

 È il signor Aminta che ci viene incontro;  rispose il mugnaio.

 Sempre Aminta!  gridò il conte Gino.  Caro mio, Torquato Tasso dovrà esservi molto riconoscente.

 Chi è questo signore?  domandò candidamente il mugnaio.

 Il padre di Aminta;  rispose Gino.

 Scusi,  replicò quell'altro, sicuro del fatto suo,  il padre del signor Aminta si chiama Francesco.

Gino diede in una matta risata, e il mugnaio pensò ch'egli fosse matto davvero, volendo sbattezzare il signor Francesco Guerri, per chiamarlo Torquato. Ma rise anche lui, vedendo ridere il suo compagno di viaggio.

Il nostro giovanotto era di buon umore, e la cosa vi parrà singolare, in mezzo a tanti dolori che lo avevano accompagnato sulla via dell'esilio. Ma io già ve l'ho detto, Gino Malatesti aveva ventisei anni. Aggiungete la novità del caso, che lo faceva ospite per forza di gente che non lo conosceva affatto, e che egli conosceva anche meno. E poi, non dimenticate la bella natura, questa regina sempre giovane e lieta, che fa anch'essa ogni cosa a suo modo, e che, dentro la cerchia del suo regno, per un giorno almeno, ha potestà di giocondare gli spiriti.

Il nostro giovanotto era di buon umore, e la cosa vi parrà singolare, in mezzo a tanti dolori che lo avevano accompagnato sulla via dell'esilio. Ma io già ve l'ho detto, Gino Malatesti aveva ventisei anni. Aggiungete la novità del caso, che lo faceva ospite per forza di gente che non lo conosceva affatto, e che egli conosceva anche meno. E poi, non dimenticate la bella natura, questa regina sempre giovane e lieta, che fa anch'essa ogni cosa a suo modo, e che, dentro la cerchia del suo regno, per un giorno almeno, ha potestà di giocondare gli spiriti.

La cavalcata intravveduta da Gino si componeva di due soli cavalli. Sul primo torreggiava il signor Aminta; l'altro era condotto a mano da un famiglio.

Come fu a venti passi da Gino, il signor Aminta balzò leggero di sella e gli mosse incontro a piedi.

 Perdoni la libertà grande;  gli disse, scoprendosi.  Gasparino le avrà già detto

 Sì, mi ha detto molto;  rispose Gino.  Ma io non so veramente con qual diritto dovrei dare tanto incomodo a Lei ignoto come sono

 È un viaggiatore: è un ospite;  replicò l'altro, con bella semplicità di parole.

 E non sa ancora il mio nome;  soggiunse Gino, disponendosi a fare la sua presentazione da sè.

 Avrà tempo a dirlo, se vorrà;  disse Aminta.  Gasparino mi aveva accennato che Ella si reca a Querciola, per passarci alcuni giorni.

 Che potrebbero esser mesi;  replicò Gino.

 In quel luogo!  esclamò l'altro.  Ma ci sarà da morire d'inedia.

 Necessità, signor mio!  rispose Gino, stringendosi nelle spalle.

 Rispettiamo la necessità;  disse Aminta, inchinandosi.  Ma non c'è posto per Lei, a Querciola. È un paese di caprai, e non ci son famiglie, ch'io sappia, le quali possano offrirle una ospitalità pur che sia.

 Pure, debbo andarci; sono costretto!  disse Gino, sospirando.

 Ci andrà domani, doman l'altro, quando le piacerà;  rispose il signor Aminta.  Per ora si degni di smontare da noi.

 Non abuserò della sua gentilezza?

 Che dice Ella mai? La nostra casa sarà onorata della sua presenza. Del resto,  soggiunse quel principe ereditario,  che ci staremmo a far noi in queste alte solitudini, se, quando ci arriva un forastiero, non lo accogliessimo a festa? Aggiunga, signor mio, che altrove starebbe peggio che da noi. La vita è dura, tra questi monti, in mezzo ad una gente buona e leale, ma rozza

 Non mi pare, non mi pare;  interruppe Gino.  Si fermi almeno alle buone qualità, se non vuole aggiungerne delle altre.

Il signor Aminta ringraziò col gesto, e additò al forastiero il cavallo che era stato condotto per lui. Anzi, per colmo di gentilezza, volle mettersi egli stesso dall'altra parte, per offrirgli le redini.

Gino non aveva bisogno d'aiuti, e lo dimostrò subito, balzando in sella con una grazia di cavaliere perfetto. Nella perfezione del cavaliere c'entrano anche, lo immaginate, i ventisei anni di cui lo ha privilegiato il suo atto di nascita.

Il cavallo di Gino Malatesti era un bel rovano, di larga cervice e di garretti robusti, con due occhioni intelligenti e gli orecchi tesi, che indicavano una serietà di nobile animale, non ignaro della importanza degli uffici a cui è destinato. Gino gli palpò amorevolmente il collo, e n'ebbe in risposta un nitrito di soddisfazione.

 Strano!  diss'egli.  Non mi aspettavo di trovar cavalli, in queste balze.

 Cavalli di montagna, signor mio;  rispose Aminta.  Sono addestrati a correre per i greppi, e son saldi di passo come le mule.

Aminta era montato in sella anche lui, e andava primo, per insegnare la strada. Così salirono l'erta del monte, e di là dalla boscaglia dei cerri il conte Gino vide una piccola valle, con un'altra costiera, vestita da un'altra boscaglia. Ma lassù, dalle vette dei faggi e delle quercie, appariva un campanile; e accanto al campanile una mobile striscia di fumo indicava la presenza di una casa. C'era abitato, lassù, e i bisogni dello stomaco e quei dello spirito potevano esservi soddisfatti egualmente.

 È là;  disse il signor Aminta, voltandosi al forastiero e additando il campanile.  Fra dieci minuti ci siamo.

Andando avanti, e girando intorno alla macchia, si scopriva un po' meglio il paese. Là, dietro il campanile, era un ceppo di case, le une a ridosso delle altre, male ordinate e di misero aspetto. Anche la chiesa doveva essere una povera cosa, a giudicarne dal campanile, corto, gobbo e tutto sbrendolato nell'intonaco. Ritornando alle case, d'intonaco non si vedeva pur l'ombra; erano tutte murate a falde di macigno, ed apparivano così nere, da lasciar credere che tra pietra e pietra non fosse stata neanche messa la calce. Un po' meglio in assetto era la via che conduceva all'abitato, e questa parve a Gino una buona testimonianza della cura che i re della montagna avevano dei loro cavalli.

All'ultima svolta della strada gli si mostrò finalmente la chiesa, in tutta la sua maestà decaduta. Il finestrone della facciata aveva avuto in altri tempi una cornice di stucco, e certamente un cornicione doveva aver collegato il timpano alla gronda del tetto; ma cornice e cornicione erano spariti da un pezzo. Anche il muro, nella parte superiore, era tutto scrostato; solo nella inferiore, accanto alla porta d'ingresso, durava ancora ne' suoi contorni di rosso mattone un san Cristoforo seduto, col bambino Gesù posato sulla sua spalla destra, e con la mano levata. In atto di benedire i popoli, o di prendere al Santo una ciocca de' suoi capegli rabbuffati? Il pittore aveva lavorato in modo da lasciar adito a tutt'e due le supposizioni, e magari ad una terza. O san Cristoforo delle Vaie! nobile tipo di taglialegna, certamente copiato sulla faccia del luogo! Voi eravate enorme, come vuole la leggenda. Bontà vostra, che restavate seduto (o inginocchiato, non rammento più bene); se no, sfondavate con la testa la gronda del tetto.

Il Gino ammirò san Cristoforo e tirò via, seguitando il compagno. La via, rasentando il fianco della chiesa, si faceva più stretta, poichè sorgeva dall'altra parte una casetta di due piani, fatta a capanna, con una piccola scala all'aperto. Sull'ultimo gradino di quella scala era seduto un prete, magro ed ossuto, che portava in testa, scambio del berretto a tre spicchi, una papalina di velluto nero, e se ne stava là in osservazione, beatamente traendo boccate di fumo da una vecchia e corta pipa di Gessèmani.

 Don Pietro, buona sera!  disse il signor Aminta passando, e levandosi il cappello.  Viene da noi?

 Dopo cena, sicuramente.

 Perchè non prima?

 Caro Aminta, la pentola è al fuoco, e non bisogna mancarle di riguardo. Poveraccia! È quella di tutti i giorni, e un sentimento di gratitudine comanda di esserle fedeli. Non vi pare?

 È giusto, è giusto;  disse il signor Aminta.  A più tardi, dunque; e buon appetito.

 Non manca mai, quello! Altrettanto a voi e al vostro compagno di viaggio.

Così dicendo, Don Pietro si alzò a mezzo, levandosi la sua papalina dal capo.

Gino rese il saluto, e disse frattanto in cuor suo:

 Ecco qua: noi ci lagniamo di dover vivere nelle nostre città capitali, che hanno il grave torto di non rassomigliar tutte a Parigi. E qui, e in tanti luoghi consimili tra i monti, vive un popolo industre e buono, che si contenta de' suoi villaggi appollaiati sui greppi, nè sembra accorgersi che le sue abitazioni sono catapecchie e stamberghe. Anche qui ci sono i ricchi, i potenti, e si adattano al modesto costume dei padri loro. Non manca neppure il re, e questo re della montagna molto probabilmente non possiede le querci per sedercisi sotto, a render giustizia, ma per tagliarle via via e mandarle ai lontani cantieri. Qui non saranno ricercatezze di cibo, non salse, non intingoli; ma pezzi di cinghiale, uccelli di passo, quarti di bove o d'agnello, arrostiti all'omerica, e magari serviti in piatti di argilla, su d'una tovaglia di canapa. Ma che importa? Sono felici egualmente.

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